Paolo Di Stefano, Corriere della sera 24/11/2009, 24 novembre 2009
Se il carcere di oggi ricorda il Seicento Si dice che per conoscere un Paese basta andare a guardare le sue galere
Se il carcere di oggi ricorda il Seicento Si dice che per conoscere un Paese basta andare a guardare le sue galere. Se così fosse, dovremmo ricavarne che l’Italia è da secoli sempre la stessa. Il poeta russo Osip Mandel’štam, che subì la prigionia staliniana, nel suo Discorso su Dante scrisse che «nel subcosciente degli italiani il carcere svolgeva un ruolo preminente, veniva succhiato col latte. Il Quattrocento imprigionava gli uomini con tale disinvoltura da rendere le carceri accessibili al pubblico quanto le chiese o i nostri musei». cambiato qualcosa in cinquecento anni? Poco, se è vero – come osservava Adriano Sofri di recente – che in Italia 30 mila persone all’anno entrano in carcere per uscirne nel giro di tre giorni. La frase di Mandel’štam viene ricordata da Andrea Battistini in un saggio contenuto nel volume Carceri vere e d’invenzione dal tardo Cinquecento al Novecento (a cura di Giuseppe Traina e Nunzio Zago, Bonanno Editore). Battistini si concentra sulla vita carceraria nel Seicento, ripercorrendo i memoriali in versi e in prosa di scrittori e filosofi finiti in cella durante la Controriforma. vero che gli scrittori reclusi, in genere, lavorano di metafora e che tra le sbarre Campanella, già tentato dal suicidio, elaborò la sua grande utopia. Ma qualche secolo prima Jacopone, rinchiuso per ordine di Bonifacio VIII in un sotterraneo vescovile, raccontò, in una celebre lauda, di essere costretto a scontare la scomunica al freddo, legato in ceppi e in catene, nutrito di pane raffermo e rancida brodaglia che ogni due o tre giorni gli veniva calata dall’alto. Jacopone ne uscì vivo, ma di maltrattamenti in carcere si poteva morire allora esattamente come si può morire oggi. Saranno cambiate le forme della tortura, non la sostanza. Il poeta napoletano Giambattista Marino, incarcerato più volte in un’età in cui mancavano i fondamentali diritti umani, riuscì a gettare in farsa la sua pena e si descrisse «fatto rauco, smilzo, lungo e secco » in una prigione simile a «un infernetto piccolino, come quel fornellino da cocer pasticci». Il siciliano Paolo Maura racconta che il suo tugurio era abitato da topi che «parianu cavaddi burgugnuni», da «scravagghi», da «piducchi» e da cimici che «facianu battagghiuni». La detenzione, secondo lui, era una ragnatela che pigliava solo mosche e non mosconi. Il bohémien lombardo Fabio Varese passò trenta giorni in cella, dove subì i peggiori tormenti fisici e i flagelli più perversi dai suoi aguzzini, tra cui trenta volte «el foeug ai pé». Sadismo da «universo concentrazionario», ha scritto Vincenzo Consolo a proposito delle pene inflitte a un altro poeta dialettale, il siciliano Antonio Veneziano, al tempo di Filippo II. In un capitolo autobiografico, Cervantes fa incontrare Don Chisciotte, in una locanda, con un detenuto che rievoca la sua via crucis: ogni giorno c’era qualcuno «da impiccare, un altro da impalare, un altro a cui mozzare le orecchie, e ciò per futili motivi ». In carcere la storia si è fermata. Le immagini che in questi giorni ritraggono il cadavere di Stefano Cucchi potrebbero stare benissimo nelle memorie di un secolo, come il Seicento, tra i più repressivi e violenti della nostra storia moderna.