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 2009  novembre 20 Venerdì calendario

La coppia (difficile) che dura da 16 anni- Nel ”93 nasce il sodalizio Berlusconi-Fini. Quella telefonata Milano-Copenaghen «De Mita osservò Berlusconi e Fini in Transatlantico, li vide sfiorarsi senza nemmeno scambiarsi uno sguardo, rivolgersi un saluto: «Quei due sono come fratelli siamesi, che pur volendo staccarsi sono costretti a stare insieme»

La coppia (difficile) che dura da 16 anni- Nel ”93 nasce il sodalizio Berlusconi-Fini. Quella telefonata Milano-Copenaghen «De Mita osservò Berlusconi e Fini in Transatlantico, li vide sfiorarsi senza nemmeno scambiarsi uno sguardo, rivolgersi un saluto: «Quei due sono come fratelli siamesi, che pur volendo staccarsi sono costretti a stare insieme». Infatti sono sedici anni che Berlusconi e Fini vivono una storia tormentata, da quando si strinsero la mano per una foto che sarebbe ri­masta a lungo segreta, e che precedette l’endor­sement del Cavaliere per il segretario dell’Msi, candidato a sindaco nella Capitale. Il 23 novem­bre del 1993 a Casalecchio di Reno – dicendo che «se fossi cittadino di Roma voterei per Fi­ni » – Berlusconi affisse le pubblicazioni delle nozze con il capo della destra, un anno prima di quell’incredibile operazione di bigamia poli­tica con cui conquistò Palazzo Chigi insieme anche a Umberto Bossi. L’unione tra «Silvio» e «Gianfranco» dura da allora, unica coppia che nel centrodestra ab­bia resistito ai rovesci della fortuna. Ma il loro legame non è frutto di un’attrazione, ed è inuti­le quindi cercare un prima e un dopo. Le liti iniziarono già nel ”94, quando il governo appe­na nato entrò subito in agonia. Si detestavano sapendo di non potere fare a meno l’uno dell’al­tro, troppo diversi per storia e per carattere. La sera del 31 dicembre, vigilia del «ribaltone», Berlusconi chiamò Fini per cercar conforto. «Silvio» era al caldo, a casa sua a Milano. «Gian­franco » al gelo in una piazzetta di Copenaghen. «Silvio» iniziò a lamentarsi, seduto in poltro­na. «Gianfranco» prese a fumare, raggomitola­to su una panchina. Il primo non smetteva di inveire contro Scalfaro. Il secondo non riusciva a farlo smettere e aveva anche finito le sigaret­te. Finché la batteria del cellulare non salvò Fi­ni: «Per fortuna. quasi l’ora del cenone». La crisi di governo innescò subito la sfida per la leadership. Il capo della destra si era già stufato dei modi dell’alleato, e un giorno – nel­la storica sede di via della Scrofa – disse con una battuta ad alcuni colleghi di partito: «Ci le­viamo di torno questo cavaliere e ci teniamo il nostro». A Fiuggi, nel gennaio del ”95, dove si spense la Fiamma e nacque An, toccò alla Poli Bortone far scoccare sul palco del congresso la scintilla: «La guida del Polo da parte di Fini è nei fatti». A Berlusconi fu come toccargli Me­diaset. «Quei fascisti li ho sdoganati io». E da lì uno scambio di buone maniere, culminate nel­la frase di «Gianfranco»: «Silvio è solo un piaz­zista ». Le pratiche di divorzio sembravano pronte l’indomani della vittoria ulivista alle elezioni del ”96, dopo che Fini si era opposto alla nasci­ta del governo Maccanico, quello dell’«inciu­cio ». In fondo era stato il Cavaliere a perdere con Prodi, mentre An aveva ottenuto il 15,7% nelle urne, suo massimo storico. Fu così che il leader della destra pensò di avviare un’Opa su Forza Italia, convocò il partito e annunciò «una battaglia per conquistare il voto degli elettori di centro». Berlusconi preparò la contromossa. Iniziò a incontrare segretamente D’Alema, con­siderato «il vero capo del centrosinistra», men­tre pubblicamente fece finta di meditare un passo indietro. «Cominciate a riflettere sulla mia successione», esordì con voce rotta al co­mitato di presidenza di Forza Italia il 13 mag­gio del ”96: «Ho 60 anni ormai e non è detto che voglia andare avanti in eterno». Una sce­neggiata simile a quella fatta dieci anni dopo davanti ad Aznar, al quale indicò Casini e disse: «Ti presento il mio erede». Berlusconi non se n’è mai andato e la coppia con Fini non è mai scoppiata. Ma quando il «da­lemone » prese forma, si sentì rumor di piatti rotti. Nacque la Bicamerale e il Cavaliere ufficia­lizzò il suo voto a favore di D’Alema presiden­te, che organizzò in fretta e furia un congresso del Pds così da presentare ai «compagni» l’ex acerrimo nemico. Fini gridò al tradimento, dis­se che la commissione per le riforme era «aria fritta»: «E comunque presidenzialismo e fede­ralismo (proprio così, federalismo) sono per An punti irrinunciabili. Non si può dare il via libera solo perché c’è un’assonanza sulla giusti­zia ». Proprio così, giustizia. E a Berlusconi fu come rimuovere una carie senza anestesia: «Il retaggio di una vecchia politica, figlia della cul­tura del sospetto, stenta a morire. Fini sta per­correndo vecchie vie». La liaison tra «Silvio» e «Massimo» sembra­va non incontrare ostacoli, finché gli ostacoli non la mandarono in frantumi. La sera della fa­mosa cena a casa Letta, dopo che si era giunti a un compromesso su semipresidenzialismo e legge elettorale, D’Alema e Marini stavano per congedarsi. Quando Berlusconi richiamò la lo­ro attenzione: «Scusatemi, ma c’è da risolvere il problema della giustizia. Non si può andare avanti così, avete letto cosa facevano alla procu­ra di Milano». Fini prese la strada del bagno, mentre Marini diceva a D’Alema: «Guarda che ha ragione Berlusconi». «Lo so», fu la risposta: «Ma il mio partito è diviso. Al massimo potre­mo arrivare alla libertà di voto». Non ci si arrivò perché la Bicamerale cadde, non prima che tra il Cavaliere e il leader di An si fossero invertite le parti, e che «Gianfranco» si schierasse con D’Alema, ormai mollato da «Silvio». Di lì a poco il segretario del Pds avreb­be scambiato la presidenza della commissione parlamentare con la presidenza del Consiglio. Anche in quella fase la coppia del centrodestra sembrò sul punto di saltare. Casini, che allora stava dentro il Polo, spiegò perché il divorzio non ci sarebbe stato: «Fini senza Berlusconi do­ve andrebbe? Crede davvero di raccoglierne l’eredità? Farebbe l’opposizione a sua maestà D’Alema per i prossimi vent’anni. E Berlusconi senza Fini? Verrebbe inghiottito dalle sabbie mobili del centro». In vista delle Europee del ”99 tra i due si ap­parecchiò una nuova sfida. Il capo di An, sem­pre con la voglia del sorpasso, s’inventò l’Ele­fantino, imbarcando nell’impresa Mario Segni e una pattuglia di radicali. Berlusconi, che ave­va appena fatto bingo con il Partito popolare europeo, riunì il partito e commentò: «Questa me la voglio proprio godere». L’Elefantino pre­se una tale sveglia che «Gianfranco» venne pro­cessato dai colonnelli. «Non possiamo allearci con i nemici e litigare con gli amici», urlò Ga­sparri. «Ci sono più berlusconiani in An che dentro Forza Italia», disse Fini. Che riprovò co­munque a battagliare per la leadership del Po­lo, invocando le primarie. «Le primarie le han­no già fatte gli elettori alle Europee», si sentì rispondere. Però, se è vero che tra i due non c’è mai stato amore, se è vero che litigarono anche sui refe­rendum elettorali, è altrettanto vero che in quel­la stagione furono capaci di grandi successi e grandi intese. Strapparono per la prima volta Bologna alla sinistra, e soprattutto trovarono l’accordo per votare Ciampi al Quirinale. Opera­zione avviata da Fini, che così la raccontò: «Ne parlammo io e Veltroni, più un’altra persona di cui non farò mai il nome». Il Cavaliere, che in una prima fase era propenso ad appoggiare un popolare, fu lesto a metterci il cappello sopra. E il giorno dell’elezione, durante un brindisi, la­sciò cadere una battuta: «Peccato che Ciampi non l’abbia votato pure Bossi». «Bossi? che c’en­tra Bossi?», s’incuriosì Fini. Perché era dal ”95 che il leader di An non prendeva un caffè insie­me al Senatur, quello che aveva rotto con il Po­lo, che nelle piazze gridava al «Berluskaz» e in­veiva contro «la porcilaia fascista». «Allora, Sil­vio: che c’entra Bossi?». Silvio stava per mante­nere la promessa a cui nessuno nel ”96 aveva creduto: «Ragazzi ho un piano. Vi porto tutti con me a Palazzo Chigi». Altro che mollare, Ber­lusconi stava per fare piatto alle Regionali. *** SECONDA PUNTATA Berlusconi e Fini dovrebbero andar fieri dei loro scontri, perché la storia de­gli alleati duellanti sfata il luogo comu­ne del tiranno e dei suoi sudditi, e rac­conta invece una battaglia politica per il primato, giocata democraticamente nelle urne. lì che il Cavaliere vinse, riuscendo a mantenere la leadership del centrodestra. Ed è così che si pre­sentò alle Regionali del Duemila – for­te di un rinnovato patto con la Lega – costringendo D’Alema alle dimissioni dopo un amaro 25 aprile elettorale. Il successo annunciò la fine della «lunga marcia nel deserto» e un anno dopo Berlusconi tornò a Palazzo Chigi. La storia di quel quinquennio si sta ripetendo oggi, perché anche allora iniziò una gara a inseguimento tra il premier e la magistratura, con il prov­vedimento sul falso in bilancio, la leg­ge Cirielli, il Lodo Schifani, le tensioni con il Quirinale. Furono anni dram­matici, segnati dall’11 settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq, le ban­diere della pace, la strage di Nassiriya, Quattrocchi che fa vedere ai suoi car­nefici islamici «come muore un italia­no », il rapimento delle «due Simo­ne ». Il Cavaliere alternerà grandi suc­cessi diplomatici, come il discorso pronunciato davanti al Congresso americano, a grandi scivolate come la battuta sulla «superiorità della civiltà occidentale», e l’eurofiguraccia con il tedesco Schultz, additato come «ka­pò » . Allora come oggi bastò poco per­ché si riaccendesse lo scontro con Fi­ni, che era diventato suo vice nell’ese­cutivo. E già allora Berlusconi coltiva­va l’idea del partito unico, nata da un consiglio di Aznár: «Silvio, con una co­alizione non si governa, perché biso­gna fare i conti con gli alleati e le loro ambizioni. Un Paese si guida con un partito, il cui leader diventa primo mi­nistro ». Tenne riservata l’idea, «sicco­me mi hanno detto che volevo fare Na­poleone e ora non vorrei dicessero che voglio fare De Gaulle». Ma mise la pulce nell’orecchio del leader di An: «Pensaci Gianfranco. Peraltro io ho molti più anni di te...». «Gianfranco» invece era impaurito dal governo, «sono terrorizzato» confi­dò ai colonnelli: «In campagna eletto­rale abbiamo creato grandi aspettati­ve. Forse troppe». Quei manifesti 6x3 con cui il Cavaliere aveva garantito «meno tasse per tutti» saranno il ricor­do di un fallimento, di un malumore popolare che sarebbe tracimato nel colpo di cavalletto inferto sul volto del premier. «Non capisco, la gente mi ama», disse Berlusconi. «Non è così», gli rispose una giovane analista, Ales­sandra Ghisleri, divenuta poi la sua sondaggista preferita. Fini aveva promesso a se stesso che non avrebbe ripetuto «gli errori di D’Alema», e dunque mai avrebbe com­plottato contro il premier. Nel tempo ritenne che «la lealtà» era stata scam­biata per subalternità, e prese ad attac­care Tremonti e la Lega: «Berlusconi ri­cordi a Bossi che ha solo il 3%». Co­minciò così la più lunga verifica della storia d’Italia, mentre alle Amministra­tive l’opposizione rialzava la testa. Le liti erano così violente che nel luglio del 2003, il premier lasciò polemica­mente Roma per andare da Zeffirelli a Positano: «Lasciamoli sfogare questi ragazzi. Cosa pensano di fare, la crisi? Senza di me rischiano di suicidarsi». Tornò nella Capitale per far pace: «Ve­diamoci a casa mia in Sardegna. Porta­tevi le mogli o le fidanzate, fate voi». An e Udc gli presenteranno invece il conto, salterà prima la testa di Tre­monti e un anno dopo anche la sua. Fini e Follini, allora segretario dei cen­tristi, lo piegarono alla crisi. Provò a resistere, si appellò agli affetti con «Gianfranco». «Silvio, non c’entra l’amicizia. Il problema è politico». La rabbia esplose, incontrollata, al pran­zo che sancì la rottura: «Questa storia del Berlusconi-bis è una buffonata. Vi ho portato io ai vertici delle istituzioni e nel governo. Uno come me, con un patrimonio di ventimila miliardi, de­ve perder tempo con voi. Vuol dire che quando mi sarà passata l’arrabbia­tura, vi scriverò una cartolina dalle Bahamas». Il premier e il leader di An vissero l’ultimo anno da separati. Berlusconi a Palazzo Chigi, Fini a girare il mondo da ministro degli Esteri: «Quando tor­no in Italia e lo vedo alla tv, cambio canale». La depressione s’impossessò del Cavaliere, che modificò le sue prio­rità. «Il presidente non può venire al telefono, si sta lavando i capelli». Ai suoi interlocutori diceva: «Ho avuto il cancro, l’ho superato. La politica cosa vuoi che sia». «Silvio, non mi va di ve­derti così», provava a scuoterlo Confa­lonieri. E «Silvio» si scosse, si avventò sulla campagna elettorale dando dei «coglioni» a quanti votavano Prodi, andò a Vicenza e affrontò i «nemici» industriali mandando in visibilio la platea. «I sondaggi dicono che siamo testa a testa». E Fini: «Va bene, ora tira fuori i numeri veri». Invece era vero. Ma per quanto risicata fosse la vitto­ria del 2006, Prodi gli strappò Palazzo Chigi. Tentò di rianimarsi la sera del 3 dicembre a Roma, insieme a Bossi, Fi­ni e due milioni di persone. «Mai con­tro Berlusconi», disse il leader di An. E fu l’inizio di una nuova crisi, perché il Cavaliere non riusciva a dare la spalla­ta a Prodi, e intanto vedeva le manovre del leader di An e di Casini per scalzar­lo. Il predellino fu una mossa geniale e disperata, che unito al dialogo con Vel­troni, neosegretario del Pd, mandò in bestia Fini. «Siamo alle comiche finali. Se Silvio vuole tornare a Palazzo Chigi, ci vada con Walter. Con me ha chiuso. Ho vent’anni di meno, ho tempo di gio­care le mie carte». Invece s’incartò Prodi, il Cavaliere ebbe il voto, il governo e il Pdl, insie­me all’eterno alleato e sfidante: «Il nuovo partito sopravvivrà ai suoi fon­datori », sentenziò «Silvio» stringendo la mano di «Gianfranco». Prima di tor­nare a litigare. Francesco Verderami