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 2009  novembre 20 Venerdì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

KABUL - Il traffico è vietato, le passeggiate scoraggiate, la popolazione chiusa in casa. Le telecamere del dirigibile bianco che sorveglia le strade colgono soltanto un ubiquo appostarsi di poliziotti e militari. L´Afghanistan festeggia, se si può dir così, l´insediamento di Hamid Karzai, presidente al suo secondo mandato. Dall´alba Kabul è il fondale immobile di una cerimonia che richiama a Kabul la diplomazia internazionale, quasi tutta gente che i Taliban amerebbero ammazzare. La volontà omicida della guerriglia non scoraggerà Karzai dal pronunciare, nel discorso programmatico scritto insieme agli americani, la parola cui molti spionaggi stanno cercando di dare sostanza con un lavorio segreto: "Riconciliazione" (tra il governo e la guerriglia). Né impedirà al presidente di promettere che da qui a cinque anni la sicurezza del Paese sarà «interamente» sulle spalle degli afgani. La missione della Nato sembra così trovare un orizzonte temporale, un calendario, una data-limite, il 2014, entro la quale i contingenti torneranno a casa. Eppure lo spettacolo stralunato offerto ieri dalla capitale suggerisce che al momento questi impegni siano soprattutto un tranquillante made in Usa somministrato alle opinioni pubbliche americana ed europea.
Le delegazioni convenute nel Darul-Aman, l´ex palazzo reale ancora sfigurato dai bombardamenti del 1991, rappresentano i pesi massimi dell´area e una new-entry che fatica a far accettare la sua presenza nella regione, l´Occidente. Chi a Kabul frequenta europei e americani racconta che mai l´alleanza occidentale è parsa così sfiduciata. Gli americani spaccati, gli europei quasi tutti in mesta attesa delle decisioni di Obama, che preferirebbero condivise. Obama riflette da alcune settimane, e non è chiaro se le sue riflessioni produrranno una strategia politico-militare per perseguire qualcosa di simile ad una vittoria, oppure innanzitutto una strategia di comunicazione che permetta una ritirata onorevole, per quanto sia possibile salvare l´onore di un esercito poderoso sconfitto da un nemico modesto. Aspettando la linea da un presidente che è entrato in scena come un Kennedy e non ne vuole uscire come un Johnson, schiacciato da un nuovo Vietnam, gli occidentali faticano a nascondere rivalità mediocri, un´ansia confusa di trovare una via d´uscita, e scetticismo sui partner afgani, Karzai in testa.
Lo spettacolo odierno dovrebbe cancellare tutto questo, inaugurare una nuova fase, mimare unità, determinazione, soprattutto una compatta fiducia in Karzai. Questo prevede il copione, cui si atterrà anche il presidente afgano. Ma come conferma il tono nervoso con cui legge il suo discorso, Karzai è molto irritato. Non perdona a Londra, a Parigi e ad una parte della diplomazia Usa d´aver cercato di fargli perdere le elezioni; e, poi, di averlo costretto ad una conferenza-stampa in cui appariva circondato dagli ambasciatori americano, britannico e francese, come un capo indigeno che dipenda dalla condiscendenza delle potenze coloniali. Ritiene che la sua elezione sia dovuta non a brogli, ma ad un merito indiscusso: senza le sue capacità di mediazione l´Afghanistan sarebbe imploso in conflitti etnici, come l´Iraq. E oggi la sala dell´insediamento non pullulerebbe di copricapi d´ogni foggia, dai turbanti pashtun ai pakol tagichi.
Però questa convivenza ha un prezzo, illustrato dai due capi di milizie seduti in prima fila, l´hazara Khalili e il tagico Fahim. Nuovi vicepresidenti dell´Afghanistan, garantiscono la pluralità etnica (Karzai è pashtun). Ma il loro passato militare è buio. Gli americani hanno chiesto fino all´ultimo a Karzai di liberarsi del più chiacchierato, Fahim, e di imbarcare nella presidenza o nel governo un altro tagico, Abdullah, il candidato sconfitto nelle elezioni. Però hanno fallito. Non solo Karzai è stato irremovibile, ma ha invitato alla cerimonia dell´insediamento anche un generale noto per aver massacrato prigionieri, Dostum, che gli garantisce consenso tra gli uzbechi.
Il pragmatismo feroce che guida Karzai in queste alleanze etniche ufficialmente inquieta Washington, ma non impedisce ad Hillary Clinton di sedere a due passi dal discusso Fahim. Misto di passione, irruenza e candore, da queste parti il ciclone Hillary ha ribaltato i canoni di una diplomazia imperiale fatta di doppiezza e ambiguità, e ripagata nello stesso modo. La sua franchezza sconcerta i generali pakistani (non riesco a credere che ambienti militari non sappiano dove si nascondano i capi di Al Qaeda, ha detto Hillary durante il recente viaggio in Pakistan).
Ma la sua sincerità talvolta riesce a disarmare diffidenze, e anche per questo i suoi rapporti con Karzai sono buoni. Nel suo discorso Karzai dice quel che la Clinton probabilmente conosce da giorni o comunque ha letto in anteprima la sera precedente, quando ha cenato con il presidente afgano. Il governo lotterà contro la corruzione e il narcotraffico. Ricorrerà a nuove leggi e ad una task-force aiutata da Fbi, Scotland Yard ed Euro-polizia, l´Eupol. Formerà un governo di onesti e competenti. Tra i ministri che vorrebbero imporgli gli americani vi sarebbe anche Gul Aga Shirzai, governatore di Kandahar, di cui il Wall Street Journal ha offerto di recente un ritratto lusinghiero. Omettendo però due dettagli: Gul Agha è noto per malversazioni e traffici loschi; ed è incapace di articolare pensiero. Però si è reso utile ad apparati americani, così come uno tra i fratelli di Karzai, Ahmed Wali, governatore di Kandahar e cognato di un narcotrafficante. Gul Agha sarà ministro? Ahmed Wali resterà governatore? Solo le scelte concrete diranno se gli americani e Karzai siano davvero convinti che uno stato di diritto meno inefficiente sia la scelta strategica cruciale. Ne dubita, per esempio, il ministro degli Esteri afgano, Spanta: Washington, dice, stila la lista dei buoni e dei cattivi in base alle proprie convenienze.
Altrettanto vago è quel che il presidente e gli occidentali intendano per "riconciliazione" con i Taliban. Karzai auspica la fine alla "guerra fratricida" e loda gli sforzi della corte saudita, che nelle scorse settimane ha promosso riunioni alla Mecca. Vi hanno partecipato due funzionari del governo afgano, un fratello di Karzai, il capo degli ulema di Kabul, e per la controparte, il genero del capo guerrigliero Hekmatyar e undici afgani legati al mullah Omar, però non autorizzati a condurre negoziati di pace. Si vocifera di un´iniziativa britannica, collegata o alternativa a questa, che avrebbe condotto ad un incontro segretissimo con emissari del mullah Omar; e suggerito a Gordon Brown la sua recente proposta, espungere i nomi di Taliban dalla lista Onu dei terroristi legati ad Al Qaeda. Se alcuni tra quei mullah sparissero dall´elenco, potrebbero viaggiare senza temere l´arresto, e dunque svolgere il ruolo di negoziatori ufficiali. Russi e indiani non gradirebbero questa soluzione, ma forse rinuncerebbero a bloccarla se i mullah in questione accettassero la Costituzione afgana (come suggerisce l´ambasciatore dell´Unione europea, Sequi).
Il comando americano in Afghanistan ritiene che solo la pressione militare può forzare i Taliban a negoziare, e soprattutto a negoziare da una posizione di debolezza. Ma se stiamo ad uno tra i più stimati politici afgani, l´ex vicepresidente Hedayat Amir Arsala, le ultime mosse degli occidentali hanno prodotto l´effetto opposto. «Mandate segnali sbagliati. Drammatizzando oltre misura la storia delle frodi elettorali e della corruzione, avete dato ai Taliban l´impressione che siamo deboli, quando invece non è così. Quanto più li rafforzate in questa convinzione, tanto meno avranno interesse ad un negoziato di pace». Gli occidentali sembrano non capire che messaggi destinati alla loro opinione pubblica assumono tutt´altro significato in Afghanistan. Così anche l´annuncio che i contingenti Nato rimpatrieranno nel 2014, e che dal 2012, come ieri pronosticava Hillary Clinton, sarà l´esercito afgano a condurre le operazioni e ad assumere i pericoli maggiori, conferma ai Taliban che il tempo è dalla loro parte.