Marco Cremonesi, Corriere della Sera 22/11/2009, 22 novembre 2009
di MARCO CREMONESI Il grande cancello è sempre lì, visto in mille fotografie, sormontato da quella scritta Alfa Romeo in corsivo che fino a pochi anni fa era un secondo marchio dell’azienda
di MARCO CREMONESI Il grande cancello è sempre lì, visto in mille fotografie, sormontato da quella scritta Alfa Romeo in corsivo che fino a pochi anni fa era un secondo marchio dell’azienda. Sorge a sorpresa dalla campagna piatta intorno a Milano, un portale abbandonato in mezzo al nulla da una civiltà scomparsa. Dietro, si aprono gli sterminati parcheggi. Un tempo, scintillavano delle Giulia e delle Gtv pronte a partire per gli autosaloni di mezzo mondo. Oggi, sono distese di asfalto che va sbriciolandosi, intorno a quelli che furono i capannoni delle presse, della verniciatura, dell’«abbigliamento e montaggio vetture». In tutto, una ventina di edifici tra il grande e il gigantesco. Diversamente da altre aree industriali abbandonate, ad Arese gli spazi sono ampi, ariosi. Ma è un’apertura che accresce il senso di desolazione. Persino con il sole di novembre. Qui, a cavallo tra gli anni 70 e 80, lavoravano quasi ventimila persone su un’area che sfiorava i due milioni di metri quadrati. Una cittadina di medie dimensioni. Vincenzo Lilliu, 60 anni, varcò per la prima volta il cancello di Arese nel 1973, da operaio addetto alla carrozzeria: «In quegli anni – ricorda – costruivamo circa cinquecento auto al giorno. Cinque linee di fabbricazione che realizzavano da zero tutta la macchina: progettazione, fusioni, assemblaggi, verniciatura e collaudi. In pratica, da una parte entravano l’alluminio e gli altri materiali. Dall’altra uscivano circa 200 Giulia, oltre 120 Gtv, un’ottantina di Duetto... E questo, ogni giorno». Per realizzare produzioni del genere, ci volevano numeri che oggi nemmeno in Cina: «Nel mio solo reparto, lavoravamo in cinquemila» ricorda Lilliu. Dice Corrado Delle Donne, storico delegato Cobas, che «in fabbrica si svolgeva anche qualche spettacolo. Per esempio, una sera ci fu Eduardo De Filippo. Un’altra volta, là dove facevamo le assemblee generali, arrivò l’orchestra della Scala». L’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili fu creata nel giugno del 1910 da un gruppo di imprenditori che rilevò una sfortunata, precedente impresa del francese Alexandre Darracq. Origini orgogliosamente milanesi, richiamate fin dal marchio due volte: con la croce rossa su fondo bianco, stemma della città, e con il biscione visconteo che inghiotte il bambino. La culla dell’azienda, la sede originaria, era al Portello, periferia occidentale di Milano. Oggi, dopo che nel 1986 lo stabilimento chiuse definitivamente i battenti, non ne rimane nulla. Al suo posto, un decennio più avanti, sorse lo «steccone » di FieraMilano City. Più tardi ancora, i grattacieli voluti dal sindaco Albertini, oggi in costruzione, che dovrebbero circondare un «Central park» alla milanese. Prima delle ruspe, nel 1997, Gabriele Salvatores è riuscito a salvare almeno qualche fotogramma del vecchio stabilimento: la sua opera cyberpunk, Nirvana , fu girata proprio in quei capannoni ormai spettrali. Lo stabilimento di Arese è ben più giovane. Nacque nel 1963 proprio perché il Portello era diventato insufficiente a saziare la fame di Alfa Romeo. Per l’azienda del biscione sono anni d’oro, esporta negli Stati Uniti, in Australia, persino nella Germania delle Mercedes e delle Bmw. uno dei simboli del boom nazionale, e dal famoso cancello escono modelli leggendari, vere icone dello stile italiano. E il mondo apprezza: la consacrazione arriva nel 1967 con la spider Duetto. Nel Laureato, Dustin Hoffman la utilizza per correre da Elaine, la figlia della signora Robinson. E le vendite esplodono. Poi, a partire dagli anni Ottanta, il declino. Le linee di produzione si restringono, i modelli vengono spostati a Pomigliano d’Arco che in origine produceva la sola Alfasud, aree sempre più vaste rimangono deserte. Gli operai si vedono restringere la fabbrica addosso e al fenomeno danno un nome. «l’arroccamento »: attività che prima avevano bisogno di due capannoni, si concentrano in uno solo. Quello rimasto libero, si spegne. E il buio comincia a circondare i lavoratori. Oggi, soltanto circa 300 mila metri quadrati dei due milioni originari sono ancora legati all’Alfa. Ospitano il centro Stile, cuore pulsante del design che ha appena sfornato un gioiello come la MiTo, il museo storico dell’azienda e poco altro. Il 4 gennaio, secondo i programmi Fiat, gli ultimi 232 lavoratori dovranno trasferirsi a Torino. E ad Arese si spegneranno le ultime luci. Anche se i puristi fissano la data della fine al 2003, quando si spense «in un silenzio orribile » l’ultima catena di montaggio. Il lungo crepuscolo di Arese è una manifestazione vistosa di quello che diversi commentatori – di recente, Giuliano Ferrara – hanno chiamato il «male oscuro» di Milano. L’incapacità della sua classe dirigente di dare alla città nuovi obiettivi e sfide, e soprattutto di realizzarli. Sul recupero di Arese per oltre un decennio si sono susseguite ipotesi sempre più velleitarie, sempre meno capaci di misurarsi con credibili progetti industriali. la storia di un fallimento. Tanto più grave per un’area che – non va dimenticato – è a un passo da FieraMilano City, di fronte alla nuova Fiera di Massimiliano Fuksas, a fianco del futuro Expo, a ridosso dell’autostrada e a venti minuti da Malpensa. Una collocazione d’oro, che oggi tenta un’ulteriore seppur incongrua valorizzazione proprio grazie allo storico marchio: il «Piano Alfa Romeo 2015» firmato all’inizio del mese dai sindaci di Garbagnate, Arese, Lainate e Rho, a dispetto dell’omaggio contenuto nel titolo non contiene neppure un accenno alla produzione di auto. Parla di centri commerciali e di villette, ideali per il vicino golf club. Non sarebbe dovuta andare così, almeno a leggere i progetti e gli accordi che nel corso del tempo si sono andati impolverando. Se il mantenimento della destinazione produttiva delle aree è sempre stata la prima richiesta dei sindacati, la Fiat è comunque uscita indenne dal procedimento che le era stato intentato per non aver dato seguito all’accordo di programma firmato con il governo nel 1996 – i lavoratori erano già scesi a 5.600 – per la reindustrializzazione di Arese: lo stesso pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione perché non ci fu «preordinata volontà fraudolenta » . Nel frattempo, il governatore lombardo Roberto Formigoni avrebbe voluto fare dell’area un «polo della mobilità sostenibile», una cittadella dell’innovazione trasportistico-ambientale. Idea suggestiva, che non ha mai trovato interlocutori dall’interesse concreto. Poi, è stata la volta del polo logistico e del terminal del porto di Genova. Fino a quando i progetti sono diventati sempre più eterogenei e occasionali. Con il montare della polemica per i troppi grossisti cinesi a intasare le strade intorno alle vie Canonica e Paolo Sarpi, il Comune di Milano pensò di trasferire i commercianti asiatici là dove era nata la Gtv6 di James Bond. Manco a dirsi, niente da fare. L’anno scorso, infine, dopo lo spostamento di migliaia di musulmani dai marciapiedi di fronte al discusso centro islamico di viale Jenner, una delle prime destinazioni alternative a cui si pensò fu, naturalmente, Arese. Con il sipario sull’Alfa a Milano, si chiude anche la storia dell’automobile nel capoluogo lombardo. Nel 1993 è scomparsa l’Innocenti, e nello stabilimento di via Rubattino per qualche anno finirono gli impianti di selezione dei rifiuti cittadini. Poco più tardi, nel 1995, si è conclusa l’epopea dell’Autobianchi di Desio. E al Biscione, che sta per iniziare una nuova sfida americana al seguito di Sergio Marchionne, non rimane neppure la soddisfazione di compiere i cento anni nei luoghi che l’han visto nascere.