Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  novembre 22 Domenica calendario

GLI ARDORI DEL VECCHIO WOLFGANG


Un uomo che ama non è un uomo qualsiasi. E se alla bella età di 73 anni suonati (quasi 74) ama ricambiato una diciannovenne, come minimo deve chiamarsi Johann Wolfgang Goethe. Si chiama appunto così il protagonista dell’ultimo romanzo del tedesco Martin Walser tradotto per Sugarco da Francesco Coppellotti (pp. 243, e19,50). La coprotagonista, la giovanissima contessina von Levetzow, di nome faceva Ulrike: proprio come la misteriosa Ulrike von Egloff-Colombier cui il romanzo walseriano è dedicato. Innamorato come il suo Ein liebender Mann dunque, alla bella età di 82 anni suonati, Walser - il romanziere epico di Una zampillante fontana, il pamphlettista polemico di La banalità del bene, il giallista irriverente che in Morte di un critico immaginava di far fuori il censore televisivo delle belle lettere Marcel Reich Ranicki - si rivela autore tenero, dolente, romantico. Ha la malinconia degli esseri lacustri. Ed è sul lago di Costanza, dove è nato e dove vive, che lo raggiungiamo. Per chiedergli ulteriori dettagli di una vicenda in cui il grande poeta è senza troppi giri di parole messo a nudo.
Una storia vera?
«Ovviamente non si può dire che quella storia sia accaduta così come la racconto. Raccontando una storia però si vuole sempre svelare o espiare qualcosa di sé che non si potrebbe dire in modo più radicale e veritiero. come quando i bambini giocano con le bambole. Prendono in mano i loro pupazzi e mettono in scena azioni e passioni che si muovono dentro di loro. La motivazione, l’energia che ti induce a inventare una storia, proviene sempre dalla realtà. Anche in questo senso la storia d’amore di Goethe e Ulrike ha una sua comprovata verità. Il vecchio poeta conobbe e amò davvero la contessina von Levetzow, mezzo secolo più giovane di lui».
Verità comprovata da rare prove. Una poesia: la Marienbader Elegie, tra le più belle poesie d’amore mai scritte. E una nota: scritta dalla cameriera particolare di damigella Ulrike il giorno della sua morte.
«Già. Ma con questo si dice - e si tace - abbastanza per raccontare moltissimo in un romanzo di finzione. Sappiamo che Goethe, alle terme di Marienbad, nell’estate del 1823 incontrò la bellissima diciannovenne. Sappiamo che l’amata diede disposizione alla sua domestica di conservare, bruciare e seppellire nella propria tomba le lettere di quell’amante. Nient’altro. Dell’uomo di fama mondiale, vate nazionale, poeta universale, abbiamo letto tutto: agenda delle visite, taccuini di viaggio, diari, lettere, appunti, poesie. Di quel suo estremo, altissimo amore che gridava di dolore fino al cielo e gli ispirò versi sublimi, nulla. Ciò mi ha consentito di immaginare tutto. Di figurarmi nei dettagli l’intera vicenda. Persino di scrivere le lettere perdute di Goethe».
Un bell’ardire. Impresa faustiana: nessuno se n’è offeso? Critici, accademici, professori…
«Anzi, è stata l’aura sacrale del sommo Goethe a proteggermi. Questo per me è già il terzo romanzo in cui racconto di amanti divisi da un’enorme distanza di età. In Angstblüte, ”Il fiore dell’angoscia”, era lei ad avere quasi il doppio degli anni di lui. In L’istante dell’amore (tradotto da Sugarco) era lui ad amare una donna più giovane. I critici gridarono allo scandalo: quel che raccontavo - protestò Elke Heidenreich, giornalista intelligente che sulla Faz mi diede del vecchio lussurioso - era esteticamente, moralmente, biologicamente impossibile. Goethe invece ammetteva e sublimava una simile impossibilità. Perfino Heidenreich si commosse per quell’incontro sessuale trasformato in un profondo ”scambio di anime”».
Chi era Ulrike per Goethe? Una bambina? Una donna? Un essere puro, diverso, lontano?
«Ulrike era la giovinezza. Una bambina appena divenuta una donna. Un paesaggio su cui il sole non era ancora sorto e che prende a vivere nella luce. Goethe è incantato dai suoi colori, dai suoi mutevoli occhi verde-azzurri. Dal modo in cui si muove e parla. Ne è rapito».
E le parole di lui rapiscono lei? Più che versi poetati, nel romanzo sono frasi di conversazione: un’arte poco tedesca.
«Goethe, consigliere aulico, era galantuomo coltissimo e brillante. Sapeva di scienza oltre che di letteratura. Ma anche quale amabile conversatore tradisce i suoi anni: parla di pietre, piante e fiori, quando Ulrike, figlia della modernità, vorrebbe sentir dire di telai e di macchine. L’uomo che l’ama gli appare inevitabilmente - ironizzava suo figlio August - un tipo rococò».
L’ironia. Lei stesso descrivendo il vecchio amante se la concede.
«Fosse caduto in ginocchio ai piedi di lei avrebbe fatto fatica a rialzarsi. Faticava anche a tirarsi su dalla poltrona».
Lo spoglia spietatamente davanti allo specchio.
«Già, quel nudo è spietato. E il poeta è spogliato delle sue armi più sottili, le parole. Non ne conosce una che non sia volgare, scientifica o latina per dire il suo sesso: per bigottismo o pruderie il tedesco ottocentesco aveva escluso il nome del membro maschile dal vocabolario della lingua viva».
Però, nudo o vestito, era ancora un bell’uomo.
«’Bellezza, forza, maestà. Dominio di sé, mitezza, dignità…”: così lo descrisse un giovane poeta entusiasta, facendolo sorridere».
Sorrideva, ma piaceva alle donne. Per Ulrike aveva dimenticato Christiane, la moglie: tra tante donne «l’unica che fece di lui un uomo»?
«Christiane Vulpius, amata per una vita, sposata in tarda età e morta pochi anni prima di quell’amore a Marienbad, ebbe un ruolo di privilegio per Goethe. Al contrario di tutte le grandame e nobildonne che egli amò, gli era socialmente sottoposta. Non lo intimidiva. Lo faceva sentire un uomo».
E Un uomo che ama è più che un poeta?
«Credo proprio di sì. Goethe era convinto che grazie alla poesia avrebbe saputo rendersi padrone di qualsiasi esperienza. Quell’amore estremo doveva smentirlo. Il dolore della fine, del tempo che passa, la paura di una perdita, l’ansia di un abbandono dovevano tormentarlo fino all’ultimo. Nemmeno quella sua ”Grande elegia”, la Marienbader Elegie, poté liberarlo dalla sofferenza. Esiste certamente un dolore senza poesia: sarà un dolore muto. Ma una grande poesia non sarà senza dolore e senza amore: non emanciperà il suo autore né dall’uno né dall’altro».
Gli amori senili indignano in politica ma riempiono gli animi poetici di dignità. Amò e ne scrisse René Chateaubriand, che nei frammenti lirici di Amore e vecchiaia (Adelphi) intonava i suoi «Canti di tristezza per una sconosciuta». Un’attempata Doris Lessing prese ancora la penna per dire in prosa che i capelli bianchi non le avrebbero impedito di Amare, ancora (Feltrinelli). Era Luis Sepúlveda a raccontare Il vecchio che leggeva romanzi d’amore (Guanda), e Gabriel García Márquez, in Memoria delle mie puttane tristi (Mondadori), a offrire consolazione a un nonagenario con le grazie di un’adolescente. autobiografico L’animale morente di Philip Roth, che in Il fantasma esce di scena (Einaudi) chiude il sipario sull’alter ego Nathan Zuckerman con una tardiva love story. Anche gli italiani hanno scritto prose altissime sul tema: come L’Età estrema di Romano Luperini (Sellerio), gli amori del vecchio Moses narrati in Bianco da Marco Missiroli (Guanda) e la triste vicenda di Il badante di Che Guevara (Salerno) evocata dal cantautore Mario Castelnuovo nel romanzo con cui esordisce in letteratura. /