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 2009  novembre 19 Giovedì calendario

LE SCARPE DI MAO


 l’unico prodotto al mondo dove il marchio made in China è esibito e preteso come garanzia di orginalità e autenticità. Ed è pure il solo oggetto proveniente dall’impero giallo che non sia copia o imitazione del suo doppio occidentale: anzi, in molti Paesi cominciano a circolare fatture tarocche del brand cinese.

Dai monaci Shaolin
Si chiamano Tian Lang Trainers e per cinquant’anni sono state le calzature più usate da minatori e contadini cinesi per via della robustezza e della comodità. Originariamente venivano prodotte in uno stabilimento a poca distanza dal famoso tempio Shaolin, alle pendici delle montagne di Songhan, una regione poverissima. Ora, grazie ad una partnership con la Ospop nuova azienda cinese di abbigliamento, stanno per sbarcare anche in Europa e in Italia. Promettono che una parte degli introiti sarà investiti in fondi che aiuteranno i giovani dell’aria di Tian Lang (da qui prendono il nome le scarpe), la leggendaria terra del kung-fu, a frequentare l’università. Ma non è chiaro se pure questo faccia parte dell’intelligente strategia di marketing, grazie alla quale la scarpa ha già invaso l’America ed è diventata marchio distintivo dell’upper class e modaiola. Con oltre 200 milioni di paia vendute ogni anno, le scarpe di Mao hanno quasi soppiantando le mitiche All Stars, oggetto trans-generazionale, adottate dapprima dal ghetto punk poi diventate fenomeno di massa, tanto che oggi la Converse fa parte della multinazionale Nike. La scarpa cinese, tuttavia, ha un fascino storico e ideologico che pochi prodotti possono vantare. Nasce ancor prima del made in China, sin dai tempi della Lunga Marcia, lascia le sue impronte su strade e campi delle numerose province cinesi. Accomunavano il popolo dei contadini, degli operai e dei minatori cinesi. Indistruttibili per milioni di lavoratori, queste scarpe sono ancora un elemento essenziale dell’equipaggiamento da lavoro in Cina. Le All Star cinesi sono già entrate nella top list dei collezionisti; la sigla Ospop sta per One small point of pride, ovvero, ”Piccolo motivo d’orgoglio”, e sulla caviglia della scarpa c’è una di ”I” rossa cerchiata: il gong, che nell’ideogramma cinese significa lavoro, esplicito omaggio a chi le ha indossate e alla storia che queste calzature rappresentano. Devono il loro successo a quel look grezzo indispensabile a chi le indossa per sentirti underground e andarle a sporcare il prima possibile con la vita di tutti i giorni. Gomma e canvas i suoi unici materiali. Semplici come una suola sotto una fila di bottoni, un po’ punk e un po’sport, un po’work e un po’ street e forse così semplici da sembrare un po’ concettuali. Snob come chi non vuole piacere a tutti ma essere vero. Beh, ci sono tutti gli ingredienti perché anche in Italia, (ora si possono solo acquistare su e-bay) siano percepite come sneaker modaiole a tutto titolo. Ricordate? già successo, negli anni Ottanta, con le Timberland, scarpe usate dai boscaioli e dalla working class americana e diventate da noi il simbolo della vita Smeralda. A New York gli italiani facevano la fila davanti al negozio a Time Square. Ora ci risiamo. In Italia saranno vendute in nove varianti di colore esclusivamente in negozi di ricerca, fuori dai magazzini della moda di massa. Quasi un controsenso, date le origini delle Ospop. Manon è la prima volta che l’oggetto del desiderio consumistico e capitalistico possieda simbologie opposte.

Lunga Marcia ai piedi
Beffardi corto circuiti del consumo di massa, ma ancora prima culturali, politici e mediatici.Come le t-shirt con la faccia di Che Guevara esibite nei cortei pacifisti o come straccetto cool di ragazzi e ragazze della buona borghesia. Per loro la rivoluzione si ferma all’abbinamento casual della kefiah finto-palestinese col cachemirino da 700 euro, i jeans Prada alle All Star che, appena gli arriva la voce, saranno sostituite dalle più trendy Ospop verdi guerriglia. Magari per andare a protestare sotto le finestre del consolato cinese contro la repressione in Tibet e i diritti uccisi e calpestati dal capital-comunismo di Pechino. Come ieri erano calpestati dalle Guardie Rosse: studenti che ammazzavano i dissidenti e contadini reazionari con il Libretto Rosso in mano e ai piedi un bel paio di scarpe come Mao comanda. Le stesse che, varcata la Grande Muraglia, arriveranno a noi. La lunga marcia prosegue: a fare il solletico ai loro brividi rivoluzionari e a rilanciare il work style maoista ci penseranno i creativi e pubblicitari. Magari Toscani ci potrebbe fare un bel poster trasgressivo con un Mao pentito e vestito come un gagà capitalista che dice: «La rivoluzione? L’ho messa sotto i piedi».