Gabriele Salari, La stampa 18/11/2009, 18 novembre 2009
LA TERRA NON VUOLE COPENHAGEN
Spero che alla Conferenza sul clima dell’Onu di Copenhagen non succeda proprio nulla». A un mese dal controverso appuntamento, il più importante per il pianeta Terra dopo i vertici di Rio de Janeiro e Johannesburg, è questa - a sorpresa - l’aspettativa un po’ paradossale di James Hansen.
Uno dei più celebri climatologi del mondo, 68 anni, da 28 direttore del «Goddard Institute for Space Studies» della Nasa e professore alla Columbia University, è convinto che dal summit di dicembre non possa arrivare nulla di buono, perché si procede sulla stessa logica del Protocollo di Kyoto che si è dimostrata fallimentare. «Il commercio delle emissioni, così come è stato attuato, è fittizio - spiega -: serve invece un meccanismo che porti realmente a un graduale aumento del prezzo delle quote di emissione di CO2. Finché i combustibili fossili rimarranno così economici non ci sarà nessun incentivo per Russia, Arabia Saudita e Germania a rinunciare al loro sfruttamento».
Hansen risponde così a «La Stampa», poco dopo il suo incontro con Guido Westerwelle, ministro degli Esteri e vicecancelliere tedesco. «La Germania - dice - vuole aumentare le proprie centrali a carbone per fare a meno del nucleare, ma questa decisione non va nella direzione di un ”time out” sulle emissioni di gas serra». Anche gli Usa, per quanto lo scienziato apprezzi le parole del presidente Barack Obama, si sono limitati a sposare l’«inefficace» politica del «cap•» per affrontare il cambiamento climatico.
Secondo Hansen, se si vuole mantenere il sistema climatico in condizioni «controllabili», si deve tornare al più presto alla soglia di 350 «ppmv» (le parti per milioni di volume) di concentrazione del biossido di carbonio nell’atmosfera. Per farlo è necessario abbandonare i combustibili fossili e, quindi, anche la riduzione al 2020 del 40% per i Paesi industrializzati, proposta da Greenpeace e Wwf, appare insufficiente. «In caso contrario lo scenario a cui andiamo incontro è chiaro: i ghiacciai della penisola antartica, che attualmente perdono 300 chilometri cubi all’anno, si scioglieranno nell’arco di un secolo, producendo un aumento di 6-7 metri del livello dei mari, a cui si dovrà aggiungere il collasso dei ghiacciai in zone come la Groenlandia».
Recenti studi, come quello apparso su «Nature» e scritto da 28 scienziati, confermano proprio la necessità di non sorpassare le 350 «ppmv» e attorno a questa proposta si è appena creato un movimento internazionale promosso dallo scrittore e ambientalista Bill McKibben (www.350.org). Attualmente la concentrazione di anidride carbonica nell’aria è già salita a 387 «ppmv» e ridurre le emissioni appare difficile. «Tecnicamente è possibile, ma politicamente è molto complesso - spiega Hansen -. Non c’è alternativa, però, perché anche due gradi in più di aumento della temperatura in un secolo sono troppi per la stabilità dei ghiacci antartici. L’Antartide occidentale, per esempio, è molto instabile, perché poggia sulla roccia e sta perdendo la sua massa. Gli iceberg iniziano a staccarsi e a muoversi molto più velocemente che in passato».
Di fronte a scenari così catastrofici - osserva Hansen - si tende a prestare più ascolto agli scienziati che offrono prospettive più ottimistiche, ma - accusa Hansen - «di solito lo fanno per interesse e i media danno loro credito, perché amano le polemiche». Il riscaldamento globale - spiega - è al di là di qualunque contestazione e proprio la celebre testimonianza di Hansen alla Commissione Energia del Senato americano nell’88 resta un evento storico: fu lui, infatti, uno dei primi scienziati a spiegare il legame tra i cambiamenti climatici e l’origine antropogenica. Poco importa - aggiunge - se l’anno scorso è stato uno degli anni più freddi e se il prossimo, al contrario, verrà probabilmente ricordato come uno dei più caldi, perché il trend del «global warming» è chiaro.
Di nuove ricerche, naturalmente, c’è sempre bisogno e, se «Nature Geoscience» ha pubblicato uno studio in cui il piombo è considerato come uno degli elementi che, immessi dall’uomo nell’atmosfera, contribuiscono a produrre un raffreddamento, Hansen insiste sulla necessità di indagare più a fondo gli effetti dell’aerosol e delle particelle microscopiche che portano al «global cooling».
«Non solo. Servono anche informazioni qualitative, oltre che quantitative, sullo scioglimento dei ghiacci polari per capire con esattezza quando avverrà il loro collasso. Sarebbe importante anche misurare con più precisione la temperatura interna degli oceani, perché ci rivelerà quanto dobbiamo fare per stabilizzare il clima», conclude Hansen. Per riscaldarsi, infatti, gli oceani impiegano tempo e altrettanto per raffreddarsi: l’acqua è un immenso serbatoio di calore e gli oceani sono in grado di assorbire enormi quantità di anidride carbonica, anche se l’aggravarsi del riscaldamento sta diminuendo questa capacità.
C’è ancora molto da studiare e a Copenhagen, dal 7 al 18 dicembre, gli scienziati sperano di contare un po’ di più.