Riccardo Sorrentino, Il Sole-24 Ore 15/11/2009;, 15 novembre 2009
IL CARO-PETROLIO MINACCIA LA RIPRESA
un numero tra migliaia, un dettaglio. Nasconde però il segreto dell’attuale fase economica: è un freddo +21,2%, si riferisce agli Stati Uniti, il paese dove è nata la crisi; e, più in particolare, a quella parte del settore manifatturiero che produce beni durevoli: auto, elettrodomestici, ma anche macchinari, i primi a essere "sacrificati" nei momenti di difficoltà.
Quella cifra misura la crescita della produzione per ora di lavoro di quest’estate, calcolata immaginando che continui allo stesso ritmo anche per i nove mesi successivi. un aumento davvero rapido, frutto anch’esso della crisi, dell’enorme perdita di posti di lavoro. Il suo interesse è però nel piccolo paradosso che contiene: «Con una crescita sostenuta a questo ritmo spiega Tim Bond di Barclays in tre/quattro anni il settore potrebbe fare a meno quasi del tutto di lavoratori».
Non è possibile, naturalmente. Quindi, in assenza di fattori "di disturbo", presto le aziende americane che nel frattempo, aggiunge Bond, hanno ampliato i margini di profitto a livelli mai visti nel secondo dopoguerra cominceranno ad assumere. Non subito: il processo sarà lungo, l’occupazione segue a rilento il resto dell’economia. Occorreranno sei mesi, secondo Abiel Reinhart di JPMorgan, perché i lavoratori americani tornino a sorridere. Altri paesi però sono più avanti: Australia, Cina, Corea, Filippine, Brasile e Russia stanno già creando nuovi posti, presto potrebbe accadere anche in Giappone e Germania. Sono economie in cui gli investimenti, crollati per la recessione, danno qualche segnale di risveglio.
Anche se l’incertezza, come sempre, avvolge le previsioni, un po’ di ottimismo non sembra del tutto azzardato. La prima tappa nella corsa verso la fine della crisi si è conclusa: l’attività economica, misurata dal prodotto interno lordo, ha ricominciato a crescere quasi dappertutto. La ripresa si è manifestata muovendosi da oriente e occidente, ha interessato prima Cina, Giappone e l’area del sud est asiatico, molto integrata: all’inizio della crisi sembrava che potesse addirittura restarne immune. Dopo l’India ( e, a sorpresa, il Brasile) è venuto, in primavera, il turno di Germania e Francia, che in estate hanno risollevato tutta Eurolandia, in coincidenza con il risveglio degli Stati Uniti. Uniche rilevanti eccezioni restano la Spagna e la Gran Bretagna, ancora in recessione.
Il quadro complessivo mostra quindi una domanda globale in ripresa: la cura migliore per un mondo in difficoltà. Non è però un recupero "sano", e questo mina un po’ l’ottimismo. La crescita è ancora dipendente da massicce politiche economiche di emergenza: strettamente keynesiane - investimenti e infrastrutture, più tassi bassi - in paesi come la Cina dove si è puntato alla domanda interna; più generalizzate (" fisheriane", si potrebbe dire, ispirate dall’economista Irving Fisher) altrove, e soprattutto negli Stati Uniti dove l’enfasi maggiore è stata data al settore finanziario - e al deprezzamento del dollaro - considerato cruciale anche per i consumi.
proprio qui che si annidano ora le incertezze maggiori: la crisi è nata nei mercati, ma un errore di politica economica potrebbe prolungarla. Da tempo alcuni economisti temono che l’eccesso di liquidità in circolazione possa ricreare una serie di bolle finanziarie - un tema oggi tornato d’attualità - prima ancora di un generalizzato e persistente aumento dei prezzi. I banchieri centrali sono già in allarme e persino negli Stati Uniti, dove sono più attenti che altrove alla crescita, sono già concentrati sulle aspettative di inflazione (manifestate però dai mercati finanziari). Corrono così il rischio di lanciare qualche segnale fuorviante agli imprenditori, che hanno ancora bisogno di aspettarsi per il futuro tassi di interesse reali negativi o bassissimi (e quindi un po’ di inflazione) per lanciarsi in nuove iniziative.
Il momento più temuto è quindi quello della exit strategy, quando si invertirà la politica monetaria ultraespansiva: se arriverà troppo presto, farà arenare la ripresa. Senza contare che quando i tassi si alzeranno, le banche centrali non acquisteranno più titoli di Stato agli attuali ritmi e la ripresa avrà ridimensionato la propensione al risparmio, per finanziare gli enormi debiti pubblici finora accumulati - l’86% del Pil in Eurolandia, l’anno prossimo,malgrado gli inviti al rigore - occorreranno rendimenti più alti, che saranno un freno alla crescita. Un banco di prova potranno essere i paesi che hanno già alzato i tassi- Israele, Australia, Norvegia - insieme alla Nuova Zelanda, che dal 2006 ha ampliato il bilancio della banca centrale senza troppi danni. Il gioco è de-licato, ma non impossibile.
Governi e banchieri centrali hanno però dimenticato qualcosa. Qualcosa che si chiama petrolio. Ogni recessione americana e quindi ogni crisi globale- è stata preceduta da un forte aumento del greggio: è la tesi - empirica ma ben corroborata dai dati - di James D. Hamilton della California University. A luglio del 2008 le quotazioni erano a 146 dollari al barile, e questo significa che sarebbe stato difficile evitare una crisi anche se la Lehman fosse stata salvata.
Anche per l’economia vale il principio che non sempre il passato si ripete. Non c’è però equilibrio nel fatto che il petrolio, nelle prime fasi della ripresa, sia a quota 70-80 dollari al barile, per ragioni tutte finanziarie: è il calo del dollaro, effetto quasi immediato della politica espansiva della Federal reserve, a spingere in alto le quotazioni. Quando però la crescita prenderà piede e la domanda di energia si scontrerà (di nuovo!) con un’offerta rigida - le compagnie petrolifere, spesso pubbliche, faticano a fare nuovi investimenti- la situazione potrebbe rapidamente degenerare. «Se la domanda dalla Cina e da altri paesi- ha spiegato Hamilton al Congresso Usa - tornasse ai precedenti ritmi di crescita, non passerebbe troppo tempo prima che lo stesso meccanismo che ha prodotto il rialzo del petrolio nel 2007- 08 torni a tormentarci ancora». un problema serio che sembra avere poche soluzioni, al di là di qualche intervento di brevissimo periodo: «In realtà- ha aggiunto Hamilton- nessuna politica avrebbe potuto impedire il notevole rialzo dei prezzi del petrolio tra il 2005 e la prima parte del 2008». un’opinione, questa, molto radicale. Resta il fatto che, in ogni caso, non ci ha provato nessuno.