Gianni Santucci, Corriere della Sera 20/11/2009, 20 novembre 2009
La tempesta si è scatenata sul Rio de la Plata nella notte dell’ 11 ottobre. La nazionale argentina di Maradona si giocava la qualificazione ai Mondiali contro il Perù
La tempesta si è scatenata sul Rio de la Plata nella notte dell’ 11 ottobre. La nazionale argentina di Maradona si giocava la qualificazione ai Mondiali contro il Perù. Il gol vittoria è arrivato sotto un acquazzone feroce. Quella stessa notte, pioggia e vento tormentavano un gruppo di barche appena salpate dalla costa vicino a Buenos Aires. C’era anche il «Maui», uno yacht con bandiera britannica. I «marinai» erano tutti serbi. E nella stiva portavano il più grosso carico di droga sequestrato quest’anno nel mondo: oltre due tonnellate di cocaina. La tempesta ha costretto il «Maui» ad attraccare sull’altra sponda del fiume, in Uruguay, nel porto turistico di Santiago Vazquez. lì che le squadre antinarcotici sono piombate all’alba del 15 ottobre e hanno trovato il carico. Che sarebbe dovuto arrivare in Europa. E poi, in parte, in Italia. Il viaggio della coca prevedeva uno «scalo tecnico» in Sudafrica. Poi l’approdo a Bar, in Montenegro, per lo stoccaggio. Infine la distribuzione in altri Paesi. Il carico era in mano alla mafia serbo-montenegrina, la nuova potenza nel traffico di cocaina tra Sud America ed Europa. Nel giro di qualche anno, l’organizzazione è arrivata a monopolizzare intere rotte della droga via mare. Per rifornire alcune famiglie di ”ndrangheta, il Nord Italia, la criminalità organizzata di Austria, Germania, Spagna, Inghilterra. In Italia, questa è una storia che inizia il 26 febbraio 2008, in un appartamento di via Washington, a due passi dal centro di Milano. Le leggi del capitale I serbi hanno la forza, l’organizzazione, la mentalità da guerrieri-narcos, l’affidabilità di una multinazionale. con queste carte che si sono seduti al tavolo del mercato globale degli stupefacenti. E si sono imposti. Per capire cosa sta accadendo, bisogna ascoltare le parole di un investigatore esperto di crimine internazionale: «Il mercato dell’eroina è diverso, molto più condizionato da legami storici di malavita. Per la cocaina è tutta un’altra cosa. Più di tutto, contano le stesse leggi dell’economia pulita: domanda e offerta; concorrenza; sicurezza dell’investimento. Chi lavora meglio, fa affari. Spesso senza bisogno di sparare». In questo quadro si comprende l’ascesa internazionale della mafia balcanica. Con un esempio: se la ”ndrangheta organizza un carico dalla Colombia deve trattare con i «fornitori », sborsare un grosso anticipo e, soprattutto, assumersi enormi rischi di trasporto (se il carico viene intercettato, perderà milioni di euro). I serbi hanno fatto una scelta molto semplice. Si sono inseriti nella catena come la migliore «agenzia di servizi» sulla piazza. Acquistano la droga, la trasportano in Europa e la consegnano praticamente «a domicilio». La criminalità locale si scarica di ogni responsabilità per le fasi più rischiose dell’affare. Non versa anticipi. E in più, risparmia: comprando dai serbi, la coca costa in media 35 mila euro al chilo rispetto ai 40 mila della «concorrenza ». Per questo sempre più organizzazioni criminali, piccole e grandi, in Italia e in Europa, negli ultimi anni hanno deciso di comprare da loro. Così i clan dei Balcani sono entrati nei più recenti dossier della Dea (l’agenzia antidroga americana), del Bia (la polizia segreta serba) e del Soca (l’agenzia anticrimine inglese). La testa e le cellule Il 26 febbraio 2008 gli investigatori della Squadra Mobile entrano in una casa di via Washington, a Milano, e trovano 90 chili di cocaina. Inizia il lavoro per smantellare la cellula lombarda della mafia balcanica. Il capo del gruppo, Dragan Gacesa, 33 anni, viene arrestato un anno dopo in Toscana. Il «magazzino» per lo stoccaggio della droga era in una villetta sul mare, a Tirrenia (Pisa). Sequestri totali: 530 chili di coca. E alla fine dell’indagine è stato possibile ricostruire le dinamiche della cellula: vendite solo all’ingrosso (mai contatti con lo spaccio in strada). Magazzini vicini ai porti di arrivo dei carichi (Livorno, La Spezia), ma lontani dai luoghi di vendita. E uomini che si comportano da professionisti paramilitari. Durante il lavoro, i «soldati» non consumano droga, non bevono, non frequentano night, niente donne, sono in grado di rimanere chiusi in una casa per 3-4 giorni facendo solo ginnastica, mai un’infrazione al codice della strada. Il profilo del gruppo milanese è utile per descrivere l’intera organizzazione. A partire da un dato: proprio Gacesa era citato in un verbale del 2003 del Tribunale internazionale per i crimini della ex Jugoslavia, in cui veniva definito « commander of the Bihac security station » . Il centro direttivo dell’organizzazione è saldamente radicato nei Balcani. Tra Belgrado e il Montenegro, vengono gestiti al massimo livello affari, traffici, alleanze, investimenti, riciclaggio. il risultato di una saldatura/ riconversione, avvenuta dopo i conflitti nella ex-Jugoslavia, tra gli storici gruppi criminali (il clan di Zemun su tutti) e le ex milizie. I legami con i cartelli colombiani hanno radici più che ventennali. L’intera logistica è però affidata alle «cellule»: gruppi operativi di una decina di persone, fortemente gerarchizzati, in grado di creare una base in una città, gestire uno o più carichi, per poi sparire o spostarsi in caso di pericolo (l’ultimo rapporto di World security network lancia un allarme relativo al «crimine delocalizzato dei gruppi balcanici » che sarà in grado di «dettare le regole in altri Paesi d’Europa»). Seguendo lo stesso modello, ha lavorato il gruppo smantellato tra Argentina e Uruguay: affitto di appartamenti per ricevere e preparare i carichi di cocaina a Buenos Aires; acquisto in contanti del «Maui» (265 mila dollari); apparecchiature anti-intercettazione. Sopra le cellule, c’è una rete di «manager», ancora più mobili, che si occupa solo di accordi con i compratori e supervisione delle operazioni. Le regole, valide per tutti: basso profilo; massima flessibilità; organizzazione «svizzera»; forniture solo ai «grossisti» (da 15-20 chili in su). I «soldati» serbo-montenegrini sparsi tra Europa e Sud America potrebbero essere un migliaio. Di recente il Soca ha intercettato tre cellule in Inghilterra, che si coordinavano con gruppi in Olanda (incaricati di ricevere e smistare la cocaina dal porto di Rotterdam), Germania, Slovenia e Nord Italia. Tra Veneto e Toscana Mattina del 22 giugno scorso, i carabinieri fermano un Tir in una piazzola di corso Stati Uniti, a Padova. Nel camion, tra le cassette di ananas e banane, i militari trovano 420 chili di cocaina. Il guidatore dice: «Ho attaccato un rimorchio sbagliato». Ma alcuni indizi permettono di fare una serie di collegamenti: il camion è di una ditta slovena, proviene dall’Olanda, l’autotrasportatore è serbo. Il carico di cocaina aveva viaggiato via mare, in un cargo dall’Ecuador a Rotterdam. Meno di tre mesi dopo, avviene un altro sequestro interessante. Il 5 settembre, nel parcheggio di un supermercato a Pian di Rota, frazione di Livorno, i carabinieri perquisiscono una Lancia Lybra e trovano uno zaino verde con dentro 14 chili di coca pura al 97 per cento. Tre arrestati. Anche qui: uno sloveno e due serbi. Segnali che non lasciano dubbi sul radicamento, in Italia, delle «cellule» agli ordini dei nuovi signori della cocaina. Ma il legame più forte emerge due giorni dopo il sequestro dei 2.174 chili in Uruguay. Il 17 ottobre la Corte distrettuale di Belgrado ordina l’arresto del gruppo che attendeva il carico nei Balcani. L’elemento di spicco, Zeljko Vujanovic, viene fermato nella discoteca «Casino» di Kragujevac, a 140 chilometri da Belgrado. Il locale è di un certo Darko Saric, ritenuto dagli inquirenti una colonna dell’organizzazione (come ha rivelato la stampa montenegrina). I collegamenti di Saric con l’Italia sono stati accertati in un’inchiesta contro una banda di trafficanti di armi chiusa dalla polizia di Padova a novembre 2008. Sarebbe stata la donna del gruppo, detta «Nikita», a ospitare e coprire Saric nei suoi spostamenti in Italia. Tornati in Serbia, Saric e i suoi attendevano le due tonnellate di cocaina in partenza dal Rio de la Plata. Sono arrivati prima gli investigatori serbi e sudamericani. Nome dell’indagine che ha portato al blitz: « Operación Guerreros Balcánicos » . Gianni Santucci WASHINGTON – I narco-soldati serbi si comportano come i membri di forze speciali. Ne hanno adottato tattiche, mezzi, sistemi. Ma soprattutto – come sottolinea un investigatore italiano impegnato a seguirne le tracce – ne hanno importato la mentalità. come se fossero «dietro le linee nemiche», dunque considerano potenzialmente ostile l’ambiente circostante. Lo dimostrano le contromisure per sottrarsi ai pedinamenti, l’impiego – quando è possibile – di apparati sofisticati per proteggere le proprie «basi» nelle città europee, l’uso di un arsenale più consono ai commandos che ai trafficanti. Lo stato mentale da guerrieri li aiuta. Riduce i rischi di commettere errori. Protegge le cellule. Permette di reagire con rapidità in caso di pericolo. Un atteggiamento che deriva dal passato dei narcos venuti dai Balcani. Non pochi di loro hanno militato in unità speciali, come le Tigri di Arkan, o negli apparati di intelligence. Lasciata la mimetica e il basco rosso, si sono portati dietro l’esperienza di anni duri, segnati da violenze, uccisioni indiscriminate, agguati. Gli esperti dell’anti-droga dagli Stati Uniti all’Europa rilevano che la militarizzazione dei banditi serbi è in sintonia con quanto avviene in altri scacchieri. In Colombia buona parte del traffico è in mano ai guerriglieri delle Farc che uniscono il gangsterismo alla lotta politica. E di conseguenza possono proteggere i loro affari non con pistole e qualche fucile ma con armi pesanti. Ancora più evidente il caso del Messico, sconvolto dalla guerra tra i cartelli. Una delle componenti più aggressive e letali è rappresentata dai Los Zetas. Un’organizzazione di killer formata, all’inizio, da soldati di un reparto d’élite dell’esercito addestrato dagli americani. I loro superiori, ad un certo punto, hanno deciso che era più vantaggioso servire i boss della droga. E si sono messi a sparare sui loro ex commilitoni. Un mini-esercito che ha iniziato a lavorare come milizia del Cartello del Golfo ma che ha finito per agire con ampia autonomia. Una trasformazione che ha reso i Los Zetas capaci di gestire direttamente i propri affari. Lo scenario si riproduce con i serbi. All’interno delle organizzazioni criminali la componente militare si è presa il suo spazio introducendo i propri metodi. Non solo braccio armato ma anche motore del traffico, in grado di seguire l’intera filiera. Con derivazioni interessanti. Di nuovo, l’accostamento ai messicani è pertinente. Perché la droga è soltanto una delle attività illegali. Consapevoli della propria forza e molto determinati, troviamo ex soldati serbi coinvolti in rapine spettacolari in Paesi europei, in Asia e nel Golfo Persico. «Batterie» miste con ladri professionisti e reduci delle guerre balcaniche che animano la cosiddetta «banda della Pantera rosa». Furfanti responsabili di colpi nelle più famose gioiellerie del mondo. Analisti incontrati ad un recente summit anti- droga a Pittsburgh ritengono che i narco-soldati – a seconda del teatro – possano passare ad altre forme di violenza. Dove ci sono le condizioni (pensiamo all’America Latina) fiancheggiano movimenti insurrezionali. Non ne condividono le idee, ma fanno da sponda per motivi tattici. In altre regioni possano animare iniziative che combinano i traffici abituali con manovre destabilizzanti anche per la scena politica. Alternando l’esplosivo al plastico con la corruzione. Guido Olimpio