Mattias Mainiero, Libero 16/11/2009, 16 novembre 2009
IL PIU’ AMATO DAGLI ITALIANI
Mai dire mai. Trent’anni fa imbrattava i cavalcavia a colpi di vernice, e prima ancora militava in un gruppo marxista-leninista di Varese e poi in Democrazia Proletaria. Ma erano trenta anni fa, il secolo scorso. Bobo era uno studente di legge, indossava l’eskimo e come tanti altri studenti amava la contestazione. Oggi Roberto Maroni, titolare dell’Interno, è in testa alla hit parade dei ministri che ispirano più fiducia agli italiani. Primo posto - nel sondaggio di novembre di Ipr Marketing - con uno stabile 62 per cento che conferma il gradimento di ottobre e che gli permette di scavalcare Maurizio Sacconi, che perde due punti e si piazza al secondo posto. A proposito, quella storia del cavalcavia di trent’anni fa finì con una nottata piuttosto agitata. Conviene rievocarla, se non altro per capire come trent’anni a volte possano essere un’eternità, e anche come un ex imbrattatore murale possa diventare il ministro più apprezzato dagli italiani. All’epoca Maroni faceva coppia fissa con Umberto Bossi, un’altra testa calda. Racconterà poi il Senatùr: «Il sistema era questo. Bobo guidava l’auto. Mi scaricava con vernice e pennelli. Poi proseguiva e faceva inversione al casello successivo e tornava a prelevarmi. Quella sera arrivò una pattuglia. Io me ne accorsi con un attimo di ritardo e mentre fuggivo sentii urlare: ”Fermo o sparo”». La pattuglia sparò sul serio, almeno secondo Bossi. «Scavalcai la rete e mi nascosi. Sbucai dal nascondiglio solo mezz’ora dopo. Ero tutto imbrattato di vernice perché durante la fuga mi ero rovesciato il secchio addosso. Povero Bobo, come gli conciai i sedili della macchina». I guai cominciarono il giorno dopo, quando Bobo raccontò l’accaduto in famiglia. Purtroppo, l’auto era della mamma. Ed era pure nuova. Potete immaginare le urla della signora Maroni. Oltretutto, in casa erano democristiani. La mamma aveva un negozio di alimentari, il padre lavorava in banca. Piccola borghesia. Quella storia del federalismo e dell’indipendentismo del Nord proprio non riuscivano a capirla. E quell’Umbert, poi, che disastro. Finì che Bobo dovette dimenticarsi l’auto. E i cavalcavia cominciò ad imbrattarli andandoci a piedi. Lui è fatto così: tenace. Se si escludono gli innamoramenti marxisti-leninisti, difficilmente cambia idea. Una volta erano i muri e la vernice. Oggi la criminalità da combattere (in media, col governo Berlusconi, sono stati finora otto al giorno i mafiosi arrestati, con beni sequestrati per un valore di 5 miliardi e mezzo di euro), la carta di Parma e l’accordo antidelinquenza con i sindaci delle città medie (che oltretutto gli dà un enorme potere sul territorio), i flussi di extracomunitari da regolamentare, la confisca degli appartamenti affittati ai clandestini, l’aumento delle pene per chi guida in stato di ebbrezza, le norme per rendere più facile la distruzione delle merci contraffatte, le ronde, i militari in città. Se la sua idea è quella, l’idea deve diventare realtà, anche se le ronde non si chiamano ronde e anche se in tanti storcono il naso. Il silenzio «Le polemiche - ama ripetere Maroni - mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro». La qual cosa non è proprio vera, visto che ogni tanto si arrabbia e querela pure o minaccia di querelare (vero, ministro?). Ma, tutto sommato, a lui piace lavorare in silenzio. Una volta il corrispondente del Figaro decise di parlare di lui. Era il 1994 e Maroni stava per diventare ministro dell’Interno. Ci provò, il corrispondente. Ce la mise tutta. Poi si sfogò: «Ma parla sempre così poco?». Talvolta anche di meno. un politico timido, - hanno scritto di lui - uno di quelli che arrossiscono fino alle orecchie ogni volta che aprono bocca. Le sue interviste sono brevi dichiarazioni. Le sue dichiarazioni si contano sulle dita di una mano. Bobo fa, dicono gli amici di Lozza, il paese dove è nato 54 anni fa e dove ritorna ogni volta che può.A parlare ci pensa Calderoli. Una malignità, ma gli amici sono amici e se ne fregano degli equilibri di partito. E pensare che il giovane Maroni era esattamente il contrario. Da piccolo, spiegano sempre a Lozza, il problema non era farlo parlare. Era farlo stare zitto e buono. Aveva fatto il chierichetto, con grande gioia dei genitori. Poi, con grande dispiacere dei genitori, si era stufato e aveva indossato l’eskimo: studente contestatore alla facoltà di giurisprudenza. Lettura preferita: il Manifesto. Comprendetelo: Libero, allora, non esisteva e Bobo era di sinistra. Hobby: discutere all’infinito di parità e lavoratori, diritti negati, capitalisti da mettere al bando. Discutere e arrabbiarsi. Durò poco, perché, piùo meno in contemporanea, arrivarono Emi, prima fidanzata e poi moglie, la musica (Maroni suona l’or - gano Hammond) e Bossi. Tre nuove passioni, più quella per il Milan. Difficile dire quale prevalga. Durante una campagna elettorale, Maronidisertò uncomiziodi Bossi a Varese per andare in Svizzera. Doveva suonare: Umberto poteva attendere. Per Emi, e per i figli, ha fatto per anni la spola fra Roma e Lozza. Per Bossi e il federalismo (meglio: il secessionismo) si è beccato qualche denuncia e pure una condanna ad otto mesi di reclusione (poi tramutata dalla
Cassazione in una leggera pena pecuniaria) per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Per il Milan ha fatto forse di più. Anni fa Berlusconi lo invitò ad Arcore. Maroni raccontò così la storia: «Accettai». Per Berlusconi? «No, perché il Milan aveva vinto la Coppa dei Campioni, che era ad Arcore, e io volevo toccarla». Aggiunse: «Una visita molto emozionante, ovviamente per la Coppa ». Persino gli occhiali di Maroni sono rossoneri. E su queste passioni non si transige. Sul resto, come dice Bossi, «Maroni è uno che trattaanchequando nonc’è nulla da trattare». Soprattutto perché a Bossi a volte piace farlo trattare inutilmente.
Il Senatur
Era il 1993 quando il Senatur spedì Maroni da Mario Segni. C’era da mettersi d’accordo sulla successione a Carlo Azeglio Ciampi. Maroni ci andò e discusse a lungo. Riuscì persino a raggiungere un’intesa. Passano due giorni e Bossi distrugge ogni accordo: «Mai la Lega con le lumache bavose democristiane». Il Senatur, mentre Maroni parlava con Segni, si era accordato con Berlusconi. MaMaroninon se la prese:«Sempre così. Umberto mi manda avanti a stanare la preda. Poi urla ”giù la testa”, io mi scanso e lui spara». Un sodalizio di ferro con una sola frattura, almeno ufficiale. Quando, nel 1994, Bossi scelse il ribaltone, Maroni non gradì e non ne fece mistero. Volarono parole grosse. Bossi: «Chi tradisce sarà spazzato dalla faccia della terra». Poi il Senatùr avrebbe anche confidato: «A Maroni ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato ». Fecero pace, e quando Bossi dieciannirischiò la vitaesiassentò dalla politica fu proprio Maroni a difenderlo più di ogni altro conservando intatto il trono dell’ami - co. E’ la loro tattica, spiegano gli esperti di cose leghiste ricordando l’eterno gioco delle parti. Come per il famoso decreto Biondi sull’abolizione della custodia cautelare: lo firmò, oltre al ministro della Giustizia, anche Maroni, che però il giorno successivo disse di essere stato imbrogliato. E i bene informati interpretarono il tutto come la prima rottura fra la Lega e il presidente del Consiglio Berlusconi. Guarda caso, poco dopo il governo cadde. O come le infinite diatribe con Roberto Calderoli, che aiuterebbero Bossi a capire gli umori della base leghista, a strappare e ricucire. Congetture, ipotesi, scenari veri o forse solo fantapolitica. Di certo, l’ami - cizia fra Bossi e Maroni è collaudata. Di certo, Bossi ha voluto Maroni al ministero dell’Interno, il più importante fra tutti i dicasteri. Di certo, Maroni è oggi il ministro più stimato. E c’è chi nella Lega si spinge a dire che il vero successore del capo è proprio lui, Bobo, l’ex marxista-leninista che sentì fischiare le pallottole sotto quel cavalcavia trent’anni fa assieme all’Umberto, che per giunta gli devastò pure l’auto della mamma. Chissà. Comunque, mai dire mai.