Giampaolo Visetti, Affari & Finanza, 16/11/2009, 16 novembre 2009
ZHOU, IL NEOLIBERISTA CHE GUIDA LA DANZA DELLE VALUTE DEL MONDO
Secondo "Forbes", il presidente cinese Hu Jintao è il secondo uomo più potente al mondo. In Cina vive però una persona che questo potere glielo ha messo in mano, e soprattutto che lo conserva e quotidianamente lo rafforza. Il grande pubblico ignora il suo nome, ma gli ambienti finanziari internazionali lo temono e lo rispettano. Si chiama Zhou Xiaochuan, ha 61 anni e da sette è il governatore della «Banca del Popolo», la banca centrale del Paese.In patria è soprannominato «Bapi Zhou», quello che «ti cava la pelle». La sua durezza nei confronti dei nuovi finanzieri cinesi, ma pure contro la corruzione nelle società quotate in Borsa, è proverbiale. L’appellativo che mette tutti d’accordo, dentro e fuori la Cina, è però «Mister Dollar». A lui, campione del neoliberismo asiatico, Hu Jintao ha consegnato la gestione dei quasi 900 miliardi di dollari di bond del Tesoro americano. Da lui dipende la quotazione dello yuan, a cui è ormai affidato il destino delle economie di Usa e Ue. Zhou Xiaochuan non è però solo uno scienziato della valuta. E’ l’artefice del successo economico cinese, che ha costruito nell’ombra come un ingegnere, lasciando poi che i riflettori si accendano sul partitoarchitetto. La sua biografia spiega perché il mondo dei «decisori» lo consideri oggi «il solo leader cinese di statura universale» e pubblichi regolarmente i suoi saggi sulle più influenti riviste occidentali. E’ nato a Yixing, nella provincia di Jiangsu, sopra Shanghai, fucina dei maggiori imprenditori della nazione. Il padre, Zhou Jiannan, era stato chiamato così in onore della raccaforte maoista durante la guerra civile. Perseguitato e imprigionato da Mao durante la Rivoluzione culturale, per le sue idee «troppo indulgenti verso il capitalismo», all’inizio degli anni Ottanta fu riabilitato da Deng Xiaoping, che lo volle ministro. Alla guida della titanica riconversione industriale cinese, fu il maestro di Jiang Zemin, futuro leader alla morte di Deng. Il giovane Zhou Xiaochuan è dunque cresciuto in tale ambiente, di potere massimo, ma meno esposto sul fronte dell’ideologia comunista e tutto rivolto allo studio dell’economia occidentale. Si è laureato in ingegneria e chimica, ottenendo poi un dottorato in scienza dei sistemi economici nella prestigiosa Tsinghua University di Pechino. La sua carriera, dentro i meandri della più misteriosa amministrazione del pianeta, è iniziata alla metà degli anni Ottanta nel Consiglio di Stato, che gli ha affidato un piano segreto di «ristrutturazione economica». L’uomo che «ti cava la pelle» non si è lasciato sfuggire l’occasione. In pochi mesi, da studente modello, si è trasformato in «enfant prodige» dell’economia cinese, vale a dire in ideatore della più grande rivoluzione mondiale scoppiata dopo la fine dei conflitti armati del Novecento. Trentenne assistente del ministro del commercio, ha vissuto una sola fase di difficoltà, ma tale da condurlo sull’orlo dell’uscita di scena. Amico e delfino di Zhao Ziyang, nel 1989 rischiò di essere epurato assieme all’allora segretario generale comunista per essersi schierato, assieme a lui, a favore del dialogo con gli studenti prima del massacro di piazza Tiananmen. Cinque anni di purgatorio, relegato come tecnico in un comitato per la riforma economica, e quindi il definitivo «grande balzo in avanti». Vice presidente della «Bank fo China», quindi della «China Construction Bank», i due maggiori istituti di credito della nazione. Poi a capo dell’ufficio governativo che regola i rapporti con le valute estere. E’ qui, attorno al Duemila, che Zhou Xiaochuan matura la sua visione liberista del mercato, sposa il boom della finanza americana, insiste per trasformare definitivamente la Cina comunista in una moderna economia di mercato, di stampo liberista. «La battaglia – ha dichiarato in una delle rare interviste – non fu affatto semplice. Il problema era non fare la fine dell’Urss, vittima degli oligarchi espulsi dai suoi servizi segreti». Vince la sua sfida, grazie all’appoggio del gruppo di Hu Jintao, e si vede affidare la potente commissione di sicurezza economica nazionale. Sorprende tutti. Nel luglio 2001, dopo una spietata pulizia tra gli amministratori corrotti delle «spa» che sconvolgono la Borsa, annuncia la riduzione degli interessi pubblici nel mercato azionario. La Borsa di Shanghai ha un crollo, milioni di piccoli azionisti insorgono. In ottobre rinuncia al progetto, portato a compimento tre anni dopo, e nel dicembre del 2002 viene chiamato a occupare la poltrona più importante della Cina, assieme a quella presidenziale: governatore della Banca del Popolo, ossia custode e stratega della più importante economia del secolo.
I capitoli successivi, sono la storia sotto i nostri occhi. Zhou Xiaochuan ha capito che per riconquistare la leadership asiatica, e nel tempo quella globale, la Cina doveva «agganciare il proprio vagone alla locomotiva americana». Agganciarlo, non fonderlo, in modo da «poterlo sganciare al momento opportuno». Per anni ha convinto il governo ad acquistare i debiti degli statunitensi, per costruire così «un guinzaglio soft nelle mani di Pechino». Mentre gli Usa spendevano i dollari che non possedevano più, il «più americano dei cinesi» reclutava i migliori compatrioti emigrati per studiare l’Occidente. I suoi uffici, in Cina, sono noti come «gli acquari delle tartarughe di mare», simbolo di chi va lontano per fare esperienza e poi torna in patria per «deporre le uova». Giorno dopo giorno ha ricostruito le banche, costretto le industrie alla privatizzazione, imposto regole internazionali alle Borse. «E’ semplice – ha detto credo nel mercato. Se è in grado di risolvere i problemi dell’economia, noi dobbiamo consentirglielo. Altrimenti, tocca alla politica. Io sono un arbitro, non un giocatore e nemmeno un allenatore». Il basso profilo, unito agli impressionanti risultati, lo hanno imposto nel «Gruppo dei Trenta», la squadra di economisti che a Washington decide le sorti del pianeta. In quattro anni ha pubblicato una dozzina di monografie e oltre cento articoli tradotti in tutto il mondo. Pur sotto pressione dentro il G8 per la sua politica di sottovalutazione del renminbi, tre anni fa sembrava prossimo alla successione a Wen Jiabao come premier. Il Financial Times lo definì «stella nascente del potere e sicuro vicepremier entro l’inizio del 2008». Non è accaduto, stoppato dai circoli di Shanghai che gli hanno preferito Li Keqiang. Ma ciò non significa che la sua influenza sia diminuita. Sposato con Li Ling, padrona assoluta dal ministero del commercio, ha rivolto la sua attenzione esclusiva sulla moneta. Nel 2005, a sorpresa, decide di «sganciare il vagone dalla locomotiva». Lo yuan, non convertibile, associa il suo valore alle fluttuazioni di un paniere di divise internazionali, tra cui euro e yen. Sono gli anni del boom economico e finanziario globale. In due anni lo yuan si rivaluta del 20% sul dollaro. Fino al maggio 2007, quando «il governatore» annusa che la grande abbuffata è finita. Alle prime avvisaglie della crisi globale, spaventato dal crollo delle esportazioni e dalla crescita senza precedenti della disoccupazione interna, Zhou Xiaochuan frena bruscamente la rivalutazione, rimettendo il renminbi sulle orme del dollaro per «tallonare gli interessi cinesi in un’America che rischia il fallimento». L’operazione, dagli economisti, è considerata la sua «impresa più incredibile». Vara la più massiccia operazione di soccorso economico della storia, salva lo yuan, l’economia cinese e asiatica, in buona parte anche quella americana. Il 24 marzo di quest’anno, in piena recessione occidentale, impressiona i mercati con il famoso discorso sulla «riforma del sistema monetario internazionale». Propone di archiviare l’era del dollaro come valuta di riserva, per passare ad una moneta comune nuova, emessa dal Fondo monetario internazionale. Critica i leader dell’Occidente che «hanno perso di vista credito e finanza». Lancia l’idea di una «revisione completa del sistema bancario mondiale». Raccoglie il consenso della Russia, dell’India e di tutta l’Asia, non quello di Usa e Ue, impreparate all’epocale passaggio. Il tema è però irreversibilmente posto è la sua dimensione, prima volta per un banchiere cinese, è ormai globale. Per questo, nelle ultime ore e alla vigilia dell’arrivo di Barack Obama a Pechino, il suo annuncio di voler «migliorare il meccanismo di formazione del tasso di cambio dello yuan, seguendo un approccio graduale e controllabile», è stato preso sul serio da tutti. Dieci giorni fa il governo aveva ribadito il contrario. Significa che la Cina considera superata la crisi, che l’ha solo sfiorata. E che torna a puntare su Occidente, Giappone e Sudest asiatico. La strada, avverte però la «Banca del Popolo», è ancora lunga: un anno, forse uno e mezzo. Pechino ha bisogno che ripartano i consumi negli Usa e in Europa. Deve soprattutto far crescere i consumi interni, per scongiurare un nuovo crollo di industria e occupazione. Zhou Xiaochuan, con il suo annuncio, ha rafforzaro Hu Jintao prima del vertice con Obama. Per incrementare il tasso di cambio, ha confidato, aspetterà però almeno la fine del 2010, «il momento giusto» per calmare gli afflussi di capitale ed «evitare di importare inflazione in patria». L’ennesima scommessa, il suo ultimo capolavoro.