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 2009  novembre 17 Martedì calendario

DAL CAPITANO ULTIMO A GAROFANO, LO STRANO DESTINO DEGLI EROI ITALIANI


Il carro armato e l’omi­no con la busta della spesa. I sito del Capitano Ultimo si apre con l’immagi­ne simbolo di piazza Tien An Men. La sfida impossibile che invece è possibi­le. E sotto una scritta, ad epigrafe: «La parte peggiore sono quei milioni di persone che guardano la scena dalle lo­ro case e aspettano di vedere come an­drà a finire».
La storia del colonnello Sergio De Ca­prio sta finendo male, malissimo. In ca­duta libera. Con gli uomini del suo vec­chio nucleo che si offrono di fargli da scorta, «al nostro Comandante, accusa­to e offeso, colpito alle spalle da basse insinuazioni». Il 15 gennaio 1993, for­se è il caso di ricordarlo, Ultimo e il suo gruppo catturarono Totò Riina. Nel 1995 uscì il libro di Maurizio Torre­alta sul carabiniere che aveva messo le manette a Totò Riina, il Male assoluto. Nel 1998 arrivò la fiction, una prima se­rie, poi un’altra e un’altra ancora, per­ché l’audience sembrava confermare una sorta di memoria condivisa.

L’abbigliamento sgarrupato del co­lonnello antimafia denota distanze si­derali – non solo vestiarie ma anche caratteriali, concettuali – dall’inap­puntabile divisa di Luciano Garofano, altro colonnello, altra serie televisiva dedicata al suo gruppo, i Ris, altra di­scesa libera in corso. Ma c’è un filo ros­so che tiene insieme le loro vicende, ed è la capacità tutta italiana di vertica­lizzare il più possibile la caduta dei po­chi personaggi positivi della sua storia recente. Una sorta di cupio dissolvi tri­colore, la memoria di un passato recen­te che viene infangata molto più in fretta di quanto si sia provato a preser­varla.

Anche nel piccolo di queste sto­rie, Giuseppe De Rita ci legge la scom­parsa definitiva del civil servant dal­l’immaginario italiano. «Senza pren­derla troppo alla lontana, ma la cultura risorgimentale è da tempo che non fa più da traino a nessuno. Non smuove la psiche collettiva. E personaggi come Ultimo e Garofano possono fare solo testimonianza, senza trascinare alcun­ché. Inevitabile che divengano oggetto di un contagio revisionistico che in Ita­lia non risparmia nessuno. Siamo pri­gionieri di una coazione a rivedere le cose in chiave sempre più opportuni­stica. E in questo contesto, nessuno può essere percepito come super par­tes ». Il fondatore del Censis si spinge oltre, con un esempio che dimostra an­che una innegabile capacità di annusa­re l’aria che tira. «Prenda Guido Berto­laso: sarò ingenuo, ma a me sembra la persona meno divisiva che ci sia in Ita­lia. Appare molto, certo. E suppongo abbia un ego importante. Ma non si at­tribuisce realizzazioni personali, devol­ve il credito e i meriti alla Protezione civile. Eppure, anche lui non mi sem­bra immune da una logica revisionista che mette sullo stesso piano pregi e di­fetti, senza pesarli».

Il tributo da versare alla ribalta risiede quasi sempre in un contrappasso sproporzionato ai propri peccati. L’uo­mo che catturò Riina non ha un carat­tere facile. Il suo approccio radicale al­la vita e al lavoro è sempre stato mate­riale da maneggiare con cura, anche dentro l’Arma. La strenua difesa della cattura del boss mafioso e della manca­ta perquisizione del suo covo, così co­me sono state raccontate, gli fa onore. Ma è altrettanto lecito pensare che vi siano residue zone d’ombre su quella storia, compresa la possibile esistenza di un disegno superiore passato neces­sariamente sopra la sua testa. Eppure, la sua emarginazione pressoché totale, il gesto estremo dei suoi «vecchi» uo­mini che si offrono privatamente di fargli da scorta, raccontano dell’ingrati­tudine dello Stato, e di una collettività dalla memoria corta.

Lo stesso vale per Garofano. L’uomo si piace molto, ma la vanità non risulta essere un reato penale. Le accuse che lo infangano arrivano dall’avvocato Carlo Taormina, a sua volta indagato per diffamazione del colonnello del Ris. Con tutto rispetto, ma il pulpito non è dei più elevati. Anche qui, le sue dimissioni, e nei mesi scorsi il ridimen­sionamento del suo prestigio, sono sta­ti accolti con un giubilo altrimenti in­spiegabile, sicuramente immemore del fatto che si parla dell’uomo e della struttura che ha messo in galera assas­sini, stupratori, serial killer. Non si trat­ta di Vip caduti in basso, ma di servito­ri dello Stato che qualche merito civile lo possono vantare. Dettagli. Il mecca­nismo è lo stesso. quell’accanimento del quale parla spesso Tonina Pantani, la madre di Marco, un eroe sportivo che certamente sbagliò, ma che viene ricordato solo nel suo lato d’ombra, e mai campione sull’Alpe d’Huez o sul Galibier, vittorie che a tutt’oggi risulta­no ufficialmente pulite.

«L’incapacità di ragionare in modo sereno su meriti o eventuali demeriti: anche questi sono segni di sfaldamen­to delle nostre forme di convivenza». Aldo Bonomi ci ha scritto un libro, sul rancore che scorre nelle vene dell’Ita­lia. Ma il sociologo milanese dice che non si tratta neppure di questo. «Parle­rei piuttosto di invidia sociale, l’unico sentimento che ormai pervade la socie­tà italiana. Siamo invidiosi, e ci eserci­tiamo su chiunque sia sovraesposto e rappresentato. Da questo venticello che ormai caratterizza i nostri rapporti ne consegue la pratica di una striscian­te guerra civile molecolare. A permea­re il tutto, una indifferenza sempre più sorda ai torti o alle ragioni». lo stes­so concetto che con maggiore amarez­za esprime Ultimo sul suo blog, la fra­se sui milioni di persone che assistono senza partecipare. Cliccando sulla foto di Tien An Men ne appare un’altra, an­ch’essa celebre. Una veduta dall’alto della A29, nei pressi dello svincolo di Capaci. Appena dopo l’esplosione.