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 2009  novembre 21 Sabato calendario

Affamati e pasciuti, tasche vuote e portafogli sigillati, mondi diversi in tutto: nella conta delle calorie quotidiane come nel modo di calcolare il proprio benessere-malessere

Affamati e pasciuti, tasche vuote e portafogli sigillati, mondi diversi in tutto: nella conta delle calorie quotidiane come nel modo di calcolare il proprio benessere-malessere. Il «dio pil» regna ancora sul­l’orizzonte dei Paesi poveri, do­ve «lo sviluppo economico con­tinua a essere molto importan­te per la prosperità individua­le ». Ma «appena una nazione viene ammessa al rango dei ric­chi, ogni ulteriore aumento di reddito si fa meno influente». E cambiano le misure di riferi­mento: nel nostro pasciuto (malaticcio) Occidente «la pri­ma variabile da esaminare se volete sapere perché un Paese consegue risultati migliori o peggiori di un altro è la disu­guaglianza ». Non il tasso di cre­scita, il reddito pro-capite, il numero di asili. Per i professo­ri Richard Wilkinson e Kate Pic­kett, britannici, autori di The Spirit Level , ora tradotto in ita­liano da Feltrinelli con il titolo «La misura dell’anima» (300 pa­gine, 18 euro), non ci sono dub­bi. La chiave di tutto è quel da­to (quasi) infallibile capace di spiegare perché gli svedesi so­no più sani degli inglesi, gli stu­denti italiani fanno i test più scarsi del mondo e l’America conta dodici volte il numero di obesi del Giappone: «Disugua­glianza ». Nel senso di «spere­quazione dei redditi». Inutile allora gasarsi per uno zero virgola in più di crescita? La radice dei mali (e dei beni) di una società, dalla criminali­tà alla salute, dall’insicurezza dell’animo alla mobilità, sta in un grafico semplice semplice che non mostra l’andamento in Borsa o il saliscendi della feli­cità interiore. Ogni Paese è rap­presentato da un numero sec­co: le entrate del 20% più ricco della popolazione messe a con­fronto con le entrate del 20% più povero. Negli Stati Uniti i nababbi sono 9 volte più ricchi degli ultimi, in Portogallo 8, in Gran Bretagna 7. Dall’altra par­te della scala magica messa a punto da Wilkinson-Pickett ci sono i Paesi con minore dispari­tà tra fasce sociali opposte, sti­pendi più vicini: Giappone, Fin­landia, Norvegia, Svezia, Dani­marca, dove la forbice è più che dimezzata. Tanto quanto i problemi sociali. «Il dato entu­siasmante che emerge dalla no­stra analisi è che, riducendo la disuguaglianza, è possibile ac­crescere la qualità della vita di tutti » . Anche se citano «Liberté ga­lité Fraternité», Wilkinson e Pi­ckett non sono nostalgici della Rivoluzione Francese. Prima occupazione epidemiologi, lui professore emerito in pensio­ne, lei quarantenne più coinvol­ta politicamente a sinistra, han­no messo a confronto le statisti­che dell’Onu e della Banca Mon­diale nonché 200 studi di setto­re. E hanno scoperto che il nes­so tra «inequality» e malattie, già ampiamente provato dagli esperti di sanità pubblica, fun­ziona anche per le altre perfor­mance collettive di un Paese. Come fa un Paese a ridurre le disuguaglianze? I due più virtuosi, Giappone e Svezia, di­mostrano che le strade posso­no essere diverse: «A Stoccol­ma hanno optato per un mec­canismo redistributivo di im­poste e sussidi, Tokio ha con­seguito una maggiore unifor­mità di redditi di mercato al lordo di imposte». E l’Italia? Sesta nella classifica dei più «diseguali», il nostro Paese se la cava meglio delle sorelle più egualitarie Germania, Francia e Austria per quanto riguarda «i problemi sanitari e sociali». Peggio per propen­sione al riciclaggio dei rifiuti. Che c’entra? C’entra: le società più egualitarie riciclano me­glio delle altre. E sono più ge­nerose (con l’eccezione nippo­nica) con i Paesi poveri. Fosse stato per Svezia e Norvegia, forse al vertice Fao i Paesi pa­sciuti avrebbero sborsato qual­che miliardo di dollari sull’un­ghia. Michele Farina