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 2009  novembre 24 Martedì calendario

BACON, LE RADICI SADOMASO DEL GENIO


L’arte è ossessione della vita» diceva Francis Bacon, il grande pittore scomparso nel 1992 e oggi considerato uno dei maestri del XX secolo. La sua tavolozza però si è nutrita anche di morte, di fantasmi, di sensi di colpa, di dolore inflitto e subìto. Anzi, secondo lo storico dell’arte John Richardson, è stato proprio il lato nero di una vera e propria nevrosi sadomasochista a generare le opere più interessanti e risolte di Bacon. Senza questi aspetti torbidi, senza un’esistenza di eccessi sessuali ad alta gradazione alcolica, l’artista sarebbe stato, magari, soltanto un pittore che «semplicemente non era capace di disegnare». Roma gli ha già aperto le porte della Galleria Borghese in un confronto con un altro pittore estremo come Caravaggio (fino al 20 gennaio).
Richardson ha conosciuto Bacon negli anni Quaranta e oggi, sul New York Review of Books, racconta alcuni aneddoti che aiutano a chiarire anche il suo modo di dipingere e di creare. Tutto comincia con l’episodio di papà Bacon che picchia selvaggiamente il sedicenne Francis dopo averlo trovato con indosso la biancheria intima della madre. Al capitano inglese in pensione che si era trasferito ad allevare e allenare cavalli da corsa a Dublino (dove il pittore nasce nel 1909), l’idea di avere un figlio omosessuale non piaceva per niente. Da qui l’eccesso di violenza cui segue la fuga del giovane che raggiunge Berlino e poi Parigi, dove resta folgorato da Pablo Picasso. Secondo Richardson (che prima di dedicarsi a Bacon ha scritto proprio una delle più apprezzate biografie dell’artista spagnolo), il trauma dello scontro fisico con il padre è all’origine di un vero e proprio disturbo erotico in cui desiderio e sopraffazione - fisica o psicologica - vanno a braccetto.
Così ecco entrare in scena il pilota di caccia Peter Lacy, definito da Richardson un soggetto quasi psicopatico, con cui Bacon ha una relazione tutta sesso e sangue. Tanto che un giorno, in uno «stato di demenza alcolica», il pilota lo fa volare contro una finestra ferendolo al volto. «Dopo - scrive Richardson - Bacon lo amava ancora di più». A quanto pare Lacy sfogava la sua rabbia non solo sull’artista ma anche sulle tele che trovava nello studio. E, per contro, Bacon ha lasciato dell’amante un memorabile ritratto in cui il suo volto sfuggente e deformato contrasta con le linee orizzontali dello sfondo.
«Ogni volta che vado dal macellaio - affermava intanto il pittore - penso che è straordinario che non sia io al posto dell’animale». Ma il passaggio da vittima a carnefice è breve. A farne le spese è la nuova passione di Bacon, George Dyer che si toglie la vita nel bagno di una camera d’albergo nel 1971. L’artista è a Parigi per inaugurare la grande mostra allestita al Grand Palais. Sembra che dopo, impassibile, abbia accompagnato il Presidente Pompidou a visitare l’esposizione e partecipato al pranzo organizzato in suo onore. Dyer aveva tentato il suicidio altre due volte: una in Grecia e l’altra a New York, dove lo stesso Richardson era stato testimone della lite finita con una dose di barbiturici e una bottiglia di scotch. «Bacon lo provocava - scrive lo studioso - fino a ottenere un vero e proprio collasso psicologico. Dopo, nelle prime ore del mattino, quelle che preferiva per lavorare, esorcizzava i suoi sensi di colpa, la sua rabbia e il suo rimorso realizzando immagini di Dyer che, come egli stesso amava dire, miravano a colpire il nostro sistema nervoso».
Il suo amante è inquadrato accovacciato, ferito, crocifisso, abita spazi indefinibili, scatole dell’incertezza, luoghi senz’aria dominati da una claustrofobia che rivela il drammatico stato di tutti gli esseri umani, prigionieri dell’esistenza. E, in effetti, anche dopo la tragica morte, il volto dolente e la carne sofferente di George, il piccolo ex ladruncolo amato ma umiliato e offeso, continua ad alimentare la pittura di Francis. Assieme a pontefici che gridano, carcasse, crocifissioni, ghigni, siringhe conficcate nelle braccia.
Bacon, dice sorprendentemente Richardson, non era capace di articolare la figura nello spazio. «Le sue celebri versioni di Papa Innocenzo X di Velázquez sono un magnifico colpo di fortuna oppure un disastro quasi totale. Era capace di fare un grido ma era senza speranza nel realizzare le mani, così le amputava, le nascondeva, le deformava». Ma lui voleva «dipingere il grido prima dell’orrore» o anche «dipingere come Velázquez ma con una materia pittorica che assomigliasse alla pelle di un ippopotamo». Si comportava come un voyeur a caccia di relitti umani in un disordinato sottosuolo. Un po’ sadomasochista anche lui, come l’antieroe di Dostoevskij, faceva dormire su un tavolo in cucina la sua governante cieca. E la mandava a distrarre i negozianti per poter liberamente rubare generi alimentari, cosmetici e, soprattutto, il lucido da scarpe per tingersi i capelli.