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 2009  novembre 20 Venerdì calendario

ARTICOLI SUL CASO EMANUELA ORLANDI - TUTTI DEL 20/11/2009


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«Davvero mia figlia è finita così?» di Claudio Marincola, Il Messaggero 20/11/2009

ROMA «Se è tutto vero, se Emanuela è finita davvero in quel modo, neanche Dio dovrebbe perdonarli. Ma Dio è troppo buono e li perdonerà».Da quasi 26 anni la signora Maria vive in simbiosi coi suoi ricordi e con una figlia che non c’è più. Nello stesso appartamento di sempre, al primo piano di una palazzina nel cuore del Vaticano. Soffitti alti, marmi, porte bianche, la prospettiva del Cupolone che incombe.
Maria ha i capelli ondulati, la permanente perfetta, la maglietta bianca a fiori, i pantaloni lunghi e un foulard color fucsia. La vicinanza dai suoi ricordi non l’ha aiutata a dimenticare. Ammesso che ne abbia voglia. Ma il tempo passa e la stanza di Emanuela nel frattempo è diventata quella delle sue nipotine. Un disegnino, il nome di due bimbe sulla porta, la prima sulla sinistra dopo l’ingresso, il dolore si cancella anche così.
Ora che suo marito non c’è più le sono rimasti i due figli grandi e sei nipoti. Il maggiore ha 22 anni, la più piccola è appena tornata da scuola, indossa ancora il grembiule e gioca a rifugiarsi tra le gambe della nonna. «Ai miei nipoti parlo sempre di Emanuela. Sono loro che mi danno la forza di andare avanti. Siamo una famiglia molto unita. Lo eravamo prima e lo siamo adesso. Questa casa che vede è sempre stata piena di gente. Anche dopo, abbiamo continuato a vivere con la porta aperta».
Ci sono risposte che ancora non si possono dare.
«Ma loro, i miei nipoti, vogliono sapere tutto. Soprattutto il più grande. Io invece preferisco parlare di Emanuela, tenere vivo in loro il ricordo. Lei è sempre viva nel mio cuore ma questo è un dolore immenso».
Una donna avrebbe identificato il telefonista ”Mario”.
«In realtà non ne so molto. «E’ stata una mia parente a dirmelo, e sinceramente, avrei preferito saperlo in un altro modo. A questo punto non so che pensare, potrebbe essere una svolta oppure niente. tutto ancora da verificare, vediamo se queste cose sono vere o se è solo una bolla di sapone. Sono passati così tanti anni e lo hanno saputo solo adesso? Anche se...una strana coincidenza ci sarebbe...»
Sarebbe a dire?
«Proprio oggi sarebbe stato il compleanno di Ercole, mio marito. Forse è un caso. O magari un segnale, una speranza, non so...Io sono una donna molto cattolica. Prego molto».
Lei ricorda quelle telefonate?
«In quei giorni, voglio dire subito dopo la scomparsa di Emanuela, ne arrivarono tantissime. Specialmente nei primi due giorni, quando il nostro telefono non era ancora sotto controllo. Molte erano di sciacalli, gente che, come succede in questi casi, chiama solo per farti del male. E comunque a distanza di così tanto tempo è difficile, non so, non saprei riconoscere una voce».
Lei rispondeva al telefono?
«Qualche volta, certo, anch’io. Ne ricordo una in cui parlando del sequestro chiesi se era stato tutto organizzato prima».
E cosa le risposero?
«Dissero che per organizzarlo c’era voluto un mese. Il che è molto probabile».
Cosa glielo fa pensare?
«Guardi, sia io che mio marito andavamo a prendere Emanuela a scuola tutti i giorni. Quel giorno se nessuno dei due ci andò fu solo per un caso. Qualcuno evidentemente ci controllava, decise che era arrivato il momento».
Mario?
«Lo ripeto, proprio non so».

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Quel timbro trasteverino dalla voce che ha tradito "Mario" il telefonista, di Massimo Martinelli, Il Messaggero, 20/11/2009

ROMA - Sono passati sei giorni quando arriva la telefonata di ”Mario”: sei giorni di attesa da quando Emanuela non è tornata a casa dopo la lezione di flauto. E’ il 28 giugno 1983; e quella voce da romano doc, trasteverino, diventa l’unica traccia concreta che per 26 lunghi anni resterà nelle mani degli inquirenti romani. L’indagine imboccherà poi piste suggestive e fantasiose, come quella che conduce ad Alì Agcà, oppure ai misteri dell’Ambrosiano. Ma alla resa dei conti quelle telefonate rimangono le uniche tracce che i sequestratori di Emanuela decidono di lasciare dietro di loro. E ormai è possibile affermare che portano tutte, in maniera incontestabile, a Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei fondatori della Magliana.
Ma andiamo con ordine. A cominciare da quel pomeriggio del 22 giugno ”83, quando un giovanotto elegante, biondino ed educato parcheggia la sua automobile davanti al Senato, in Corso Rinascimento. Quasi certamente, quel giovanotto è De Pedis e fa di tutto per farsi notare: posteggia contromano con una Bmw Touring, in quegli anni rarissima, di un colore verde oro brillante. Il giovanotto blocca Emanuela con garbo mentre la ragazza sta andando alla scuola di musica; le dice di essere un rappresentante della Avon cosmetici e le propone un lavoro interessante: 375mila lire al mese per vendere prodotti Avon durante le sfilate delle Sorelle Fontana a Palazzo Borromini. Lo notano un vigile e un agente di Ps. Emanuela deve scappare a scuola, ma sembra entusiasta; così almeno racconterà alla sua amica Raffaella Monzi, appena entrata in classe. Il vigile conferma di aver sentito il biondino salutare Emanuela amichevolmente: «Ciao, ci vediamo dopo». Qualche ora dopo, intorno alle diciotto, Emanuela esce con la Monzi ma il biondino non si fa vedere. L’amica saluta e sale sul primo autobus per tornare a casa, ma mentre il mezzo sta ripartendo vede che la Orlandi viene avvicinata da un’altra ragazza. Più tardi, un poliziotto racconterà di aver visto la Orlandi salire tranquillamente su una macchina di grossa cilindrata, senza che nessuno la costringesse. E’ l’ultima volta che qualcuno la vede viva.
Tre giorni dopo la prima telefonata interessante, in mezzo alle decine di chiamate che arrivano dopo che la famiglia aveva lanciato l’allarme. Parla Pierluigi, dice di avere sedici anni e che la sua fidanzata aveva conosciuto a Campo de’ Fiori due ragazze; una di loro, Barbara, vendeva cosmetici e sapeva suonare il flauto; ma si vergognava di portare i suoi occhiali a goccia. Esattamente come Emanuela, scomparsa con il suo flauto dopo la lezione di musica e con il complesso degli occhiali. Pierluigi richiama il giorno dopo e aggiunge dettagli esatti: ”Barbara”, come la chiama lui, avrebbe dovuto suonare il flauto al matrimonio imminente della sorella. Proprio come avrebbe dovuto fare Emanuela Orlandi al matrimonio imminente di sua sorella Natalina. Ma di queste due telefonate non c’è traccia negli atti di indagine, perché misteriosamente la Questura non ha ancora messo sotto controllo la linea della famiglia Orlandi.
Tre giorni dopo arriva una terza telefonata importante, quella di un certo ”Mario”. Nel frattempo il fidanzato di Natalina Orlandi, consigliato da un amico di famiglia che è agente del Sisde, Giulio Gangi, ha comprato un piccolo registratore che ”cattura” la voce del telefonista. ”Mario” dice che Emanuela ”è sortita via”; per descrivere le cianfrusaglie che Emanuela avrebbe portato con se, parla di ”paccottija”. Lo 007 Giulio Gangi la segnala subito questa caratteristica da romano da generazioni. E annota in un’informativa che la telefonata di ”Mario” sembra avere uno scopo doppio: rassicurare la famiglia sulle buone condizioni di Emanuela, che sarebbe andata via da casa per sfuggire ad una vita ”piatta”, ma anche intuire quanto i familiari abbiano capito di quell’incontro con il biondino della Bmw. «E’ un bravo ragazzo, benestante ed educato», dice Mario, affermando di conoscerlo bene. Qualche mese dopo, l’agente Gangi ritrova la Bmw Touring. E’ nella carrozzeria di piazza Vescovio di Fausto Annibaldi, socio in affari di Ernesto Diotallevi, un altro boss della Magliana. Gangi chiede chi ce l’ha portata e un meccanico gli da l’indicazione di un residence alla Balduina, il Mallia. Dove Gangi trova una donna che assomiglia incredibilmente a Sabrina Minardi, all’epoca donna di De Pedis, oggi supertestimone della Procura.
massimo.martinelli@ilmessaggero.it

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«Sì, Emanuela Orlandi fu uccisa» dopo 26 anni indagato il telefonista, di Cristiana Mangani, Il Messaggero, 20/11/2009

Le sue telefonate hanno tenuto la famiglia Orlandi con il fiato sospeso per giorni: Conosceva veramente Emanuela? Che ruolo ha avuto nella scomparsa? ”Mario”, così si presentava il telefonista, l’uomo che dettava le regole e dava assurde indicazioni sul perché la ragazza fosse andata via di casa. Ventisei anni dopo la procura della Capitale lo ha individuato e indagato. E insieme con lui sta accertando le posizioni di almeno altre tre persone che, in quel rapimento, potrebbero aver avuto un ruolo. Tra questi lo stesso rapitore. l’ultimo atto di una inchiesta che ha ripreso vigore dalle dichiarazioni di Sabrina Minardi, la donna che è stata per dieci anni accanto al boss Enrico De Pedis. Gli inquirenti spiegano che ”il telefonista” potrebbe essere un gregario della banda della Magliana, non un personaggio di primo piano, ma a conoscenza dei segreti di ”Renatino” e anche di quelli della sparizione e del presunto omicidio di Emanuela Orlandi. Non si tratterebbe di ”Rufetto”, uno dei killer del capo, che il pentito Antonio Mancini avrebbe riconosciuto nella voce trasmessa dalla trasmissione televisiva ”Chi l’ha visto?”. Ma di qualcuno che oggi non sconta anni di carcere ed è libero, perché ha nel suo curriculum rapine, estorsioni, furti.
Il ”telefonista” chiamò a casa degli Orlandi il 28 giugno del 1983, sei giorni dopo la scomparsa della figlia quindicenne del postino personale di papa Wojtyla, commesso della segreteria vaticana. Quella telefonata venne registrata e per lungo tempo la voce è rimasta uno dei tanti misteri che avvolgono la scomparsa della ragazza. Sabrina Minardi con il suo racconto a tratti sfocato a tratti preciso, sembra questa volta aver fornito un grosso contributo ai magistrati. Soprattutto due sere fa, quando è stata nuovamente interrogata dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dal pm Simona Maisto, le sono state fatte vedere nuove foto, e ascoltare il nastro con la voce di ”Mario”. « lui», avrebbe detto. E l’uomo è finito sul registro degli indagati per omicidio aggravato dalle sevizie e dalla minore età della vittima e rapimento a scopo di estorsione. Mentre sui presunti rapitori le indagini della squadra mobile sono ancora in corso.
Il nome del telefonista in realtà era già noto agli inquirenti che da un anno e mezzo, dopo la svolta alle indagini data dall’ex procuratore aggiunto Italo Ormanni che raccolse le prime rivelazioni della Minardi, hanno continuato a lavorarci sopra. La sua casa è stata perquisita, ma senza esito. Non si tratta di ”Rufetto”, ma nemmeno di Libero Mancone, soprannominato ”Fierolocchio”, altro componente dell’organizzazione criminale, morto due anni fa. Una nuova persona nei cui confronti si sta ipotizzando di chiedere un’ordinanza di custodia cautelare.
Nonostante l’indagato rimangono comunque tanti gli aspetti ancora da chiarire in questa vicenda. Sembra infatti impossibile che Sabrina Minardi abbia sentito solo due sere fa la voce registrata del telefonista. Da anni, il nastro circola per le trasmissioni televisive. La procura, però, dà credito alla sua versione e anzi dice che il suo racconto ora è «coerente». «Emanuela è morta - insiste Sabrina - io e De Pedis l’abbiamo consegnata a uno che sembrava un sacerdote: scese da una Mercedes targata Vaticano. Somigliava a Emanuela, era confusa, non stava bene, piangeva e rideva. Dopo qualche mese gettarono il cadavere chiuso in un sacco in una betoniera in un cantiere sul litorale di Torvaianica». Qulche tempo fa la donna disse che i sacchi erano due, l’altro conteneva il corpo del giovane Domenico Nicitra, il ragazzino rapito e fatto scomparire per una storia di mafia. Ma il particolare non era possibile e gettava un’ombra sui ricordi della donna, perché il figlio undicenne del boss risale a giugno del ”93, dieci anni dopo la scomparsa di Emanuela. Ora sembra che tutto sia stato chiarito e che quella falla sia stata soltanto dovuta a una confusione temporale.

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Tra bar e basiliche, un giallo romano di Maria Lombardi, Il Messaggero, 20/11/2009

ROMA - Su Corso Rinascimento, di fronte al Senato, c’è un baretto per turisti, le bandiere di plastica appese a un filo, la foto di due suore per la pubblicità di un caffè. Nei pressi di questo bar, il 22 giugno di 26 anni fa, comincia una storia non ancora finita che attraversa Roma e scende sottoterra, intreccia misteri italiani e intrighi internazionali, mischia destini di potenti e malavitosi, percorre luoghi sacri, tombe nobili e ”discariche” per cadaveri senza nome. Quel pomeriggio lì Emanuela Orlandi, una quindicenne cittadina vaticana divisa tra scuola e musica, sale su una macchina vistosa ed entra in un mistero, da ragazza qualsiasi a simbolo dei gialli irrisolti, i capelli scuri e lunghi, la fascia sulla fronte, sorride sui manifesti che in pochi giorni rivestono la città: «Scomparsa».
Corso Rinascimento. Quel pomeriggio Emanuela ha lezione di piano alla scuola ”Tommaso Ludovico da Victoria”, nei pressi di piazza Navona. Arriva un poco in ritardo, spiega a un’amica, perché davanti al bar di Corso Rinascimento l’ha fermata un biondino stempiato (potrebbe essere Renatino De Pedis) con una borsa della ditta di cosmetici Avon: le offre un bel po’ di soldi (più di 300mila lire) per distribuire profumi a una sfilata delle sorelle Fontana. Sul cofano di una Bmw Touring ”verde tundra” il biondino le mostra i cataloghi. «Ciao, ci vediamo dopo», la saluta. Dopo la lezione, Emanuela torna lì. Un poliziotto e un vigile urbano la vedono salire, intorno alle 18,45, su una grossa auto scura. Poi, di lei, più niente.
Balduina. Macchine così ce ne sono poche in giro, impossibile non notarla. Un ex agente operativo dei servizi segreti civili, Giulio Gangi, amico della famiglia Orlandi, poche settimane dopo la scomparsa di Emanuela fa delle ricerche sulla Bmw giardinetta. Scopre che un meccanico del quartiere Vescovio ne ha riparata una di recente, l’aveva portata una donna bionda e bella, c’è un suo recapito: il residence Mallia, in largo Damiano Chiesa 8, alla Balduina. Gangi incontra la donna, non ne ricava nulla, la pista viene abbandonata. Il residence c’è ancora, ha una bella piscina ed è anche un centro sportivo.
Via Pignatelli. Forse era qui la prigione di Emanuela, almeno secondo i racconti di Sabrina Minardi, per anni l’amante di De Pedis. L’indirizzo è via Antonio Pignatelli 11, a Monteverde: la ragazza sarebbe vissuta nei cunicoli sotterranei che partono dall’appartamento allora di proprietà di un’amica di Danilo Abbruciati, un altro della banda della Magliana. La domestica Teresina si occupava di Emanuela, racconta la Minardi. Sul citofono il nome della donna accusata da Sabrina di essere la ”carceriera” della quindicenne scomparsa c’era fino a un anno fa, adesso è sparito. ”Police”, è scritto adesso sul citofono del palazzo anni Cinquanta. Dal piccolo appartamento parte un sotterraneo lunghissimo che arriva fino all’ospedale San Camillo. Dietro un muro, la polizia ha trovato un anno fa un piccolo vano, un bagnetto, una brandina.
Il bar Gianicolo. Dietro il bancone, la foto con dedica di Verdone e quella anonima di Marylin, accanto alla cassa il ritratto di Garibaldi. Chi entra, saluta. Al bar Gianicolo Sabrina Minardi dice di aver incontrato Emanuela. Accadde - dice la donna - «sei, sette mesi prima della sua morte. Arrivai al bar del Gianicolo in macchina. Renatino mi aveva detto che avrei incontrato una ragazza che dovevo accompagnare con un’altra auto, una Bmw, al benzinaio del Vaticano. L’accompagnava una donna», forse la governante - aggiunge Sabrina - della proprietaria della casa di via Pignatelli.
Il benzinaio del Vaticano. E’ lì che la Mainardi dice di aver portato Emanuela. «Le ho chiesto: come ti chiami? Emanuela mi ha risposto. All’appuntamento c’era uno che sembrava un sacerdote: scese da una Mercedes nera e prese la ragazza. A casa domandai: A Renà, ma quella non era... Se l’hai conosciuta, mi rispose, è meglio che te la scordi».
Torvaianica. Forse Emanuela è sepolta lì, in una betoniera. Uccisa nel 1983, sempre secondo la superteste. «Renato mi portò a pranzo in un ristorante a Torvaianica, da ”Pippo l’Abruzzese” - racconta la donna del boss - aveva un appuntamento con questo Sergio. Portò, dice lui, il corpo di Emanuela Orlandi. Io non lo so che c’era dentro i sacchi perché rimasi in macchina. Lui mi disse che dentro a quella betoniera ci buttò due corpi».
Sant’Apollinare. La basilica dove è stato sepolto Renato De Pedis, il boss tra monsignori e nobili. E’ vicina a piazza Navona, a due passi da dove Emanuela sparì, ipotetico raccordo tra la vicenda della figlia del commesso vaticano e la banda della Magliana. Una telefonata anonima alla trasmissione tv ”Chi l’ha visto?” rivelò: «Se volete saperne di più su Emanuela Orlandi, guardate nella tomba di De Pedis». La famiglia, dopo le polemiche, ha deciso di spostare le spoglie. Ma il mistero resta, uno dei tanti che s’intreccia con la scomparsa di Emanuela. RIPRODUZIONE RISERVATA

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I silenzi del Vaticano che fermarono pm e 007 del Sisde, Il Messaggero, Massimo Martinelli, Il Messaggero, 20/11/2009

ROMA - In una storia in cui i misteri sono ancora tantissimi, la Procura di Roma una cosa ce l’ha ben chiara: il Vaticano non ha mai fornito collaborazione e probabilmente ha omesso verità fondamentali per ricostruire la tragica fine di Emanuela Orlandi. Aldilà del verbale di interrogatorio di Sabrina Minardi, che racconta come De Pedis le consegnò la ragazza semi-incosciente davanti al Bar Gianicolo a bordo di una Bmw Touring e le disse di consegnarla ad un monsignore che somigliava a Paul Marcinkus, poche centinaia di metri più avanti, esistono documenti processuali che puntano il dito in maniera diretta contro alcuni dei più alti prelati dell’epoca.
A cominciare dalla sentenza del giudice istruttore Adele Rando che a metà degli anni Novanta indagò sulle storie parallele di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, entrambe scomparse nel nulla: «L’apporto istruttorio delle rogatorie introdotte davanti all’autorità giudiziaria della Città del Vaticano, lungi dal soddisfare i quesiti per i quali le stesse erano state proposte, si traduce nella conferma di alcuni interrogativi», scrive la Rando nella sua sentenza. Per comprendere il suo pensiero basta rileggere il verbale dell’interrogatorio che le rese l’ex capo della Polizia, Vincenzo Parisi, nel febbraio ”94, quando era vicecapo del Sisde: Parisi raccontò di aver incontrato venti giorni dopo la scomparsa della Orlandi il monsignor Dino Monduzzi, all’epoca reggente della Prefettura Pontificia dove lavorava anche il papà di Emanuela, Ercole Orlandi. E di aver avuto l’impressione della scarsissima volontà di favorire le indagini da partre sua e di altri prelati pontifici. La Rando chiese di interrogarne alcuni, e precisamente Agostino Casaroli, Angelo Sodano, Giovanni Battista Re, Dino Monduzzi ed Eduardo Martínez Somalo. Ma per due volte la richiesta di rogatoria della procura di Piazzale Clodio si infranse contro il diniego del Giudice Unico del Vaticano, il dottor Gianluigi Marrone, nei cui uffici tra l’altro lavorava anche Natalina Orlandi, la sorella di Emanuela.
Ad aumentare il sospetto dei magistrati, arrivarono anche i rapporti degli analisti del Sisde sul profilo di chi poteva aver redatto alcuni comunicati che arrivarono per mettere in collegamento la scomparsa delle sue ragazze con la detenzione di Alì Agcà, l’attentatore del Papa. Secondo quei rapporti, a scrivere era un uomo straniero ma da molto tempo a Roma, di cultura elevatissima e profondo conoscitore del latino, ma anche freddo, calcolatore e perfettamente a conoscenza delle leggi che regolamentavano i rapporti tra la magistratura italiana e lo Stato Vaticano. In altre parole, il Sisde indicò un profilo che calzava perfettamente a quello di monsignor Paul Marcinkus, all’epoca direttore dello Ior. Forse anche per questo, furono in molti a non stupirsi quando molti anni dopo si scoprì per Enrico De Pedis, Renatino, aveva avuto l’onore riservato a pochissimi di essere sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, come ”benefattore” della Città del Vaticano.

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La "banda della Magliana" un buco nero e tanti misteri, di Carlo Lucarelli, Il Messaggero, 20/11/2009

SEMBRA un paradosso ma tra i cosiddetti ”misteri italiani” quella della Banda della Magliana è una delle storie più raccontate e allo stesso tempo più misteriose.
Ad analizzare la vicenda -oltre alle indagini, naturalmente, e agli articoli dei giornali- ci sono una decina di saggi, alcuni romanzi, un paio di film per il cinema, un altro paio per la televisione e anche una serie di telefilm, più un’infinità di trasmissioni di approfondimento.
Eppure la Banda della Magliana torna come un piccolo buco nero tutte le volte che si affrontano ”gialli” dal risvolto particolarmente complesso, come il ”caso Moro”, l’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, la Strage di Bologna, l’omicidio del banchiere Roberto Calvi, di nuovo e recentemente il rapimento di Manuela Orlandi, solo per citarne qualcuno. A torto o a ragione non importa, la banda della Magliana salta sempre fuori.
Dal punto di vista banalmente criminale la storia è abbastanza semplice. Alla metà degli anni ”70 un esponente della malavita di Trastevere che si chiama Franco Giuseppucci mette assieme altri personaggi emergenti della mala romana ”soprattutto quelli provenienti dalla zona di via della Magliana- con un’idea abbastanza precisa: prendersi la città. Per riuscirci, spiega Giuseppucci a Enrico De Pedis, a Maurizio Abbatino e poi agli altri che si aggiungeranno, come Danilo Abbruciati o Nicolino Selis, bisogna fare come ”i siciliani”, e cioè la mafia: unirsi, organizzarsi e controllare il territorio. E soprattutto sparare.
Per una quindicina d’anni la banda della Magliana controlla le principali attività criminali che si svolgono a Roma, soprattutto il traffico di droga. Reinveste parte degli utili nell’organizzazione stessa -anche corrompendo esponenti delle istituzioni per coprirsi le spalle- ed elimina tutti quelli che si oppongono a questa specie di monopolio criminale. Da Franco Niccolini, detto Franchino Er Criminale, ammazzato nel parcheggio dell’ippodromo di Tor della valle nel 1978, Roma conosce una stagione di omicidi e di sparatorie come non ne aveva mai viste prima.
Finisce tutto nel sangue. Neanche organizzazioni di solide tradizioni come Cosa Nostra sono immuni da guerre interne e quelle dei capi della Magliana, soprattutto dopo la morte di Giuseppucci ucciso da un’altra banda nel 1980, sono tutte forti personalità senza una guida che cominciano ad ammazzarsi l’una con l’altra. O a parlare per salvarsi, come Maurizio Abbatino.
Fine? No. Perché tutto questo non avviene in una città di provincia, in un periodo qualunque, ma accade a Roma e in anni cruciali come quelli che stanno tra i ”70 e gli ”80. E’ per questo che le attività della Banda si intersecano quasi fisiologicamente con quelle zone grigie ”ma anche con quelle più nere- che hanno fatto da humus ai sempre cosiddetti ”misteri italiani”.
La Banda della Magliana ha la necessità di ripulire e investire i proventi delle attività criminali e così entra in contatto con gli ambienti della finanza più spregiudicata. Lavora in un settore come quello della droga in cui non si può fare a meno di trattare con Cosa Nostra, anche fuori dalla Sicilia. Ha bisogno di armi, covi e documenti falsi in anni in cui terrorismo ”soprattutto quello di estrema destra, i N.A.R. in particolare- e servizi segreti più o meno ”deviati” hanno le stesse esigenze.
Canali in comune, interessi in comune, gli stessi giri, le stesse informazioni, non ci vuole molto a pensare che ci sia uno scambio tra un gruppo militarmente efficiente e ricco come quello della Magliana e gli altri protagonisti di quegli anni di nebbia e di piombo.
Nessuno escluso, neppure il Vaticano dello I.O.R. dei tempi di Paul Marcinkus, a cui si legano due degli ultimi misteri che girano attorno alla banda: il rapimento di Manuela Orlandi, figlia di un funzionario vaticano, scomparsa dal 1983, e la tomba di un boss della Magliana come Enrico De Pedis, ammazzato per la strada dalle parti di Campo de’ Fiori ma sepolto nella basilica di Sant’Apollinare in Classe.
Coincidenze? Episodi isolati? Normale attività di criminali molto presenti sul territorio e quindi esposti a vicinanze sospette ma tutto sommato occasionali? C’è un interrogativo fondamentale che in un certo senso riassume tutto questo. Ai membri sopravvissuti ai regolamenti di conti che vengono processati e condannati non è mai stato riconosciuto il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Dal punto di vista giudiziario la Banda della Magliana non è 416 bis, non è una mafia.
Molti invece ”e io sono tra quelli- pensano che invece lo fosse. Al di là dei modi di fare, dei soprannomi e anche dei luoghi frequentati che hanno fatto di Er Negro, Renatino, Crispino, Er Camaleonte, l’Accattone o Er Catena quasi delle macchiette da poliziottesco all’italiana, la storia conosciuta della banda e soprattutto quella che si presume ancora sconosciuta fanno pensare che ci fosse qualcosa di più.
Qualunque sia il segreto della banda della Magliana è affidato adesso alla memoria di personaggi secondari che periodicamente emergono nelle pieghe di indagini ancora in corso e che potrebbero aggiungere tasselli ad un mosaico molto incompleto. I protagonisti di questa storia la loro verità se la sono portata nella tomba. Una tomba molto eccellente, a volte.

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LA PAROLA CHIAVE: IOR: L’Istituto per le Opere di Religione (meglio noto con l’acronimo IOR) è una banca privata, istituita nel 1942 da Papa Pio XII nella Città del Vaticano. E’ erroneamente considerato la banca centrale della Santa Sede, compito invece svolto dall’Amministrazione del Patrimonio della sede Apostolica (Apsa). Il suo direttore generale riporta direttamente ad un consiglio di amministrazione composto da cardinali che, a loro volta, rispondono al Papa. PREFETTURA CASA PONTIFICIA:
Qui lavorava il padre di Emanuela Orlandi. La Prefettura della Casa Pontificia si occupa dell’ordine della casa pontificia e controlla il servizio dei cappellani e della Famiglia pontificia. E’ stata voluta da Paolo VI con la costituzione apostolica ”Regimi Ecclesiae Universae” del 1967. Si cura del Papa quando si trova nel Palazzo Apostolico oppure quando si trova a Roma o in altra città italiana. Suo ufficio è anche quello di curare le cerimonie pontificie, esclusa la parte riservata al cerimoniere papale (Il Messaggero 20/11/2009).


I luoghi del giallo (Il Messaggero, 20/11/2009):

22 giugno 1983: Emanuela Orlandi, 15 anni, cittadina vatiana, sparisce nel pomeriggio verso le 19.
VATICANO: Appartamento della famiglia Orlandi.
CORSO RINASCIMENTO: Ultimo avvistamento, all’uscita di una lezione di pianoforte.
RESIDENCE MALLìA: Alloggio del proprietario della Bmw nera che avrebbe avvicinato Emanuela.

28 giugno 1983: un tale Mario, ristoratore, telefona a casa Orlandi dicendo di aver visto la ragazza.
VIA DELLE FRATTE: Ristorante di Mario, il "Popi Popi"
SANT’APOLLINARE: Basilica dove è sepolto Enrico De Pedis, "Renatino", boss della Magliana ucciso nel 1990: Mario sarebbe stato un suo affiliato (già accusato e scagionato nel 2006, ora Sabrina Minardi lo avrebbe riconosciuto nella registrazione della telefonata del 1983).

GIUGNO 2008: Sabrina Minardi, all’epoca dei fatti compagna di De Pedis, fornisce nuovi dettagli.
VIA PIGNATELLI: Vi sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela in un appartamento di Daniela Mobili.
GIANICOLO: In un bar, Sabrina prende in consegna Emanuela da una governante della Mobili.
VATICANO: Vicino al benzinaio, la consegna a un uomo vestito da prete.
TORVAIANICA: 6 mesi dopo, il corpo di Emanuela, chiuso in un sacco, è sepolto in un cantiere da De Pedis.



CORRIERE DELLA SERA
ROMA – Accento romano marcato, vicino ai 50 anni, libe­ro dopo aver pagato qualche conto con la giustizia. «Ma­rio », la voce anonima che il 28 giugno 1983, sei giorni dopo il sequestro, telefonò allo zio di Emanuela Orlandi sostenendo di averla riconosciuta per stra­da. A distanza di 26 anni la pro­cura sa chi è: un «ex» della ban­da della Magliana, ora iscritto nel registro degli indagati.

Il contributo decisivo all’iden­tificazione di «Mario» lo ha da­to Sabrina Minardi, la testimo­ne sotto protezione che, più di un anno fa, ha rivelato di essere stata la carceriera di Emanuela. La Minardi era legata a Enrico De Pedis, il capo dei «Testacci­ni » ucciso nel ”90. Mercoledì il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e il pm Simona Maisto l’hanno interrogata per quattro ore e, per la prima volta, le han­no fatto ascoltare la telefonata del 28 giugno 1983. La testimo­ne ha riconosciuto la voce, per­mettendo così di dare un nome e un cognome a «Mario». Non si tratta di «Rufetto», un altro «ex» della Magliana «assolto» da una perizia fonica, ma di un personaggio che spunta per la prima volta nell’inchiesta. Un’in­chiesta che conta quattro so­spettati e che ipotizza, oltre al sequestro a scopo di estorsione, anche l’omicidio pluriaggravato perché, sia per la testimone, sia per i magistrati Emanuela è sta­ta uccisa.

La Minardi racconta che ver­so la fine dell’83 De Pedis la con­dusse in un cantiere a Torvaiani­ca e le mostrò uno dei suoi fede­lissimi, «Sergetto er macella­ro », gettare in una betoniera due sacchi della spazzatura. In uno c’era il corpo della Orlandi, nell’altro – aveva riferito la te­stimone nella prima deposizio­ne – Domenico Nicitra, figlio del boss della Magliana Salvato­re, sparito il 21 giugno ”93, a 11 anni, insieme allo zio France­sco. L’altra sera però la Minardi si è corretta: «Mi sono sbaglia­ta » .

In base ai più recenti riscon­tri, la telefonata del 28 giugno ”83 appare un depistaggio idea­to da De Pedis, che avrebbe ge­stito il sequestro. Nella registra­zione «Mario» si spaccia per ge­store di un bar e sostiene che un suo amico procura a due ra­gazze cosmetici da vendere. Una, che si fa chiamare Barbara (ma sarebbe Emanuela) sareb­be scappata di casa: «Loro lo sanno – racconta ’Mario’ rife­rendo le parole della presunta fuggiasca – me ne sono andata perché ho una vita piatta. Glie­l’ho detto che me ne andavo». Quando però lo zio della Orlan­di chiede l’altezza della nipote, il telefonista esita. E in sottofon­do si sente un’altra voce: «No, de più».
Lavinia Di Gianvito

GIOVANNI BIANCONI SUL CORRIERE DELLA SERA
ROMA – Non c’è solo il telefonista tra le perso­ne che potrebbero aver avuto un ruolo nel sequestro di Emanuela Orlandi individuate da polizia e magi­stratura. Le indagini che da quasi due anni la Squa­dra mobile di Roma sta conducendo sulla scomparsa della ragazza figlia di un dipendente vaticano, avve­nuta nel 1983, avrebbero portato all’identificazione di uno dei possibili rapitori di Emanuela. una pista che ha bisogno di ulteriori riscontri, ma è considera­ta la più importante fra quelle imboccate negli ultimi tempi, del tutto indipendente dalle rivelazioni di Sa­brina Minardi, la donna che ha mescolato ricordi pre­cisi e mezze verità con particolari del tutti inverosimi­li o palesemente falsi.

Il filo che porta a uno dei possibili sequestratori non parte dalla cosiddetta «supertestimone», ma da al­tre testimonianze, ricerche e accertamenti. Da cui sa­rebbe emerso che questa persona sia una di quelle viste con Emanuela il giorno della sua sparizio­ne, intorno o addirittura a bordo della Bmw no­tata da alcuni testimo­ni. Una persona giova­ne o comunque giova­nile, ventisei anni fa.

Ai testimoni che par­larono di questa fi­gura e dell’automo­bile di marca tede­sca sarebbero sta­te mostrate foto dell’epo­ca, e qualcuno l’avrebbe riconosciuto.

Nonostante il tempo trascorso.

 ancora troppo poco, però. E gli investigatori so­no a caccia di ulteriori riscontri che possano portare a elementi d’accusa più consistenti. Una conferma ar­riva proprio dalle dichiarazioni della Minardi, ex amante del boss Enrico «Renatino» De Pedis, che al di là di nomi e personaggi indica un coinvolgimento della banda della Magliana nella scomparsa della ra­gazza. E la persona individuata per altre vie come uno dei possibili sequestratori sarebbe stato, all’epo­ca, un malvivente di piccolo calibro che gravitata nel­l’ambiente della Magliana. Forse proprio dello stesso De Pedis, uno dei capi della variegata banda.

I particolari scarseggiano perché il filo è sottile, ha bisogno di essere rafforzato con un’indagine rimasta finora riservatissima e la polizia vorrebbe continuare a lavorare sottotraccia. Ma la notizia dell’identifica­zione di un sospetto «telefonista» del sequestro, che sarebbe stata fatta dalla Minardi, ha riportato alla ri­balta la storia (ancora tutta da scrivere) della miste­riosa scomparsa di Emanuela e dunque l’intera inda­gine. Che continua a muoversi, principalmente, intor­no quella composita entità chiamata «banda della Magliana» e da cui sono usciti altri nomi fatti dalla Minardi, sempre barcamenandosi tra verità e bugie.

L’arcivescovo Paul Marcinkus, ad esempio, già presidente dello Ior, la banca vaticana. La «superte­stimone » l’aveva inizialmente indicato come man­dante del rapimento Orlandi e aveva aggiunto – provocando le indignate reazione della Santa Sede – che lei stessa procurava al monsignore giovani prostitute. Gli accertamenti svolti finora non sono arrivati a escludere che tutto quanto riferito dalla Mi­nardi sull’ex presidente dello Ior sia falso. E prose­guono per capire se davvero monsignor Marcinkus abbia avuto un qualche ruolo in questa vicenda, non­ché le eventuali connessioni con uomini della banda della Magliana.

I collegamenti logici non mancano. Perché Mar­cinkus significa «caso Calvi», la vicenda del presiden­te del Banco Ambrosiano ucciso un anno prima della scomparsa di Emanuela, nel giugno ”82, sotto il pon­te dei frati neri a Londra. E c’è un elemento diretto e inconfutabile (uno dei pochi, in mezzo a tanti miste­ri) che lega il caso Ambrosiano alla Magliana. Uno de­gli attentatori del vicepresidente del Banco, ferito a Milano nell’aprile dell’82 (due mesi prima dell’omici­dio Calvi) fu Danilo Abbruciati, anche lui esponente di spicco della banda, in quell’occasione in trasferta a Milano: rimase sull’asfalto, ucciso dai proiettili spara­ti da una guardia giurata presente all’episodio. C’en­tra dunque la Magliana col «caso Calvi», attraverso Abbruciati che come De Pedis faceva parte della com­ponente «testaccina» del gruppo, che vantava aggan­ci con poteri e settori esterni alla malavita: contatti malvisti dagli altri complici, fino a provocare la frat­tura che portò all’autodistruzione della banda; prima con gli omicidi e poi coi «pentimenti» davanti ai giu­dici.

De Pedis fu ucciso nel febbraio 1990 in una strada del centro di Roma, da killer mandati da chi un tem­po era stato suo amico; e lui, a sua volta aveva fatto ammazzare diversi amici e «colleghi» d’un tempo. Fu sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollina­re, per motivi mai chiariti al di là delle lettere e dei timbri di Chiesa necessari per l’autorizzazione al­l’anomala sistemazione di un bandito tra papi e car­dinali. Da quando s’è cominciato a parlare del coin­volgimento di De Pedis nel sequestro di Emanuela Orlandi, figlia di un dipendente vaticano per la qua­le lanciò inutili appelli anche papa Wojtyla, è divenu­to fin troppo facile immaginare collegamenti tra quella vicenda e la curiosa sepoltura del boss. Tanto più dopo l’apparizione, sullo sfondo, della figura di monsignor Marcinkus. Ma per condurre in porto un’indagine di polizia ci vuole molto più di qualche collegamento logico e suggestiva. Meglio allora ri­partire da uno dei presunti rapitori, forse identifica­to a ventisei anni di distanza, e da lì provare a risali­re alla trama, se mai sarà possibile.
Giovanni Bianconi


«Informati dalla tv di una svolta così»
ROMA – «Questo passo è importante, può essere una svolta, quell’uomo sa qualcosa». L’attesa di questa famiglia dura da ventisei anni: «Noi aspettiamo che Emanuela torni, ogni giorno». Certo, in tutto questo tempo «ci sono state molte novità, ma ogni volta si sono sgonfiate». E però stavolta Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, spera di essere vicino «alla svolta, anche se lo abbiamo saputo dalla tv. All’epoca tutto è cominciato proprio con le telefonate di un tale Pierluigi e di questo Mario: oggi mi sembra di tornare all’inizio della storia, con mia sorella appena scomparsa, tutti noi in casa ad aspettare che il telefono squillasse. In ogni caso, quell’uomo sa qualcosa di importante, forse di decisivo. una speranza, sì, ma anche una sensazione nitida. In tanto tempo, è la prima volta che mi capita di provarla. Quando Emanuela è scomparsa io avevo ventiquattro anni. Il tempo, da allora, si è fermato: continuo a vederla com’era, ragazzina. Ma non credo sia morta, e quella storia che il suo corpo era a Torvaianica è senza prove».
«Sono passati così tanti anni e lo hanno individuato adesso?», è stato lo sfogo di Maria Orlandi, la madre di Emanuela. E gli avvocati della famiglia, Nicoletta Piergentili Piromallo e Massimo Krogh: «In ogni caso si resta scettici rispetto al coinvolgimento della banda della Magliana, visti i risultati degli accertamenti svolti in passato».
Alessandro Capponi

Fanno bene i fratelli di Emanuela Orlandi a valutare con cautela le ultime novità dell’inchiesta sulla sua scom­parsa. In questi 26 anni troppe volte si è fat­to credere che una svolta fosse ormai vici­na, che la ragazza – viva o morta – potes­se essere ritrovata, che si potesse davvero sapere che cosa accadde quel 22 giugno del 1983 quando di lei si perse ogni traccia. Fanno bene i legali di parte civile a chiede­re agli inquirenti una verifica approfondita di quanto sta emergendo in questi ultimi giorni.
Ieri si è avuta la sensazione che la magi­stratura – forse seguendo una strategia – abbia quasi voluto agevolare la diffusione della notizia sull’iscrizione nel registro de­gli indagati di una persona che potrebbe aver avuto un ruolo nella vicenda e l’indivi­duazione di uno dei sequestratori. In una storia tanto complessa, segnata da omissio­ni e depistaggi da parte dei protagonisti ve­ri o presunti, sarebbe auspicabile una cau­tela maggiore. Anche perché in tutti questi anni la scena è stata affollata di personaggi che coinvolgevano il Vaticano, i servizi se­greti italiani e stranieri, i terroristi medio­rientali e i criminali romani. Un intreccio che è sempre sembrato inestricabile.
Se adesso un filo nuovo è stato davvero afferrato, forse sarebbe stato il caso di pro­cedere senza clamore fino a stabilire se possa portare all’individuazione dei rapito­ri di Emanuela Orlandi e soprattutto a sco­prire che fine abbia fatto la ragazza. Negli ultimi mesi la testimone Sabina Mainardi ha certamente fornito elementi importanti da offrire alla verifica degli investigatori, ma è apparsa anche confusa su numerosi dettagli, vaga su altri. Per questo – come accade con tutti i collaboratori di giustizia – sono necessari controlli accurati prima di poter affermare che una svolta è arrivata e di accreditare l’ipotesi che la vittima sia morta, visto che il suo corpo non è stato ancora ritrovato.
Proprio perché sono trascorsi quasi trent’anni, forse sarebbe stato più rispetto­so della famiglia, ma soprattutto della veri­tà, attendere di avere un quadro completo o quantomeno maggiormente circostanzia­to sul ruolo di questi nuovi personaggi.
Fiorenza Sarzanini

ELSA VINCI SU REPUBBLICA
ELSA VINCI
ROMA - Un nome a quella voce. Identificato "Mario", il telefonista del rapimento di Emanuela Orlandi. Dopo 26 anni è il primo indagato nell´inchiesta per il sequestro della figlia quindicenne del commesso della Prefettura vaticana, sparita il 22 giugno del 1983. Un uomo «nuovo», mai entrato nei indagini. Un gregario della Banda della Magliana, uno dei balordi di borgata specializzati in omicidi, rapine e droga, sospettati di contatti con la mafia e con la P2, raccontati in un romanzo dal giudice Giancarlo De Cataldo e da un film di Michele Placido. "Mario" chiamò la famiglia Orlandi sei giorni dopo la scomparsa della ragazza. Adesso la sua voce è stata riconosciuta da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano e poi compagna di Enrico De Pedis, uno dei capi della banda, ucciso nella guerra di mala che insanguinò le strade di Roma alla fine degli anni Ottanta. un protagonista inedito, entrato da qualche mese nell´inchiesta, che intanto si è arricchita «di altre e nuove testimonianze». Tanto che la procura ha già raccolto elementi per risalire ad almeno uno dei due sequestratori.
«Emanuela è morta», ripete Sabrina Minardi. «Uccisa dalla banda della Magliana». Una notte nell´ufficio del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, ad ascoltare e riascoltare il nastro. Nella telefonata a casa Orlandi, raccolta - il 28 giugno 1983 - dallo zio della ragazza, "Mario" spiega di avere incontrato, poco dopo la scomparsa di Emanuela, due fanciulle. «Una si chiama Barbarella e si sarebbe allontanata volontariamente da casa guadagnandosi da vivere vendendo cosmetici e bigiotteria». "Mario" riferisce parole attribuite a Emanuela: «Loro lo sanno, me ne sono andata perché ho una vita piatta, troppo comune. Loro lo sanno, gliel´ho detto che me ne andavo». Ascoltando quella voce Sabrina Minardi riconosce uno degli uomini di De Pedis, detto "Renatino". La donna ne fa il nome, arriva alle stesse conclusioni della perizia fonica disposta alcuni mesi fa dalla procura. La perizia e la testimonianza della Minardi consentono al pm di puntare dritto sulla banda della Magliana, per definirne «l´esatto grado di partecipazione nel rapimento e nella morte della ragazza». Sì, per i magistrati «Emanuela è morta». E Capaldo vuole l´assassino.
Sabrina Minardi ha ricostruito i contatti avuti con Emanuela Orlandi, confermando di averla vista nei mesi in cui la ragazza sarebbe stata prigioniera di De Pedis e dei suoi compari. «Sta ragazzina, era confusa, non stava bene, piangeva e rideva», dice nel giugno 2008. La nuova ricostruzione fatta dalla donna, che ha corretto date e circostanze rispetto alla precedente testimonianza, è ritenuta «credibile». Il corpo della Orlandi sarebbe finito in un sacco dell´immondizia e trasportato insieme a quello di un´altra persona in un cantiere a Torvaianica, dove sarebbe stato sepolto. Il trasporto del cadavere avvenne alcuni mesi dopo il rapimento. «Ma sicuramente ? ricorda Minardi ? nel 1983».
Il curriculum del telefonista racconta di rapine, estorsioni, mai di omicidi. Infatti è un uomo libero. Un anno fa un vecchio identikit portò a un possibile complice di De Pedis ma la perizia fonica esclude che si tratti di "Mario", presto interrogato. Il pm ha idee precise anche sui sequestratori. C´è una pista per la verità.

RORY CAPPELLI
ANNA MARIA LIGUORI
ROMA - «Quando all´ora di pranzo mia madre ha acceso la tv era un giorno come tutti gli altri. Ma poi è arrivato quel servizio: diceva che dopo 26 anni c´è un indagato, finalmente, in questa storia senza fine. E nuovamente, come l´anno scorso, diceva che lei, la nostra Emanuela, è morta. Morta qualche mese dopo il rapimento, uccisa, scaricata poi in una betoniera a Torvajanica. E la giornata non è stata più come tutte le altre. diventata una giornata nera. Mia madre si è sentita male, si è sentita svenire. Il mondo le è crollato addosso». Il racconto di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, è straziante. Commosso. Hanno appreso così lui, le sue sorelle, i suoi cognati, l´avvocato Massimo Krogh che li segue fin da quel lontano 22 giugno 1983, allora insieme all´avvocato Gennaro Egidio, che la procura è arrivata a mettere sotto inchiesta una persona, la prima. E che mercoledì sera, negli uffici della procura, l´aggiunto Giancarlo Capaldo e il pm Simona Maisto hanno nuovamente sentito la superteste Sabrina Minardi.
«La circostanza che addirittura ci fosse un indagato e la conferma molto dolorosa della morte di Emanuela è giunta a tutti assolutamente inaspettata» ha detto l´avvocato Krogh. «La famiglia non ha mai smesso di sperare che la figlia, la sorella, sia ancora viva». La signora Maria, mamma di Emanuela, ha infatti sussurrato con un filo di voce, non appena si è ripresa dallo shock, che «per me è sempre viva. Anche se non posso ignorare le indagini della magistratura, aspetto l´esito. Nessuno di noi ha mai perso la speranza: continueremo ad averne sempre». Anche se, come dice il fratello Pietro, «il fatto che ci sia un indagato è positivo: è la prima volta. Qualcosa dovrà dire».
Natalina Orlandi, sorella di Emanuela, in questa giornata di passione e di ricordi, ha spento il cellulare. Suo marito, l´architetto Andrea Mario Ferraris, spiega che «Natalina non se la sente di parlare. Qualunque commento senza aver visto gli atti sarebbe fuori luogo. Siamo in attesa di un riscontro, di una verifica della bontà delle informazioni».
Pietro Orlandi invece parla. E parla anche del Vaticano, di come «si è comportato negli ultimi anni. Mia madre abita lì, a cento metri da loro. Mia sorella è ancora cittadina vaticana perché non ne è stata dichiarata la morte. Nessuno è mai venuto a dirci una parola di conforto. Soprattutto papa Benedetto XVI ha dimenticato Emanuela. Ignora la mia famiglia. E mi chiedo continuamente perché».


CARLO BONINI
Il caso Orlandi riparte tirando un sottile filo sopravvissuto a un tempo ormai lunghissimo, un quarto di secolo. Da una telefonata ? l´unica di cui si è conservata la registrazione ? ricevuta dalla famiglia di Emanuela il 28 giugno 1983, sei giorni dopo la scomparsa. Dall´uomo che, in quella circostanza, disse di chiamarsi "Mario", che offrì dettagli tutt´altro che eccentrici sul conto di quella ragazza, e che oggi, la Procura ne è convinta, si può concludere fosse «la voce della Banda della Magliana».
A "Mario", mercoledì notte, Sabrina Minardi, la donna che tra l´82 e l´84 fu l´amante di Enrico De Pedis ("Renatino", il capo della Banda), ha dato un nome e un cognome. Che per altro ai due pubblici ministeri che la ascoltavano non era del tutto sconosciuto. Perché già indicato nell´ultima delle informative della Squadra Mobile sulla "compatibilità" tra la voce di quella telefonata del giugno ´83 e le identità di alcuni uomini della Banda oggetto di indagine in questo ultimo anno e mezzo. Chi è dunque "Mario"? E perché quella telefonata diventa oggi la chiave per venire a capo di uno dei più resistenti misteri italiani?
«Tutto quello che si può dire in questo momento ? dice una fonte inquirente ? è che "Mario" era una figura di terza fila della Banda, un ragazzino, un gregario. Che "Mario" è vivo. Che il suo nome non è stato sin qui "bruciato" dalla cronaca. E che porta a De Pedis». Quando si fa vivo con gli Orlandi il 28 giugno 1983, dice di avere 35 anni e di chiamare da un bar all´altezza di ponte Vittorio, tra il Vaticano e la scuola di musica dove Emanuela era stata vista per l´ultima volta. Parla con un forte accento romano e spiega di aver visto nel suo locale un tipo con due ragazze che vendono cosmetici "Avon", una delle quali dice di chiamarsi "Barbara" e di essere scappata di casa, dove pure ha deciso di tornare per il matrimonio della sorella. Ma alla domanda sull´altezza di quella "Barbara" incespica, chiede consiglio a un secondo uomo, la cui voce si sente in sottofondo.
Sembrano informazioni confuse e depistanti (o almeno tali verranno ritenute per 25 anni), ma che si incastrano con quelle che, nei tre giorni precedenti, sempre al telefono, sempre con gli Orlandi, ha fornito un´altra voce (di cui non esiste alcuna registrazione). Quella di un tale "Pierluigi". Il 25 giugno chiama due volte. Il 26, una terza e ultima volta. A differenza di "Mario" non ha un intercalare dialettale. Sostiene di avere 16 anni e che la sua fidanzata ha conosciuto a Campo de´ Fiori due ragazze che vendono cosmetici. Una di loro ? dice - «si chiama Barbara», ha con sé il flauto, ma si rifiuta di suonarlo perché dovrebbe indossare gli occhiali, e se ne vergogna. Quindi aggiunge: «Occhiali a goccia e per astigmatici». E ancora: «Barbara tornerà a casa per suonare il flauto al matrimonio della sorella».
"Barbara", gli occhiali per astigmatici, la vendita di cosmetici, il flauto, il matrimonio della sorella. Questi dettagli cruciali che "Pierluigi" e "Mario" spendono con la famiglia Orlandi nell´arco dei primi sette giorni dalla scomparsa hanno una loro concretezza, ma dove e a chi portino è domanda che chi allora indaga decide di non coltivare. Né l´uno né l´altro hanno fatto cenno a una richiesta di riscatto, dunque ? è la conclusione ? quelle due voci maschili fanno perdere solo del tempo.
Del resto, lo scenario iperbolico che l´indagine sulla Orlandi comincerà a disegnare già nell´estate dell´83, contribuirà per almeno vent´anni a dimenticare sia "Pierluigi" che "Mario". Almeno fino a quando, nel 2006, Antonio Mancini, pentito della Banda della Magliana, non indica nella voce di "Mario" ? dopo che la trasmissione "Chi lo ha visto" ha reso pubblica la registrazione della telefonata del 28 giugno 1983 - «un killer di De Pedis». Mancini crede di riconoscere nell´uomo che parla un tale "Rufetto", che pure esce rapidamente di scena, perché escluso dalle prime perizie foniche disposte allora dalla squadra Mobile.
 un fatto però che proprio a partire da quel momento, il proscenio del caso Orlandi cominci ad essere occupato stabilmente dalla Banda della Magliana. Che in quella direzione indichi l´anonimo che invita a scoprire chi è sepolto nella cappella di Sant´Apollinare (Enrico De Pedis) e «per quale motivo». Detto altrimenti, quale sia «il favore» che la Banda ha reso al Vaticano per meritare che le spoglie del suo Capo riposino nel territorio della Santa Sede.
Comincia insomma un´altra storia, che nel giugno del 2008, come è noto, trova in Sabrina Minardi, ex moglie di Bruno Giordano e amante di De Pedis, la sua problematica testimone. Capace con il suo racconto (indica la prigione di Emanuela in una casa di Monteverde e nelle fondamenta di un cantiere di Torvaianica la sua tomba) non solo di stabilire un nesso tra De Pedis e monsignor Marcinkus, ex direttore dello Ior. Ma anche di svelarne la sostanza, indicando proprio in De Pedis l´uomo che del potente monsignore conosceva le debolezze sessuali e dunque l´unico in grado di risolvere il "problema Emanuela Orlandi", che di quelle "debolezze" sarebbe stato parte.
In cambio di cosa Emanuela sarebbe stata eliminata dalla Banda per conto di Marcinkus, la Procura, oggi, non è ancora in grado di dirlo. Forte però di una certezza. La fine di Emanuela Orlandi è cosa di "Renatino" e di quelli della Magliana. E "Mario" ne è la chiave.

MASSIMO LUGLI SU REPUBBLICA
Un manifesto in bianco e nero, con la foto di una ragazza bruna, una fascetta nera un po´ da hippy sulla fronte e la scritta "Scomparsa" seguita da una descrizione di poche righe e da un numero telefonico di sette cifre. Pochissimi se ne accorsero, nessun giornale pubblicò più di qualche riga. I grandi gialli, di solito, iniziano in modo clamoroso. Quello di Emanuela, il mistero infinito su cui perse il sonno una generazione intera di investigatori, su cui si sono cimentati servizi segreti nazionali e d´importazione, poliziotti, magistrati, confidenti, spioni, scrittori, giornalisti e decine di figure "border line" più o meno in malafede, invece, cominciò in sordina. In una capitale dilaniata dal terrorismo, spaventata da una mala sempre più sanguinaria, irrigidita da tremende tensioni politiche la storia di una quindicenne in jeans, camicia bianca e scarpe da ginnastica, uscita dalla scuola di musica il 22 giugno 83, salita su una Bmw verde e svanita nel nulla sembrava destinata a essere sepolta per sempre nelle brevi di nera. «Sapete quante adolescenti scappano tutti i giorni?» fu la risposta tranchant della questura ai pochi cronisti che cominciarono a far domande.
Quasi tutti si accontentarono.
La famiglia di Emanuela, nel frattempo, era già precipitata in un incubo che dura da 26 anni. Un incubo ancora lontano dalla conclusione perché le ultime rivelazioni, la (probabile) identificazione di uno dei tanti telefonisti che si avvicendarono nell´alimentare speranze, angosce e delusioni sembra l´inizio di una traccia più che una pista vera e propria. La verità è che nessuno, dalle 19,30 di quel 22 giugno, ha mai fornito una sola prova convincente che la quindicenne sia stata tenuta in ostaggio, non sia stata uccisa poche ore dopo il sequestro. I rapimenti, allora, erano routine e seguivano una trafila consolidata: alla famiglia, alla polizia o ai carabinieri arrivava una foto dell´ostaggio con un giornale in mano, o qualche lettera se non, nei casi più agghiaccianti, un dito o un orecchio. Di Emanuela si sono ritrovati solo un nastro registrato (che potrebbe essere stato inciso in qualunque momento) e una fotocopia dei documenti. Nessuna certezza.
Fu l´appello del Papa, durante l´Angelus del 3 luglio, a scaraventare la piccola storia della quindicenne sparita in prima pagina e a rendere ufficiale l´ipotesi su cui la squadra mobile di Nicola Cavaliere stava già lavorando in sordina: quella del rapimento. Nel frattempo, al telefono di casa Orlandi (intercettato con l´arcaica tecnologia di allora) si erano già dati il cambio "Pierluigi" e "Mario", quel "Mario" che Sabrina Minardi (altra figura piena di ombre), ex moglie del calciatore Bruno Giordano e poi compagna del boss Enrico "Renatino" De Pedis avrebbe identificato in uno dei componenti della Banda della Magliana che in quegli anni stava consolidando il suo dominio su Roma a colpi di calibro 9 e raffiche di mitra.
Due giorni dopo entrò in scena l´ "Amerikano", una voce con spiccato accento straniero che mostrava di sapere parecchio e che fu il primo, vero, indizio per gli inquirenti sempre più disorientati. L´ "Amerikano" chiamò in causa, per la prima volta, Mehmet Alì Agca, il "Lupo grigio" che due anni prima aveva sparato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro (e che in seguito contribuì ad arricchire il giallo di una vena sovrannaturale citando il Terzo Mistero di Fatima). Sedici telefonate, tutte da cabine telefoniche diverse, poi anche la voce con l´accento straniero tacque per sempre. Una nota del Sisde di Vincenzo Parisi, rimasta segreta fino al 1995 identificava l´Amerikano nel presidente dello Ior, la Banca Vaticana, Paul Marcinkus. La pista dei fondi neri d´oltretevere e dei collegamenti con il "suicidio" del banchiere Roberto Calvi, sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, non ha portato da nessuna parte. Come le altre, almeno fino a ieri.
Sulla scena, successivamente, comparve un´altra ragazza: Mirella Gregori, 15 anni come Emanuela, scomparsa il 7 maggio dello stesso anno. Fu un grande avvocato intenazionalista, Gennaro Egidio, a sostenere fino alla morte che le due storie erano collegate (anche se le adolescenti non si conoscevano affatto). Nessuna prova, nessun risultato. Nel nulla, dopo anni di indagini oltreconfine e note top secret dei servizi segreti, finirono anche la "Pista bulgara", quella turca e le innumerevoli segnalazioni secondo cui Emanuela era viva, madre di un bambino, prigioniera in un harem o addirittura che era tornata, da anni, a Roma. E perfino il ritrovamento di un cranio umano nel confessionale di una chiesa di via Gregorio VII (a due passi dal Vaticano) che fu fatto analizzare nella vaga ipotesi che fosse proprio quello di Emanuela.
Col passare degli anni, i servizi cominciarono a perdere interesse nel mistero, i giornali a ricordarsene solo nell´anniversario della scomparsa o in occasione di qualche clamorosa quanto strampalata rivelazione dell´ultima ora, gli investigatori a passare ad altri incarichi. Fino al luglio del 2005, quando una telefonata anonima a "Chi l´ha visto" riaprì il caso e riaccese l´interesse su una vicenda ormai etichettata come uno dei tanti misteri made in Vaticano.
Lo sconosciuto parlava di "Renatino", uno dei boss della Magliana freddato a colpi di pistola durante la faida coi Testaccini e suggeriva di indagare "sul favore che aveva fatto al cardinal Poletti". Quale favore? Mistero. Ma una cosa è certa: il boss malavitoso era stato sepolto nella Basilica di Sant´Apollinare, nella stessa piazza dove si trovava la scuola di musica di Emanuela. Indagini a vuoto.
Tre anni dopo, nel venticinquesimo anniversario della scomparsa, entra in scena Sabrina, l´ex donna del boss. Personaggio da prendere con le molle, spesso strafatta di cocaina, che entra ed esce dai domiciliari. Dice di aver visto il cadavere a Torvaianica, buttato in una betoniera da "Renatino" De Pedis assieme a quello del piccolo Domenico Nicitra, chiama in causa Danilo Abbruciati (il killer freddato nell´attentato a Roberto Rosone), Marcinkus e Andreotti. "O delira o vuole soldi" pensarono in molti. Ma quando dietro sua indicazione fu ritrovata una Bmw intestata prima a Flavio Carboni e poi a un boss della Magliana parecchi, anche in procura, cambiarono idea e fu tutto uno scartabellare vecchi fascicoli ingialliti. Ora Sabrina avrebbe fatto identificare "Mario". Il giallo torna ai primi giorni, al punto di partenza. Con una nuova, labile pista e il dolore immutato della madre che non ha mai smesso di sperare.


FULVIO MILONE SULLA STAMPA
Dopo 26 anni di indagini infruttuose e misteri irrisolti, ecco il primo indagato nell’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, la figlia di un funzionario del Vaticano rapita il 23 giugno del 1983. E’ un uomo della banda della Magliana, che sei giorni dopo la sparizione della ragazza che all’epoca aveva 15 anni si mise in contatto con la famiglia. Si faceva chiamare «Mario». Ora ha un volto, un nome e un’accusa pesante sulle spalle: sequestro di persona a scopo di estorsione e omicidio pluriaggravato. Omicidio, perché il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e il pm Simoma Maisto sembrano ormai certi che Emanuela sia morta poco dopo il rapimento: il suo corpo sarebbe stato chiuso in un sacco dell’immondizia e gettato assieme a quello di un’altra persona in una betoniera, in un cantiere a Torvajanica. Non basta: gli inquirenti che da anni cercano di squarciare il velo di mistero che avvolge il rapimento stanno indagando sul conto di quattro personaggi che potrebbero essere coinvolti nell’organizzazione del sequestro, e non è escluso che fra questi vi sia almeno uno degli esecutori materiali.
A identificare il «telefonista» che rischia a questo punto l’arresto, a fornire elementi sui possibili colpevoli della sparizione di Emanuela e a confermare ancora una volta la morte della ragazza, è stata Sabrina Minardi, l’ex compagna di «Renatino» De Pedis, capo della banda, deceduto nel ”90 e sepolto accanto a santi e uomini illustri nella Basilica di Sant’Apollinare a Roma. Le hanno fatto sentire la registrazione della telefonata in cui «Mario» raccontava ai genitori di Emanuela che la ragazza era fuggita perché aveva «una vita troppo piatta», aggiungendo però una serie di particolari che solo chi aveva avuto a che fare con lei poteva conoscere. Lei ha ascoltato in silenzio e poi ha pronunciato il nome e il cognome di un uomo legato a De Pedis.
L’ex donna di «Renatino» non ha dubbi: il sequestro della Orlandi fu organizzato e gestito dalla banda della Magliana, un’organizzazione che aveva agganci con poteri occulti come la P2, con i servizi segreti deviati e con alti prelati. L’anno scorso Sabrina Minardi, una donna devastata dalla cocaina, ha riempito centinaia di pagine di verbali di interrogatorio sostenendo che il sequestro fu commissionato «dal Vaticano... tipo Marcinkus (presidente dello Ior, coinvolto nel crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e morto nel 2006, ndr)... come se avessero voluto dare un messaggio a qualcuno sopra di loro». Fu ancora lei a raccontare di quando De Pedis le disse che Emanuela era morta e il suo corpo era finito nelle fondamenta di una villetta di Torvajanica con quello di un altro ragazzo, Domenico Nicitra, figlio di un boss rivale di «Renatino».
Quella testimonianza, però, faceva acqua da tutte le parti: basti ricordare che Nicitra, in realtà, è sparito dieci anni dopo la Orlandi. Ma questa volta la Minardi, disintossicata dalla droga in una comunità protetta, è stata più precisa: «L’anno scorso ho fatto una gran confusione perché il cervello mi era andato in tilt a causa della cocaina». «Ora il suo racconto è più coerente e articolato», dicono i magistrati. A parlare di «Mario» era già stato un «ex» della banda della Magliana, Antonio Mancini, che due anni fa aveva rivelato un nome e cognome a «Chi l’ha visto?», il programma televisivo di Federica Sciarelli. Mancini, però, fu smentito da una perizia fonetica disposta dalla procura della repubblica: la voce non era quella dell’uomo indicato da lui.


GIACOMO GALEAZZI SULLA STAMPA
La prima luce dopo un quarto di secolo di buio. «Il fatto che ora finalmente ci sia qualcuno indagato è una svolta importante che però va tutta verificata». La famiglia Orlandi commenta il colpo di scena nel caso divenuto l’emblema dei misteri vaticani. «Non abbandoniamo la speranza che Emanuela sia viva, seguiamo gli sviluppi della vicenda con profonda emozione e non possiamo fare altro che attendere l’esito dell’inchiesta - affermano la mamma Maria Orlandi e i suoi figli -. Abbiamo fiducia nell’opera dei magistrati. Non è la pietra tombale sulle nostre speranze e aspettiamo a tirare le conclusioni. Noi abbiamo chiesto la riapertura delle indagini e, nonostante tutto, speriamo ancora che Emanuela sia viva. Non sta a noi ma ai magistrati fare valutazioni sull’attendibilità della testimone Sabrina Minardi. Adesso occorre cercare un riscontro ai fatti». Secondo Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, «se è vera, allora la notizia è positiva: qualcosa si muove finalmente, per la prima volta c’è una persona indagata che adesso qualcosa dovrà dire. Nessuna prova che Emanuela sia morta». Dopo 25 anni «non è facile farsi un’idea di cosa sia accaduto e del perché sia scomparsa», precisa il fratello Pietro. Tante piste, «forse quella del terrorismo internazionale è la più accreditabile, con Emanuela vittima per il solo fatto di essere cittadina vaticana, poi magari c’entra anche la banda della Magliana nel ruolo di esecutrice di qualcosa deciso altrove».
Ansia e fiducia nella legge, dunque, malgrado la Procura di Roma propenda per la morte di Emanuela. «Sono passati 26 anni nell’attesa di riabbracciarla - afferma la mamma Maria Orlandi -. Emanuela è sempre presente nel mio cuore. Vivo per lei. Vediamo se le cose che si dicono adesso sono vere oppure se si tratta di una bolla di sapone». E si chiede perplessa: «Sono passati così tanti anni e hanno individuato solo ora il centralinista?». Poi aggiunge: «Ad ogni nuova notizia mi sembra che tutto sia successo ieri. un dramma che continua. Mio marito Ercole ripeteva:’Se Emanuela è morta, ci dicano almeno dove per poterle portare un fiore”. Ma in tutti questi anni, finora nessuno si era fatto vivo».
In Vaticano prevale la prudenza. Al «no comment» del portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi fanno riscontro i cauti commenti dei presuli che già all’epoca della scomparsa di Emanuela Orlandi occupavano incarichi di responsabilità in Segreteria di Stato e nei dicasteri d’Oltrevere. «Quando si parla della scomparsa, occorre sempre mettere al centro il dolore grande, immenso della famiglia Orlandi - afferma il cardinale Giovanni Battista, attuale ministro vaticano per i Vescovi e all’epoca Assessore della Segreteria di Stato -. Questi ultimi sviluppi della vicenda rappresentano comunque il segnale chi si sta indagando e che, anche se in ritardo, si sta raggiungendo qualche acquisizione. Non voglio entrare nelle indagini, lasciamo lavorare la magistratura e per il momento restiamo a quello che i magistrati sono riusciti a scoprire. La speranza è che ora che sono riusciti a individuarlo, a trovarlo e a metterlo sotto indagine il telefonista possa fornire all’inchiesta molti elementi utili per ricostruire i fatti nella loro complessità». Un