Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  novembre 17 Martedì calendario

DIOUF PENSI A COMBATTERE LA POVERTA’ RURALE


Anziché fare lo sciopero della fame per un giorno, probabilmente, Jacques Diouf avrebbe dovuto dimettersi. Il senegalese è diventato direttore generale della Fao nel 1994 ed è al suo terzo mandato. C’era già lui quando nel 2000 è stato annunciato l’obiettivo di dimezzare la percentuale degli affamati entro il 2015. C’è ancora lui oggi a fare il bilancio di un decennio disastroso sul fronte della sicurezza alimentare: il numero di persone che soffre la fame invece di diminuire ha superato la soglia del miliardo.
La Fao dunque ha fallito. Fare l’elenco dei bachi del sistema sarebbe un esercizio lungo e complicato. La scarsità di mezzi che Diouf ha lamentato chiedendo quarantaquattro miliardi di dollari è sicuramente uno di questi, perché non arriveremo da nessuna parte se l’assistenza internazionale e i governi non torneranno a investire pesantemente in agricoltura, invertendo una tendenza nefasta partita negli anni Ottanta. Ma i soldi da soli non bastano se a mancare è la visione strategica. Diouf insomma non può cavarsela con l’ennesimo appello ai donatori e nemmeno dichiarando che «la fame non è un problema tecnico né economico, ma politico». Ha il dovere di fornire analisi e proposte convincenti. Anche perché sotto la parola hunger ce ne sta scritta un’altra: povertà rurale. E quest’ultima ha una molteplicità di cause che vanno dalla difficoltà di accedere ai mercati internazionali all’ arretratezza tecnologica di coltivatori che spesso hanno come unico strumento una zappa.
Per costruire un mondo più giusto di questo, in cui si realizzino i Millennium Goal e si faccia persino di meglio, il primo passo è rifuggire dalle semplificazioni. La fame è politica, economia, tecnica e molto più di questo. Non è possibile sconfiggerla se non si piantano i semi della democrazia, perché ha ragione Amartya Sen quando nota che nessun governo democratico potrebbe sopravvivere affamando i suoi elettori. Ma accanto a questo insegnamento che piace a tutti, da destra a sinistra, dovremmo fare posto anche per l’eredità di una figura più scomoda, Norman Borlaug, in un senso che va al di là del solito riferimento all’utilità delle biotecnologie. La sua "Rivoluzione verde", così tanto citata e così poco capita, ci parla dell’enorme potenziale umanitario che può avere la modernizzazione dell’ agricoltura, mentre in occidente va di moda l’Arcadia. Ci ricorda che servono scuole, porti, strade, dighe, ma anche fertilizzanti e colture ad alta resa. C’è un filo rosso che lega tutte queste cose: studiare qualche anno può darti il coraggio di sfidare un destino di povertà già scritto e lo scetticismo di chi ti sta intorno. Puoi cominciare barattando tutto per un animale che tiri l’aratro, approdare a un trattore, osare con le sementi migliori, come ha
fatto François Traore, che oggi rappresenta i produttori di cotone del Burkina. Lo sviluppo ti fa volare se riesci a coglierlo, ma gli ultimi li lascia ai margini.
Per questo non deve mai venire meno l’imperativo etico a ridurre le disuguaglianze, come ieri è tornato a ricordare Benedetto XVI. Alla sua analisi, però, mi permetterei di aggiungere almeno un pizzico di Thomas Malthus. Non certo per quel desiderio perverso di mettere le briglie alla demografia che andava di moda negli anni Settanta: Paul Ehrlich e i tardi epigoni di "The Population Bomb" possiamo lasciarli perdere. Come documenta una recente inchiesta dell’ Economist, il benessere sa essere più potente dei condom e i paesi emergenti stanno vivendo una transizione demografica anticipata. Il tasso di natalità ha impiegato 130 anni a passare da cinque a due in Gran Bretagna, mentre in Corea del Sud ne sono bastati venti. Nei Paesi in via di sviluppo oggi una donna può aspettarsi tre figli, mentre sua madre ne metteva in conto sei. Se è vero che non esiste una relazione di causa-effetto tra la crescita della popolazione e la fame, come sostiene il Papa, è anche vero che cancellare la demografia dall’equazione non si può. Nell’Africa sub-sahariana la produzione di cereali procapite oggi è del 19 per cento inferiore a quella del 1970. Perché alle élites delle capitali importa poco e niente della povertà rurale, ma anche perché la "Rivoluzione verde" che ha sfamato centinaia di milioni di persone in Asia e America non è mai arrivata in Africa, mentre le bocche da nutrire hanno continuato a crescere.
Il sistema alimentare globale si basa su un disequilibrio in perenne evoluzione, che può andare in crisi alla minima scossa, perché l’aumento delle rese non tiene il passo dell’aumento dei consumi. Ma in questo rapporto zoppicante è possibile leggere anche qualche ragione di ottimismo, se non per l’Africa subsahariana almeno per i Paesi emergenti. I consumi crescono anche perché chi riesce a rompere il cerchio della povertà non si accontenta più di una ciotola di riso. In mezzo a tanti numeri drammatici, in fondo, questa è l’unica preoccupazione che siamo contenti di avere.