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 2009  novembre 23 Lunedì calendario

Il "banchiere di Obama" che ha schivato i rischi dei titoli "subprime" - L’ascesa di Jamie Dimon, Ceo di JP Morgan è diventato nel corso della crisi l’uomo di Wall Street più a suo agio nella Casa Bianca, non per benemerenze politiche ma per suoi meriti concreti - Frequenta la Casa Bianca più di ogni altro banchiere di Wall Street

Il "banchiere di Obama" che ha schivato i rischi dei titoli "subprime" - L’ascesa di Jamie Dimon, Ceo di JP Morgan è diventato nel corso della crisi l’uomo di Wall Street più a suo agio nella Casa Bianca, non per benemerenze politiche ma per suoi meriti concreti - Frequenta la Casa Bianca più di ogni altro banchiere di Wall Street. Ha costanti rapporti con Rahm Emanuel, capo di gabinetto e braccio destro del presidente. Non perde occasione come di recente in un articolo sul Washington Post per difendere il ministro del Tesoro (e suo amico) Tim Geithner dagli attacchi furiosi della destra. E lo stesso Barack Obama, che lo chiama sempre "Jamie", cioè con il soprannome, lo considera l’esponente della comunità finanziaria più vicino a lui. Certo, James Dimon, presidente e chief executive della JPMorganChase, è da sempre un democratico, ma non si è guadagnato la fama di "banchiere di Obama" né attraverso benemerenze politiche, né con contributi sospetti: è stato invece il ruolo nella tempesta di Wall Street a proiettare il cinquantatreenne executive al centro dei rapporti tra New York e Washington, tra il mondo della politica e quello della finanza. Secondo Duff McDonald, autore di "Last man standing" (L’ultimo uomo in piedi), un libro di 340 pagine su Jamie Dimon appena pubblicato da Simon & Schuster (ed è la seconda biografia uscita quest’anno su di lui), è stato anche grazie al "coraggio e al buon senso" del capo della JPMorganChase che Wall Street ha evitato un disastro ancora peggiore. Di sicuro la crisi si è rivelata un’occasione d’oro per la banca newyorkese: la quale, a differenza delle concorrenti e grazie alla cautela del chief executive, non aveva investito massicciamente nei titoli legati ai mutui subprime e così, quando il mercato immobiliare è andato a gambe all’aria, si è trovata con i bilanci più solidi e con più mezzi a disposizione per comprare altri istituti a prezzo di saldo. Nel marzo del 2008 fu proprio Dimon, su pressione del governo, a rilevare la Bear Stearns prima che fallisse: non solo pagò pochissimo per la celebre banca d’investimenti (tanto che una settimana dopo l’accordo fu costretto ad alzare il prezzo da due dollari a 10 per azione per evitare polemiche), ma ottenne anche un prestito ad hoc di 30 miliardi di dollari da parte dello stato federale. Nel settembre dell’anno scorso la JPMorganChase portò a termine un altro colpo, acquisendo per 1,9 miliardi di dollari la WaMu (Washington Mutual), la più grande cassa di risparmio americana. Soffocata da mutui e problemi di carte di credito, la WaMu, che aveva il quartiere generale a Seattle, fu costretta ad avviare le procedure per il Chapter 11, diventando così la protagonista del più grave fallimento di un istituto di credito nella storia americana. Dimon, ovviamente, si accollò anche le perdite della WaMu per circa 31 miliardi di dollari, ma in cambio conquistò la montagna di depositi bancari e la rete di filiali che ora gli permette di competere con Bank of America e di occupare la prima posizione nella graduatorie della banche americane per capitalizzazione di borsa. Le due maxiacquisizioni non hanno impedito alla JPMorganChase di presentare bilanci positivi e di vedere crescere le quotazioni in Borsa. Nel terzo trimestre di quest’anno gli utili della banca sono stati di 3,6 miliardi di dollari: grazie soprattutto ai guadagni delle attività nel reddito fisso (5 miliardi) ben superiori alle nelle carte di credito (700 milioni). Questi successi, che fanno della JPMorgan Chase l’unica banca americana assieme alla Goldman Sachs a essersi rafforzata durante la tempesta finanziaria, sono in gran parte legati allo stile manageriale di Dimon. Il quale, fino a un paio di anni fa, era un personaggio relativamente sconosciuto al largo pubblico, mentre ora i suoi capelli brizzolati compaiono regolarmente sulle copertine delle riviste, viene intervistato spesso dalle televisioni, e c’è anche chi, come McDonald, lo considera "il più importante banchiere del mondo". E’ veramente così? Come ha fatto Dimon a rivoluzionare a suo vantaggio la mappa del potere finanziario? E come si spiega l’ascesa improvvisa di questo giovane finanziere? In tempi non sospetti, più di due anni fa, l’Economist ne parlò come "lo scalatore prudente". Molti suoi colleghi, adesso, parlano di una profezia avveratasi e ricordano le tappe di una carriera velocissima. Nato nel 1956 a Queens, una delle cinque circoscrizioni di New York, Dimon è di lontane origini greche. Sia il nonno che il padre erano agenti di cambio. Dopo gli studi a Tufts, una antica università nell’area di Boston, e un master alla Harvard Business School, il giovane Jamie rifiutò le offerte di lavoro della Goldman Sachs e della Morgan Stanley, accettando invece un incarico meno retribuito ma più formativo al fianco di un amico di famiglia, Sandy Weill, che allora guidava la American Express. Per Weill quell’esperienza segnò una delle poche sconfitte di una carriera gloriosa: forse addirittura l’unica. Fu mandato via poco dopo dal board dall’American Express e si rimboccò le maniche, ricominciando da una piccola società di Baltimora chiamata Commercial Credit e portandosi dietro Dimon. Con una serie di coraggiose (e a volte spericolate) acquisizioni, i due Weill nella posizione di grande architetto, Dimon di suo braccio destro allargarono il campo di azione e riuscirono a mettere le mani su Citicorp, creando in poco più di un decennio il primo supermercato della finanza globale. Dimon, di 23 anni più giovane di Weill, era considerato il suo erede naturale. Ma la partnership si ruppe come d’incanto. Il giovane delfino, che nel frattempo si era fatto molti nemici, si rifiutò di promuovere la figlia del capo e fu licenziato nel novembre 1998. Per 16 mesi fu senza lavoro. Per consolarsi, cominciò a leggere Shakespeare e a prendere lezioni di boxe: uno sport che gli era congeniale, visto il carattere duro, aggressivo, e la sua fama di mastino. Gli fu poi affidata la guida di BanK One, un gruppo bancario di Chicago che era in difficoltà. Si trasferì nella città dell’Illinois, dove non solo intrecciò rapporti con la politica locale, a cominciare da Rahm Emanuel e dallo stesso Obama, ma riuscì a rimettere in sesto l’azienda e a venderla nel 2004 per 58 miliardi di dollari alla JPMorganChase, cioè al colosso nato dalla fusione di una banca commerciale (Chase Manhattan) con la banca d’affari fondata nell’ottocento dalla famiglia Morgan. Dopo due anni Dimon finì al timone anche del mega istituto bancario. Non perse tempo. Muovendosi in fretta (ma anche con estrema cautela) e confermando la sua fama, tagliò i costi, eliminò le sovrapposizioni, aprì nuove sedi e soprattutto si tenne lontano dai miraggi dei mutui subprime. Così, quando la crisi scoppiò nel giugno dell’anno scorso, la JPMorgan era tra le poche a poter approfittare delle difficoltà altrui per conquistare nuove posizioni. Gli avversari di Dimon, il cui numero aumenta proporzionalmente alla sua fama, sostengono che dietro a tanti colpi messi a segno ci siano state le forti amicizie politiche. Non c’è dubbio che il chief executive della JPMorganChase abbia potuto contare, soprattutto nei giorni caldi della Bear Stearns, sul fatto che sedeva nel consiglio di amministrazione della Federal Reserve di New York e che lavorava molto bene assieme all’allora presidente (e futuro ministro), Timothy Geithner. Ma al di là di questi contatti personali è stata soprattutto la posizione di forza della banca e lo stile di Geithner sempre calmo, grande lavoratore, con solidi principi etici a facilitare l’ascesa. Anche Dimon, del resto, ha dovuto subire alcune forzature da parte del governo. Come quando ha accettato un prestito federale di 25 miliardi di dollari, non perché ne avesse veramente bisogno, ma per non rompere il fronte delle banche. (Quei soldi sono già stati restituiti e ora il governo si appresta a mettere all’asta i warrant concessi in collegamento al prestito.) Per il momento il chief executive della JPMorganChase si concentra sul consolidamento delle acquisizioni e sulla riforma del sistema finanziario. Ha preso posizione, ad esempio, contro una legislazione ad hoc per gli istituti "too big to fail", cioè troppo grandi per fallire senza creare rischi sistemici. "L’economia globale ha detto richiede non solo banche di grandi dimensioni ma anche disposte ad accettare il rischio del fallimento". Ma che farà nel futuro il "banchiere di Obama"? Si accontenterà di restare a Wall Street? Una voce che circola con insistenza, specie quando si fanno più duri gli attacchi della destra a Geithner, è che in un prossimo futuro il presidente possa chiedere proprio al suo amico "Jamie" di diventare ministro del Tesoro.