Angelo D’Orsi, La Stampa/Tuttolibri 21/11/2009, 21 novembre 2009
Che le rivoluzioni non siano un pranzo di gala, lo sappiamo; e che la violenza sia levatrice della storia ce l’ha ricordato Marx
Che le rivoluzioni non siano un pranzo di gala, lo sappiamo; e che la violenza sia levatrice della storia ce l’ha ricordato Marx. Eppure si può essere rivoluzionari, accettare la violenza come strumento inevitabile di cambiamento, e persino come mezzo benefico in determinate situazioni, senza precipitare nell’abisso dello sterminazionismo. Questa sembra essere una delle lezioni che si trae dal bel profilo, firmato da Sergio Luzzatto, di Robespierre junior - il fratello dell’«Incorruttibile» Maximilien -, il ben poco noto Augustin, detto sarcasticamente «Bonbon», dal secondo nome, «Bon». Quel nomignolo ben si attaglia al personaggio, un rivoluzionario dolce, come viene ben esplicitato dall’ossimorico, efficace sottotitolo: «Il terrore dal volto umano». Questo fratello minore (c’era anche una sorella, Charlotte, che compare puntualmente nelle godibilissime pagine di Luzzatto, tanto informate, quanto lievi, pur ove affrontano questioni capitali) visse l’insostenibile peso della stagione del Terrore, tra il 1792 e il 1794, prima che la Rivoluzione fosse fermata dal Termidoro. Eppure quel peso Bonbon cercò di portarlo insieme con la massima fedeltà al fratello maggiore, e agli ideali giacobini, ma altresì con un’umanità che via via gli si manifestava nel tentativo di impedire o frenare gli eccessi «giustizialistici», che a quell’epoca significavano un uso scriteriato e del tutto discrezionale della ghigliottina. Bonbon Robespierre dimostra, nella sua breve, tumultuosa esistenza, che si può essere giusti senza rivestire i panni del giustiziere, o almeno questa la lezione che ne trae Luzzatto, che è, a mio avviso, uno dei più innovativi storici italiani della sua generazione, come dimostrano i due poliedrici volumi di articoli, editi da Manifestolibri (Sangue d’Italia, 2008, e I popoli felici non hanno storia, 2009), che raccolgono perlopiù recensioni, sempre acute, anche quando capita (sovente) di non condividerne i giudizi. Ritornando a Bonbon, costui cercava di convincere, in sostanza, il fratello che la rivoluzione a un certo punto andava «terminata»: sembra emergere, in filigrana, l’opinione dell’autore che le rivoluzioni, tutte, forse, recano in sé un germe che inesorabilmente le conduce alla rovina, per una sorta di entropia interna, un moto perpetuo che impedisce loro di giungere a un punto d’arrivo, e, dunque, inevitabilmente le conduce a tralignare. Tesi naturalmente discutibile, ma che Luzzatto con abilità trae dalla vicenda dei due Robespierre, che finirono, paradossalmente, vittime entrambi di quel moto entropico della Rivoluzione divenuta terrore incontrollato e inarrestabile. Un terrore che fu pure resa di conti personali, abuso d’autorità, gioco di vendette incrociate, delinquenza pura e semplice. Bonbon, nel suo piccolo, cercò di opporvisi, in modo sempre più convinto, almeno nella interpretazione suggestiva di Luzzatto, ancorché forse non del tutto suffragata dai documenti, ma resa plausibile dall’avvincente stile della sua narrazione. Ma non passò mai dall’altra parte, Bonbon, al punto che volle seguire il destino di suo fratello, quando questi cadde, a seguito di quel «golpe parlamentare» che fu il Termidoro, in cui la malafede degli eterni opportunisti si incontrò con quello che a Luzzatto appare «un ragionevole compromesso, il lodevole tentativo di riconciliare la Rivoluzione con se stessa», dopo gli eccessi paurosi della ghigliottina. Certo, in queste belle pagine, Bonbon emerge come un rivoluzionario capace di conciliare intransigenza e tolleranza: insomma, all’austero, e un po’ tetro Maximilien, severo con tutti e prima di tutto con sé stesso, potremmo preferire il più lieve e forse fatuo, ma talentuoso e umanissimo Augustin. Chissà, suggerisce Luzzatto, se la Rivoluzione sarebbe sopravvissuta se le redini del potere fossero state nelle mani dolci di Bonbon, invece che in quelle arcigne di suo fratello. Ma le loro teste, mozzate a distanza di tre giorni, ci dicono che il Terrore, da una parte o dall’altra è cieco e spietato. Quelle teste sono state appaiate tanto dalla tradizione robespierrista, quanto dalla propaganda termidoriana; e la grande ombra di Maximilien ha oscurato il «fratellino». Era tempo di rendergli un po’ di giustizia.