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 2009  novembre 22 Domenica calendario

DUE ARTICOLI

BRESCIA – I paletti della questione li fissa il sostituto pro­curatore Antonio Chiappani: «A Brescia non c’è una cellula terro­ristica, ma un ambiente di collu­sione e contiguità sì». Tradotto in soldoni fanno 400 mila euro che, transitando da un negoziet­to di via Garibaldi, cuore della Brescia multietnica, sono finiti, fuori da ogni regola sulla traspa­renza finanziaria, nelle tasche di persone implicate negli attenta­ti che il 26 novembre 2008 in In­dia avevano provocato 195 mor­ti. Gli inquirenti bresciani conte­stano la movimentazione di quel denaro ai due titolari della Madina Trading, uno dei tanti money transfer gestiti dalla fol­ta comunità pachistana locale.

Mohammad Yaqub Janjua e suo figlio Aamer sono stati arre­stati ieri mattina dalla Digos e dalla Guardia di Finanza; due lo­ro connazionali residenti in cit­tà sono finiti in carcere nella me­desima operazione ma «solo» per aver favorito l’immigrazio­ne clandestina, facendo arrivare in Italia persone assunte fittizia­mente in aziende della zona. Un quinto pachistano è sfuggito al­la cattura perché si trova nel suo Paese d’origine. Il «cuore» del­l’indagine sono comunque i Janjua. Di Mohammad si era già parlato circa un anno fa: un rap­porto della polizia aveva rivela­to che da via Garibaldi era stata pagata l’attivazione dei telefoni (cinque linee Voip che utilizza­no la rete internet) usati dagli at­tentatori di Mumbai.

Poi Rehman Malik, ministro dell’Interno pakistano, il 12 feb­braio scorso aveva rivelato: «I soldi degli attentatori sono arri­vati dall’Italia». Infine la scoper­ta più importante: tra il 20 set­tembre e il 25 dicembre 2008 (cioè a cavallo della strage in In­dia) il negozio dei Janjua aveva effettuato ben 300 trasferimenti di denaro verso il Pakistan e ver­so persone (in particolare tre, già identificate nel Paese asiati­co) indagate per attività terrori­stiche. Tutti quei trasferimenti portano la firma di un certo Iq­bar Javaid. E chi è costui? Tutti e nessuno, perché quel nome e quel cognome corrispondono a Mario Rossi in Italia. Sarebbero insomma generalità di comodo usate dalla Madina Transfer per occultare i veri procacciatori del denaro.

Basta questo per iscrivere Mohammad e Aamer Janjua nel libro nero del terrorismo islami­co? Secondo la procura di Bre­scia sì, tanto che ai due era stato contestato l’articolo 270-ter del codice penale (fiancheggiamen­to dell’attività terroristica inter­nazionale); il gip di Brescia ha invece ordinato la cattura sulla base del favoreggiamento sem­plice, non convinto che i due avessero la piena consapevolez­za di appoggiare una multinazio­nale del terrore. «L’interpretazio­ne dei fatti è fluida – così il pm Chiappani smorza la polemica – ma il fatto che a Brescia sia presente l’humus del fondamen­talismo islamico è certo. Nessu­no stava progettando attentati, ma siamo convinti che qui ci sia­no persone che diffondono una dottrina jihadista e di non inseri­mento degli immigrati nella so­cietà italiana».

Claudio Del Frate


BRESCIA – La principale preoccupazione della comunità pachistana (e islamica più in generale) di Brescia in queste ore non sono gli arresti della procura ma Daniela Santanchè. Che cosa c’entra l’ex parlamentare di An? C’entra perché dopo le esternazioni della signora su Maometto, definito «pedofilo» in una trasmissione domenicale su Canale 5, la comunità bresciana che si riconosce nel Corano è impegnata a organizzare una manifestazione contro le offese della Santanchè. «Solo che i partiti di centrodestra stanno facendo pressioni perché la questura ci neghi i permessi» si lamenta Sayad Shah, portavoce dei pachistani di Brescia (15 mila residenti in tutta la provincia). Anche Aamer e Mohammad Janjua, i titolari della Madina Transfer, erano stati contattati per l’iniziativa e secondo alcuni loro amici avrebbero senz’altro partecipato. Padre e figlio, del resto, erano dei buoni «fratelli musulmani», che frequentavano la moschea di via Corsica con regolarità. Sayad Shah si ricorda in particolare il padre: « a Brescia da dieci anni e sono pronto a scommettere una cena che non c’entra niente con le accuse che gli rivolgono. Il procuratore di Brescia dice che tra noi ci sono predicatori jihadisti?

Non tra quelli che frequentano la moschea, di sicuro non Mohammad. Ma davvero siete interessati a questa storia e non alla manifestazione di domenica?». Venire in via Garibaldi in cerca di una base del terrore internazionale è un po’ come ritrovarsi nei fumetti di Alan Ford, dove uno scalcinato negozio di fiori celava una centrale spionistica: anche qui il Madina Transfer è il negozio più piccolo e più malmesso del breve tratto di strada, i suoi vicini (una gelateria italiana e una pelletteria cinese) lì accanto ci fanno un figurone. E immaginare i due Janjua come fondamentalisti è stata una sorpresa anche per gli inquirenti.

«Loro si presentavano come simpatizzanti del partito popolare pachistano – dicono alla Digos – una formazione dalle posizioni moderate. Anche in alcune intercettazioni telefoniche, pur parlando di politica, si limitano a fare commenti sulle relazioni tra il loro Paese e l’India». Entrambi incensurati, ma Mohammed aveva già dovuto spiegare come mai dal suo negozio era partita l’attivazione dei telefoni degli attentatori. «L’ha fatta Iqbal Javaid, un mio amico arrivato dalla Spagna». Solo che di questo amico non è stata trovata traccia.

C. Del.