Emanuele Trevi, La Stampa 21/11/2009, 21 novembre 2009
Sembra proprio che i vecchi trucchi, in ogni tipo di arte, siano sempre i più efficaci. Prendiamo quella condizione di rapimento, rara e beata in ogni età della vita, che potremmo definire lo stupore fiabesco
Sembra proprio che i vecchi trucchi, in ogni tipo di arte, siano sempre i più efficaci. Prendiamo quella condizione di rapimento, rara e beata in ogni età della vita, che potremmo definire lo stupore fiabesco. In Up, l’ultimo capolavoro in animazione digitale della Pixar, i due protagonisti a un certo punto si imbattono in un cane parlante. Ebbene sì, come ai tempi di Esopo, o dei poemi mitologici indiani. A fidarsi esclusivamente del criterio romantico dell’originalità, l’idea non dovrebbe essere presa nemmeno in considerazione. Eppure, funziona. Liberando l’animale dai ceppi del verso e assegnandogli una lingua, il narratore di una storia ci offre un filo d’Arianna nel labirinto delle apparenze. Come un meraviglioso e delicatissimo strumento musicale, il mondo vibra di un’infinità di accordi e di segrete corrispondenze. Non solo il Grillo di Pinocchio, ma centinaia d’altri animali in veste di aiutanti magici - come li definisce la teoria della fiaba - parlano per rivelare verità impellenti, svelare arcani, ammonire l’eroe smarrito nelle sue illusioni. Simmetricamente, la conoscenza delle lingue degli animali da parte di esseri umani è il privilegio delle infanzie mitiche, delle iniziazioni magiche, della santità. Quello fornito all’uomo dal mondo animale è un alfabeto simbolico di tale ricchezza che non solo le civiltà tradizionali, con le loro imponenti metafisiche, ma anche le odierne società secolarizzate non smettono di attingere alle sue inesauribili riserve di significato. L’opera degli scrittori rappresenta una testimonianza decisiva. Mentre la letteratura, nel processo irreversibile di separazione e specializzazione dei saperi, rinuncia ad ogni pretesa scientifica, il fascino esercitato dagli animali rimane intatto, come un’energia che si sprigiona fra i due poli estremi dell’attrazione e della fobia. Ma lo scrittore moderno non può più riferirsi a un sistema di significati condivisi, come quello dell’astrologia o dei bestiari morali, che per tutta l’antichità e il Medio Evo avevano assegnato ad ogni bestia, reale o immaginaria che fosse, un preciso valore d’ordine etico, religioso, iniziatico. Per ogni cristiano capace di intendere il Grande Libro naturale, il pellicano, ad esempio, era una figura del Salvatore. E le bestie feroci che ostacolano il cammino di Dante nel primo canto dell’Inferno avevano un significato etico abbastanza trasparente per ogni lettore. Giunge però il momento storico in cui questo sapere, così compatto e tutto sommato coerente, viene per così dire frantumato. Diretta da Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi, l’imponente ricerca sugli Animali della letteratura italiana in uscita da Carocci (pp. 287, e25) documenta come meglio non si potrebbe il passaggio da un simbolismo universale durato per secoli alla più sfrenata e imprevedibile soggettività. In questo nuovo quadro, le antiche credenze non scompaiono del tutto, ma sopravvivono come curiosità erudite e superstiti testimonianze di un cataclisma intellettuale senza precedenti. Il meccanismo fondamentale della relazione tra la sensibilità dello scrittore e gli innumerevoli rappresentanti del regno animale diventa quello della proiezione. «Gli animali - riflettono Anselmi e Ruozzi nell’introduzione al volume - ci sono diventati più vicini, esseri smarriti come noi». E dunque «amici con cui condividere il cammino» anziché «allegorie dei nostri vizi e delle nostre virtù». Nelle pagine di scrittori come Anna Maria Ortese e Raffaele La Capria, in effetti, percepiamo con straziante intensità i sentimenti di chi si trova a riconoscere, nello sguardo mite ed attento dell’animale, un’immagine credibile della propria stessa sorte. Simile per metodo ad altre indagini condotte sui Luoghi e sugli Oggetti della letteratura italiana, questo volume offre una documentazione ricchissima, dalle api ai topi, senza tralasciare draghi, grifoni e centauri. Scelta da condividere: dal punto di vista della letteratura, infatti, la zoologia reale e quella fantastica, alla quale Borges dedicò uno splendido Manuale, hanno ben poche differenze sostanziali. Si potrebbe arrivare a dire che ogni animale che incontriamo nelle pagine degli scrittori, fosse pure il gatto di casa o un volatile da cortile, non è meno fantastico di un ariostesco ippogrifo. Come in Alonso, l’indimenticabile puma dell’ultimo romanzo di Anna Maria Ortese, nell’animale si incontrano e si fondono il quotidiano e l’immaginario, la regola e l’eccezione. Per secoli, si è disputato seriamente sulla possibilità che questi nostri parenti, sottomessi come noi al fato e alla mortalità, fossero dotati di un’anima. Oggi che è sulla nostra anima che pesa un sospetto - forse irrimediabile - di inconsistenza, è in loro che cerchiamo le ultime tracce di quel senso del mondo che ci è sfuggito di mano.