Cloe Piccoli, la Repubblica 22/11/2009, 22 novembre 2009
L´architetto donna più famoso al mondo, vincitrice del Pritzker Prize nel 2004, l´equivalente del Nobel per l´architettura, ma lei non ne fa una questione personale
L´architetto donna più famoso al mondo, vincitrice del Pritzker Prize nel 2004, l´equivalente del Nobel per l´architettura, ma lei non ne fa una questione personale. «Il merito non è mio, è dello studio. Davvero. La formula vincente è il team. E il lavoro duro». Elegante e rigorosa nella camicia di Yamamoto blu scuro dal taglio asimmetrico come la sua architettura, occhi castani e determinati, resi ancor più decisi dall´eyeliner, Zaha Hadid, è a Roma per l´apertura del suo progetto più ambizioso, il MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo. Il New York Times l´ha già paragonato per la sua portata innovativa all´architettura del Bernini. E, in effetti, il MAXXI è un potente simbolo del contemporaneo, che lancia piani inclinati e apre gigantesche vetrate sulla città, creando un magico cortocircuito fra architettura e paesaggio. In questo Zaha Hadid è maestra. Lei, che ha il talento di scandire gli edifici in linee fluide e campi magnetici, e di collegarli idealmente all´urbanistica e alla natura, dalle stratificazioni storiche alla morfologia geologica. In questo brillante pomeriggio d´autunno è seduta a un tavolo di fortuna installato al piano terreno fra ponti aerei, pareti curve e soffitti altissimi. Intorno tutto si muove, centinaia di persone lavorano all´inaugurazione, mentre lei che è a Roma con il suo socio Patrick Schumacher, diversi progettisti dello studio, i fotografi, l´intero staff di comunicazione, e la pierre londinese Erika Bolton, osserva immobile, come una sfinge, che tutto proceda per il verso giusto e intanto si racconta. «Sono venuta per la prima volta nel 1998, qui c´erano ancora le caserme, ho visto il posto, e l´ho rivisto. Nei i primi tre anni ho continuato a venire almeno una volta al mese. E anche quando ero altrove pensavo al progetto, l´avevo sempre in mente. Succede così quando cerco un´idea. Faccio disegni su disegni, a mano. Contemporaneamente anche lo studio sviluppa il pensiero con altri disegni, dipinti, modelli, fino a che, a un certo punto, il concetto si staglia nitido. Da quel momento parte un lavoro intensissimo al computer per renderlo perfetto, dall´architettura, ai dettagli più piccoli». Nata a Bagdad nel 1950, laureata a Beirut in matematica, e poi a Londra all´Architectural Association School (Aa), la scuola dell´avanguardia dove studia con Rem Koolhaas, Zaha Hadid parla di cultura mediorientale. «Ho lasciato Bagdad a sedici anni, è una città che amo. Sono le mie radici, la mia cultura d´origine. trent´anni che non ci torno. Non ho più famiglia lì. Ma prima o poi ci andrò, è fra i miei desideri. Ho il ricordo di uno stile di vita e di una cultura eccellenti». Ma Hadid non è il tipo da perdersi in nostalgie, e passa subito al periodo londinese. «Nel 1972 arrivo a Londra da Beirut. Avevo già molti amici perché da alcuni anni vi passavo le estati. Londra negli anni Settanta era il fulcro della sperimentazione e del pensiero, lì succedeva tutto. Era il posto giusto per me. Anche se, devo dire, allora non c´erano molti stranieri, soprattutto se varcavi il confine della metropoli. Se eri straniera, eri considerata con un pizzico d´esotismo, ma al tempo stesso con un´esperienza diversa da spendere». E quest´esperienza Hadid la spende subito nella stessa Aa. «Mi sono laureata un giorno e il giorno dopo ho iniziato a insegnare. un mestiere che mi piace perché posso sperimentare e condividere. Tu sei quello che pone i problemi da risolvere. Ed è curioso vedere come risponde una classe di venticinque persone. Hai venticinque risposte». lo stesso periodo in cui, dopo un breve passaggio all´Oma, Office for Metropolitan Architecture, di Rem Koolhaas e Elia Zenghelis, fonda il suo studio: è il 1979. Oggi nello studio Zaha Hadid Architects, un´ex scuola del Diciannovesimo secolo a Clerkenwell, in centro a Londra, lavorano duecentocinquanta architetti di ogni nazionalità. Lei vive a dieci minuti a piedi. E, nei rari momenti in cui non lavora, nuota. «L´acqua è il mio elemento, mi rilassa». Il suo studio è un laboratorio sperimentale dove lei, che ha messo in crisi il concetto di spazio come entità assoluta, scardinato la prospettiva unica in favore della molteplicità dei punti di vista, cerca la soluzione per un´architettura contemporanea in cui vivere bene. «Lo spazio architettonico deve essere un luogo in cui le persone si sentano bene, come quando si trovano in un paesaggio naturale. È questo il vero lusso, indipendentemente dal costo: uno spazio che trasmetta emozioni, che sviluppi visioni». E la sua è un´architettura di visioni, a iniziare dai primi progetti come la piccola stazione dei pompieri nella sede della fabbrica Vitra a Weil am Rhein in Germania, al confine con la Svizzera. «Nella Fire Station, ho avuto la possibilità di sperimentare liberamente, e di realizzare visioni che avevo disegnato sulla carta. Qui ho tradotto in tre dimensioni la compresenza di piani e linee che si intersecano. Ho ritagliato aperture asimmetriche che fanno entrare nell´architettura squarci e visioni del paesaggio con un taglio, a volte, addirittura inaudito». Zaha Hadid parla rapidamente in inglese, focalizza un tema, e poi parte in una serie di declinazioni seguendo un pensiero netto ma che si dirama in varie direzioni, a volte si ferma un attimo a riflettere, osserva un dettaglio dell´architettura del MAXXI, che qui dal piano terra si apre su una piazza che fa parte dell´edificio, e riprende il discorso. «Per la Fire Station avevo fatto veramente molti disegni, e persino dipinti. No, non mi considero una pittrice, ma a un certo punto, negli anni Ottanta e Novanta, non c´era disegno tecnico, o un altro mezzo che mi desse la stessa possibilità della pittura di realizzare le visioni che avevo in mente». L´architetto ama l´arte. Il punto di non ritorno per la sua architettura è il Suprematismo, e in particolare Malevic, che ama moltissimo. È a lui che deve l´intuizione di liberarsi dalla forza di gravità. In senso metaforico ovviamente. «Il Suprematismo è l´inizio della sperimentazione fuori dalle linee tracciate. È la possibilità di un dipinto nero su nero, della frammentazione, della levità, di suggestioni visionarie mai immaginate prima. E che prima di me hanno influenzato l´architettura modernista da Mies van der Rohe in poi». Hadid tocca così tanti argomenti che è affascinante seguirla, cita un termine, un nome, e si aprono una serie di link, riferimenti, storie e geografie. Quando parla di Suprematismo non si può non pensare al suo memorabile allestimento al MoMA di New York per la mostra The Great Utopia sull´Avanguardia russa. «L´affollamento e la densità del nostro allestimento fecero scalpore. Potevi guardare la mostra da diversi punti di vista, scegliere un sentiero personale, andare avanti e tornare indietro, non mi è mai venuto in mente di indicare un percorso. D´altra parte le opere dei suprematisti non erano state pensate per essere isolate in un cubo bianco ma per stare all´interno di un "cosmo"». Il concetto di museo di Zaha Hadid è l´opposto del white cube minimalista. Persino quando sceglie una mostra predilige installazioni e luoghi particolari, come una delle ultime che ha visitato di recente, quella con i dipinti blu di Damien Hirst nella ex dimora ottocentesca di Sir Wallace a Bloomsbury. «Trovo interessante la scelta di Hirst di questo posto, e anche di imparare a dipingere». Pare sia la mostra più criticata della stagione internazionale ma, si sa, Hadid non segue strade battute e, in genere, vede lontano. Di musei ne ha visti a tutte le latitudini terrestri, fra i suoi favoriti il Guggenheim di Frank Lloyd Wright a New York per il suo dinamismo. I preparativi al MAXXI continuano, fotografi e operatori riprendono fino ai dettagli questi spazi inondati di luce, Sasha Waltz e la sua compagnia studiano la coreografia che interpreteranno nel MAXXI ancora vuoto. Qualcuno dello staff si avvicina a Zaha Hadid. «It´s over?», domanda lei. La lista di appuntamenti è fitta, sono solo le tre del pomeriggio, questa sera ci sarà un´altra apertura e dopodomani l´architetto riprenderà l´aereo. «Viaggio moltissimo, non ho un giorno uguale all´altro. Penso e non smetto mai di pensare. Anche quando dormo», dice, mentre osserva soddisfatta la sua opera finita. «Cos´è fondamentale oggi nell´architettura? Saper leggere la città nella sua nuova, complessa, identità, e intervenire con un´idea globale, potente, con masterplan che sappiano affrontare sovrapposizioni e stratificazioni storiche e culturali». Ora sta lavorando al masterplan di un´ampia zona di Singapore: il progetto copre un´estensione di 194 ettari, ma il concetto di un´architettura per vivere bene Zaha Hadid lo declina in diversi ordini di grandezza, dall´urbanistica al design. La collezione Z-Scape progettata per Sawaya & Moroni, riprende in oggetti, tavoli, sedute, la stessa forma dinamica dei suoli che si sollevano, e si trasformano in superfici frammentate della sua architettura.