Armando Torno, Corriere della Sera 20/11/2009, 20 novembre 2009
Londra, 1948. Al congresso di neuropsicopatologia il professor Théophile Alajouanine legge una relazione sul caso Maurice Ravel
Londra, 1948. Al congresso di neuropsicopatologia il professor Théophile Alajouanine legge una relazione sul caso Maurice Ravel. Conosce bene le vicende, giacché nell’ultima fase della vita del musicista (morto nel 1937), quando si manifestarono gli inquietanti disturbi cerebrali, aveva avuto modo di esaminarlo. Conservava memoria e orecchio intatti ma non era più in grado di scrivere e leggere la musica; già nel 1934 per stilare una lettera di poche righe impiegava otto giorni, andando a cercare ogni parola sul dizionario e copiandola quasi fosse un geroglifico misterioso. Lo scienziato così compendia il dramma dell’artista: «Ha sperimentato la tortura di essere murato vivo entro un organismo che non ubbidiva più alla sua intelligenza. Osservava disperato vivere in lui un estraneo al quale lo aveva accoppiato un destino malvagio». Ravel era ormai nell’immaginario di tutti. I ritmi del Bolero con le loro nenie incantatorie permeavano il vuoto esistenziale che sarebbe diventato una condizione del Novecento; il Concerto pour la main gauche en ré majeur , commissionatogli dal pianista austriaco Paul Wittgenstein – fratello del filosofo Ludwig – che aveva perso l’uso dell’arto durante la Grande Guerra, è un continuo accavallarsi di reminescenze «nelle quali riconosciamo il tormento di una memoria che teme di smarrire se stessa». Potremmo continuare, sino alle ultime opere che lo videro non più in grado di scrivere, ma non riusciremmo a compendiare in poche battute l’infinito lavoro di Enzo Restagno Ravel e l’anima delle cose (il Saggiatore, pp. 680, e 35), dal quale abbiamo preso in prestito il passo. Il saggio è una monografia sul musicista ma anche sulla cultura che l’ha ispirato, assistito, a volte consolato. Ora, come nei Jeux d’eau, è un verso paganeggiante di Henri de Régnier che si contrappone al passo evangelico scelto da Liszt per l’analoga opera; ora è un’osservazione tecnica come nel caso di Ondine , dove i glissandi sui tasti bianchi recano «la mimesi del movimento nella profondità delle acque» (Messiaen vi vedeva la luce candida e fredda di un do maggiore); ora è un viaggio, un salotto, un’esecuzione. Insomma, leggendo e soffermandosi sulle pagine di questo libro di Restagno, che il Novecento l’ha percorso senza requie, si rivive con le dovute varianti quell’osservazione che Hegel consegnò in una lettera a Niethammer, allorché nel 1806 assistette a Jena al passaggio di Napoleone. Il filosofo fu folgorato: «Ho visto l’imperatore – quest’anima del mondo – uscire a cavallo dalla città per andare in ricognizione: è in effetti una sensazione meravigliosa osservare un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, s’irradia per il mondo e lo domina». La frase nel nostro caso andrebbe aggiornata e, dall’anima del mondo nata nel Timeo di Platone, dovremmo passare a quella delle cose. Quando nacque questa seconda sostanza? Difficile rispondere, pressoché impossibile inventariare i filosofi che l’hanno scolpita, ma possiamo ora dire che Ravel l’ha conosciuta in tutte le sue sfumature. Le estetiche oggi non riescono a capire se le cose si sono ribellate a noi o se noi non riusciamo più a ghermirle: ci sfuggono moltiplicandosi, così come a Ravel si negarono ritraendosi. Un episodio testimoniato da Madeleine Grey, interprete prediletta dal compositore, riferentesi a un’esecuzione del Don Quichotte à Dulcinée che si tenne nella sua casa con al pianoforte Francis Poulenc, è rivelatore di quanto accadde al maestro, che era presente e qualche mese dopo sarebbe morto. La cantante e l’accompagnatore si concessero una piccolissima libertà ritmica per prendere meglio il respiro. Il compositore «sembrava che fosse assente », invece non gli era sfuggita la lieve alterazione, anzi spiegò le ragioni musicali che lo avevano indotto a non consentire quella pausa. Ma la sua mente vigilissima non sapeva più trasmettere un ordine al corpo. Le sua volontà aveva abbandonato le cose. Il 19 dicembre 1937, quando il professor Clovis Vincent decise di operare l’autore del Bolero , non trovò un tumore ma un cervello gravemente atrofizzato. Il coma che seguì liberò quel corpo dall’incubo che lo avvolgeva. Un incubo che sfugge abilmente alle nostre spiegazioni e si alimenta di dettagli e presenze, forse di cose. Lo incontriamo ogni giorno.