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 2009  novembre 19 Giovedì calendario

LA TRANSAFRICANA, GRANDE OPERA CHE NON AIUTA LA POPOLAZIONE


Chilometri di asfalto stanno ’pavimentando’ il continente africano, in luoghi tradizional­mente lontani dal progresso tecnologico. La Transafricana è un serpente nero, largo come le quat­tro corsie dell’autostrada Milano-Bergamo. Che vuo­le unire Nord e Sud, ondeggiando fra società urba­nizzate e savane senza confini, in cui risiedono po­polazioni legate ad antiche tradizioni e animali abi­tuati alla libertà di spazi sterminati. un’opera di cui si parla da mezzo secolo, che ha già divorato mi­lioni di dollari e che adesso i cinesi stanno effettiva­mente realizzando. Rammenderanno pure i danni del passato: lo stato di abbandono e trascuratezza in cui da sempre versano i collegamenti in Africa. Vo­ragini dovute per lo più all’insicurezza, ai conflitti, ma anche allo sperpero delle risorse a causa di una diffusa corruzione.
Sarà una ’pista’ che dal Sudafri­ca permetterà di collegarsi con l’Egitto e viceversa. Un progetto che dovrebbe rimuovere quell’i­solamento nelle comunicazioni e nei trasporti che ancora afflig­ge e penalizza diversi Stati cen­trali e le periferie tribali del Gran­de continente. Dunque, nelle in­tenzioni, favorire lo scambio di risorse per migliorare la distri­buzione delle ricchezze e la qua­lità della vita. Ma sarà davvero così? Nei progetti e a parole, sembrerebbe di sì: «La Tran­scontinentale è il futuro a portata di mano per gli a­fricani che ancora non hanno accesso al pieno svi­luppo ». Soprattutto nei luoghi considerati difficili, o­stili, dove la terra – tra savane, deserti e foreste – è ingrata verso chi la abita, come l’allevatore che muo­ve la propria vita camminando a piedi nudi per de­cine di chilometri spingendo la mandria e cercan­do l’acqua, oppure il raccoglitore che trasporta sul­la testa i sacchi di carbone vegetale da vendere al mercato di una lontana città, in cambio di cibo fre­sco.
C’è anche chi dice che questo tipo di interventi, a­sfaltare il passato e le tradizioni, non farà altro che distruggere l’ecosistema di popolazioni che, pur nel­le difficoltà, hanno saputo conservare il rispetto del­la natura. Qualcuno ricorda anche come l’Aids si sia diffusa portato dai camionisti, oltre dai militari, che viaggiavano da Nord a Sud attraversando l’Africa oc­cidentale.
Un buon pezzo della Transafricana, che dal Kenya raggiungerà l’Etiopia, sta avanzando nei pressi di I­siolo. Una cittadina di 30mila abitanti e cinque ban­che, a Nord di Nairobi, una porta sul deserto che ri­corda la frontiera del vecchio West. Vi prolifera la po­vertà africana, contenuta in casupole senza acqua corrente, né luce elettrica. Dominano la polvere e i rifiuti in decomposizione. Molti uomini non hanno un lavoro fisso, tante donne sopravvivono prosti­tuendosi; gli adolescenti abbandonati a se stessi sembrano una massa marrone di stracci informi. Poi ci sono i tribali nomadi o pastori.
Marjam Maruke, di etnia somala – la popolazione prevalente nel Nord-Est del Kenya ”, dietro il suo chiosco di generi alimentari in scatola, biscotti e de­tersivi dice: «Oggi siamo più poveri di dieci anni fa, allora eravamo scalzi, ma avevamo di che mangia­re. Costa tutto più caro, da quando la città è stata in­vestita dalla costruzione della grande strada. Il no­stro problema, come sempre, è quello di riuscire a restare a galla, giorno dopo giorno. Perché il futuro è una parola che non ci è mai stata insegnata».
Isiolo è anche una città di ’contatto’ con la tribola­ta realtà della vicina Somalia. E dunque non si ’nu­tre’ del solo business legato alla Transafricana dei for­tunati operai locali che vi lavorano. Qui si svolge un florido contrabbando di armi che sta invadendo il Kenya; qui avviene il passaggio dei prodotti sbarca­ti nei porti somali dove non esiste dazio; qui si com- pie il primo ’lavaggio’ del denaro realizzato dai pi­rati con i riscatti per il rilascio delle navi sequestra­te nell’Oceano indiano; qui c’è un fiorente com­mercio di mirra, l’erba eccitante, che fa dimentica­re la fame, e di cui i somali sono forti consumatori. Milioni di dollari che prendono però la strada della capitale Nairobi.
Ma c’è anche dell’altro a Ovest di Isiolo, nell’avam­posto di Merti, e sta sotto i piedi delle ignare popo­lazioni nomadi che si stanno sterminando per raz­ziarsi a vicenda il bestiame: il petrolio. Sono sempre i cinesi che compiono le prospezioni, restando chiu­si nelle loro ’città-cantiere’. Provviste di tutto, to­talmente indipendenti, e che poco o nulla lasciano nelle tasche dell’economia locale. Se non quando si bruciano gli stipendi nei Casinò della capitale.
Isiolo è anche uno dei numerosi punti di riferimen­to per gli amanti dei viaggi fotografici. C’è la Riser­va nazionale Samburu, meta di safari internaziona­li. Con la Transafricana, si può supporre, ne arriveranno anco­ra di più, anche se non è raro, og­gi, osservare camionette cariche di militari armati di tutto punto – diretti a pattugliare le periferie del banditismo e della violenza tribale ”, incrociarsi con i fuori­strada degli ignari turisti.
Accanto alla futura grande stra­da intercontinentale, accade an­che che i cinesi stiano piantan­do i pali della luce. La corrente e­lettrica andrà nella savana, ma per illuminare i gran­di alberghi di lusso che oggi dipendono ancora dai generatori diesel. Strutture alberghiere che sono pa­radisi, dove si può ammirare la natura selvaggia stan­do immersi in piscine che hanno un’acqua traspa­rente come nessun indigeno ha mai visto in vita sua. L’economia del turismo è previsto che debba favo­rire lo sviluppo delle popolazioni locali, invece, ed è la denuncia di più voci, «dipende da tribù e tribù, al­cune sembrano condannate alle ’riserve’, abban­donate al loro destino, che è quello di estinguersi». A due ore d’auto da Isiolo, a metà strada, per torna­re a Nairobi, si incontra una magica esplosione di ver­de: l’esuberante e rigogliosa agricoltura degli alti­piani del Kenya. Siamo vicini al monte Kenya, 5mi­la metri d’altezza, la cima innevata. Le piantagioni si estendono a perdita d’occhio. Grandi proprietà, coltivazione estensiva di granoturco, fagiolini, ana­nas, caffè, tè. Un clima che garantisce due raccolti per stagione e tonnellate di prodotto da esportare.
Sono poche le ’Farm’ tramandate dalle generazio- ni dei coloni. I latifondisti moderni sono le ricche fa­miglie del Kenya, gli ex presidenti e i politici di car­riera.
E poi le multinazionali. «Parlare di fame in Kenya è un insulto all’intelligen­za – osserva un commentatore locale che preferisce l’anonimato ”. In Kenya, la terra è fertile. Appartie­ne allo Stato, che può farne ciò che vuole. Può offrirla ai cinesi per costruire nuove strade che andranno ad asfaltare anche le promesse non mantenute. Può darla per cercare il petrolio. Però mi domando: se si può scavare per cercare l’oro nero, perché è così dif­ficile farlo per cercare l’acqua? Il problema del mio Paese, ma anche dell’Africa, è nella distribuzione della terra coltivabile. Con poche famiglie sempre più ricche, se la terra non verrà redistribuita, le prossi­me elezioni politiche kenyane del 2012 saranno e­splosive. Lo scontro sociale è forte e ne abbiamo a­vuto un antipasto con il voto del 2007».