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 2009  novembre 20 Venerdì calendario

MILANO

Lo «tsunami de­gli eletti» ha superato la sua prima prova. Il Consiglio dei ministri ieri mattina ha appro­vato il Codice delle autono­mie, l’ambizioso progetto di razionalizzazione degli enti lo­cali a cui lavorano fin dall’ini­zio della legislatura i ministri Roberto Calderoli e Roberto Maroni. Ma i prossimi passag­gi potrebbero rivelarsi più complicati: le associazioni di Comuni e Province, Anci e Upi, e la conferenza delle Re­gioni hanno già sottoscritto un nutrito carnet di critiche.

La promessa più suggestiva è quella del taglio di quasi un terzo delle attuali 160 mila pol­trone esistenti negli enti loca­li, che diminuirebbero di qua­si 45 mila unità: secondo le proiezioni diffuse da Caldero­li, nei Comuni si perderebbe il 24% dei consiglieri e il 41% de­gli assessori. Per le Province, sulla carta destinate come le prefetture a diminuire di nu­mero, la cura dimagrante sa­rebbe del 18% dei consiglieri e del 26% degli assessori. Il mi­nistro ha anche ipotizzato un risparmio per le casse pubbli­che di circa 150 milioni di eu­ro all’anno. Destinate all’estin­zione anche le circoscrizioni comunali e «con loro – spie­ga Calderoli – 6.605 consiglie­ri e 344 presidenti».

Non si tratta solo di enti lo­cali. Annuncia il ministro alla semplificazione: «Abbiamo drammaticamente scoperto che tante funzioni in capo a Comuni o Province erano svol­te da soggetti intermedi di cui non si conosce neppure il nu­mero preciso: grossolanamen­te, potremmo dire 34 mila sog­getti che non dovrebbero svol­gere quelle funzioni, perché la Costituzione dice che devono essere svolte da Comuni, Pro­vince, Città metropolitane e Regioni».

Infine, le comunità monta­ne. Che, secondo Calderoli, semplicemente, «cesseranno di esistere nell’ordinamento statale e passeranno, come de­ciso dalla Corte Costituziona­le, sotto le Regioni. Le quali, se vorranno farle esistere, do­vranno fare una loro legge, ri­spondere ai loro elettori, e pa­garsele ». Conclude Calderoli: «Le comunità montane sono 367 in Italia e coinvolgono il 53% dei Comuni. Non credo si­ano numeri che abbiano un senso».

Ma, appunto, le proteste non mancano. Vasco Errani per le Regioni, il sindaco di To­rino Sergio Chiamparino (An­ci) e il presidente dell’Upi, Fa­bio Melilli hanno criticato il fatto che nel testo non sono state introdotte quelle «modi­fiche volte a un profondo de­centramento dallo Stato a fa­vore di Regioni, Province e Co­muni, che sono le premesse di un vero federalismo». Il ri­schio è quello di ridurre una riforma importante a un «sem­plice restyling», incapace di garantire «un equilibrio tra i vari livelli di governo». Soprat­tutto, «il federalismo fiscale non avrebbe sostenibilità».

Ma i più arrabbiati di tutti sono i rappresentanti delle co­munità montane. Per il presi­dente dell’Uncem Enrico Bor­ghi, «il testo presentato con­traddice i principi del federali­smo e nega alle Comunità lo­cali l’autogoverno del territo­rio. Si sta operando uno scip­po istituzionale ai danni di un’intera categoria di enti e di amministratori locali».

M. Cre.

di SERGIO RIZZO

e GIAN ANTONIO STELLA

U n

po’ più, un po’ meno, un po’ prima, un po’ dopo.

Il progetto di riforma delle Province previsto nella Carta delle autonomie varata ieri dal governo somiglia alla risposta del vecchio Ruggero Bauli a chi gli chiedeva la ricetta del pandoro. Vaghezza.

Spiega infatti quel disegno che entro 24 mesi dal varo della legge (campa cavallo…) il governo ne deciderà la «razionalizzazione».

Decisione che sarà presa basandosi sulla «previsione che il territorio di ciascuna Provincia abbia un’estensione e una popolazione tale da consentire l’ottimale esercizio delle funzioni previste per il livello di governo di area vasta». Vale a dire? Chi vivrà vedrà. Tanto più che la riforma dovrà passare al vaglio delle Camere dove difficilmente, visti i precedenti, diventerà più rigida.

Nel frattempo, a dispetto delle promesse che vedevano per una volta d’accordo sia Berlusconi («Non parlo delle Province, bisogna eliminarle») sia Fini («I carrozzoni non sono intoccabili e si possono abolire per esempio le Province») tutto resta com’era. Come volevano Bossi («Le Province non si toccano») e la Lega, che in attesa di conquistare Veneto e Piemonte hanno sempre detto di non voler mollare quegli enti dove un peso l’avevano. Alla faccia dei 17 miliardi che ogni anno ci costano. Sia chiaro: una robusta sforbiciata, nel disegno di legge presentato da Roberto Calderoli, c’è. E va riconosciuta. D’ora in avanti, spiegano le agenzie, «le giunte comunali potranno essere composte da un massimo di due assessori per i Comuni tra 1.001 e 3.000 abitanti, fino a un massimo di 12 nei Comuni con più di 1 milione di abitanti e 10 se sopra i 500 mila. Le giunte provinciali potranno essere composte da un massimo di 4 assessori per le Province con meno di 300 mila abitanti, fino a un massimo di 10 assessori per quelle con più di 1.400.000 abitanti».

Quanto ai consigli comunali, non più di 45 membri nei Comuni con oltre un milione di abitanti (oggi sono 60), non più di 40 in quelli con più di 500 mila (oggi 50), non più di 37 in quelli con più di 250 mila (oggi 46) e giù a scalare fino al minimo: non più di otto nei municipi con meno di mille abitanti. Certo, sono riduzioni meno drastiche di quelle promesse mesi fa e di quelle che il ministro leghista aveva in tasca ieri mattina all’ingresso a palazzo Chigi: sperava di tagliare il 35%, ha dovuto accontentarsi del 20%, quello strappato a suo tempo da Prodi. Così come sono stati sensibilmente «ritoccati» al rialzo i tetti massimi dei membri dei consigli provinciali: dovevano scendere a 30 per le Province con più di un milione e 400 mila abitanti e invece saranno 36, scendere a 24 per quelle con più di 700 mila e invece saranno 30, scendere a 18 per quelle con più di 300 mila e invece saranno 24, scendere a 12 per tutte le altre più piccole e invece saranno 20. Per non parlare dei vertici amministrativi dei municipi. La facoltà per i Comuni con almeno 15 mila abitanti di nominare un direttore generale (anche con stipendi stratosferici) era stata nella prima bozza abolita: d’ora in avanti, solo con almeno 250 mila abitanti. Macché, ne basteranno 65 mila.

Amen: chi si contenta gode. C’è chi dirà che, nell’annunciare trionfante il «taglio complessivo di 50 mila poltrone» Roberto Calderoli esagera. Ed è vero: a parte gli assessori è difficile considerare una «poltrona», come comunemente s’intende, un seggio che prevede un gettone di 59 euro lordi nelle città con più di 250 mila abitanti come Venezia o Firenze (manco i soldi per la baby sitter), 36 euro in quelle da 30 a 250 mila come Padova o Brescia o 18 euro e 8 centesimi lordi, cioè poco più di dieci euro netti, per i municipi fino a 10 mila abitanti come Cortina d’Ampezzo o Fiuggi.

Quello che più spicca, però, non è quello che c’è nella legge: è quel che manca. In particolare nei confronti di alcuni degli enti che Calderoli definisce non solo superflui ma «dannosi». Nella prima bozza del provvedimento, del 15 maggio scorso, fosse o no giusto quel marchio d’infamia, era prevista ad esempio la soppressione dei difensori civici comunali e provinciali che (eccezioni a parte), si sono rivelati deludenti, dei Commissariati per la liquidazione degli usi civici, delle circoscrizioni nei Comuni con meno di 250 mila abitanti, dei Tribunali delle acque pubbliche, delle comunità montane, dei bacini imbriferi montani, delle Autorità d’ambito territoriale (Ato), dei consorzi di bonifica e degli enti

CHIARA DATTOLA

parco regionali. Una decimazione. Col passare dei mesi, umma umma, sono scampati al braccio della morte i Commissariati per gli usi civici e i Tribunali delle acque e le Ato e gli enti parco regionali e i difensori civici provinciali.

Finché ieri sono stati salvati anche i consorzi di bonifica e i bacini imbriferi montani… rimasto, questo sì, il taglio delle comunità montane.

«Sono 367 e il grosso delle spese serve per il personale e i gettoni e quello che viene lasciato alle funzioni che svolgono è la minima parte.

D’ora in avanti, se le vogliono, se le paghino le Regioni», ha spiegato Calderoli. Le cifre sventolate dal ministro, però, sono contestate. Dopo i tagli decisi da 13 su 15 delle regioni ordinarie, sono scese da 352 a 220, regioni a statuto speciale comprese: un colpo di accetta del 37%. Quanto ai gettoni a presidenti, assessori e consiglieri gli ultimi dati Istat parlavano di una somma intorno al 3,5%.

E a questo punto un dubbio è legittimo: vuoi vedere che, incapace di tagliare davvero sulle cose grosse (Province, Regioni, Parlamento, spesa sanitaria…) il Palazzo vuole offrire alla plebe la testa mozzata del soggetto più debole, la comunità montana che in certe aree era diventato un folle carrozzone clientelare ma in altre ha cercato davvero di arginare la crisi, lo spopolamento, l’abbandono delle nostre Alpi e dei nostri Appennini? Conosciamo la risposta: subentreranno le Unioni tra i piccoli Comuni, obbligati a dividere le spese mettendosi insieme. Sarà… Ma se è vero che i Comuni sotto i tremila abitanti sono 4.548 e che finora le unioni in genere raggruppano cinque municipi non c’è il rischio, come denuncia Enrico Borghi a nome dei «montanari», che a 220 comunità montane (che nel 2011 riceveranno 10 milioni di euro, pari a un centesimo della Camera) subentrino un migliaio di nuovi enti consentendo magari di salvarsi, sotto altro nome, alle comunità montane a 39 metri sul mare?