Domenico Quirico, La Stampa, 16/11/2009 Bruno Ventavoli, La Stampa, 16/11/2009, 16 novembre 2009
DUE PEZZI SUI SOLDATI BAMBINO
L’ESERCITO DEI BAMBINI INSANGUINATI, di Domenico Quirico -
Inizio anni Novanta, in Mozambico nasce una nuova tecnologia per uccidere: il soldato bambino. I ribelli che cozzano contro il governo afromarxista hanno creato una macchina assassina alta non più di un metro e 20 centimetri. I mozambicani hanno scoperto che possedevano, loro, uno dei paesi più miserabili del mondo, l’arma perfetta: i bambini, facili da manipolare, leali fino al sacrificio, che non conoscono la paura e senza limiti numerici. Benvenuti al paradiso della crudeltà.
Spostiamoci di scenario, il muro di Berlino è crollato da poco. In Liberia, un paese che sembra maledetto da un dio malvagio, un ex funzionario, Charles «Ghankay» Taylor, crea una armata di gente da capestro, vestita con abiti da nozze e maschere di halloween; esce l’alito dell’inferno da lì dentro. Al loro fianco bimbi micidiali raggruppati in unità d’assalto, «Small boy’s unit». Combatteranno una guerra-happening, un sanguinoso carnevale che durerà sei anni.
Ancora: 1996, in Congo, il cuore di tenebra, in lunghe file un esercito di bambini risale per 1600 chilometri, le rive del «fiume che si beve tutti i fiumi», sotto schiaffi di pioggia violenti come cannonate. Sono i «kadogos» le «piccole cose da niente» impegnati a far crollare il marcio regno del Grande Leopardo Mobutu, l’inventore della cleptocrazia. Hanno divise verdi e calzano stivali di gomma, senza gradi e senza bandiere, obbediscono agli ordini di un rivoluzionario-contrabbandiere, Kabila, che ha condiviso l’odissea africana, la più penosa e dimenticabile, di Che Guevara. Gli daranno il potere, quei kadogos. Hanno una espressione ironica e strafottente, cortese e crudele insieme. E loro glielo toglieranno assassinandolo. Non sempre si controllano le armi che uccidono così bene. La natura dei conflitti, soprattutto in Africa, è cambiata. Niente più guerre per una causa o per una ideologia, si combatte semplicemente per saccheggiare. La guerra dei signori della guerra, uomini dell’età del ferro, la belva non sonnecchia in loro, è sempre desta. Guerra che si auto-finanzia, che non ha più bisogno dell’appoggio delle popolazioni ridotte a prede. I piccoli sono l’arma ideale, costa poco e «rende» molto.
Quelli che cadono troppo profondamente in questo orrore non ne escono più, vi si disfano come se avessero la lebbra. Ecco: bambini che fanno paura e che hanno paura, bimbi idrofobi e furibondi con il fucile come unico amico, reclutati a forza, fanatizzati, spesso resi folli con l’alcool o le droghe. In molti di questi eserciti criminali raccontano che la vita e la morte dipendono dagli spiriti, la magia li spinge a gustare a sorsi il piacere del supremo dolore delle vittime. In Congo alla fine degli anni Novanta li convinsero che mangiare le vittime rendeva più forti; e sconvolto il mondo provò, finalmente!, raccapricci e aborrimenti.
Bambini-martiri diventati ribelli, vittime riconvertite in carnefici, bimbi sbattuti tra due derive. Bimbi-prigionieri in mezzo ad adulti che li avviliscono più di quanto li proteggano, bimbi massacrati, storpiati dentro, pieni di ammaccature morali che nessuno può curare. Dal Ruanda al Perù, dalla Bosnia alla Liberia, 250mila di loro combattono in prima linea. Ci sono una ottantina di guerre di tutti generi in corso nel pianeta, per lo più conflitti etnici, insurrezioni, guerriglie che coinvolgono soprattutto civili. I macelli contemporanei hanno infranto l’antico tabù che di secolo in secolo ha per lo più difeso i piccoli. Negli ultimi venti anni hanno ucciso due milioni di bambini, ne hanno feriti cinque milioni, hanno trasformato altri dodici milioni in rifugiati, fuggiaschi, spesso orfani. Non mancano, davvero, le reclute in questo orrore. Ora la follia si estende dalle savane e dalle foreste alle città. Nelle bidonvilles attorno a Nairobi il capo della setta dei «Mungikis», una gang di strada che utilizza adolescenti killer, ha aggiogato i suoi giovani assassini assicurando loro che è sceso sulla terra navigando in una boccia di stelle.
L’Africa non ha inventato i bambini soldato, li ha copiati da noi occidentali. I nazisti li hanno fatti combattere nelle ultime fasi della difesa del Reich. E gli ayatollah iraniani hanno regalato a bambini tra i 12 e i 16 anni vecchie chiavette di plastica che avrebbero dovuto aprire le porte del paradiso dopo aver bonificato con i loro corpi i campi minati di Saddam Hussein. La giunta birmana li arruola all’età di dieci anni rastrellandoli nelle stazioni e nei mercati. Il campo della morte a Tuol Sleng vicino a Phon Phen dove i khmer rossi forgiavano l’uomo nuovo, era affidato a scannatori tra i 14 ei 16 anni.
Il bambino assassino è diventato un personaggio della pop cultura occidentale. Dall’ambiguo «Blood diamond» a romanzi come «Best of nation» di Uzodinma Ideala o «Allah n’est pas obligé» di Ahmadou Kourouma che ha vinto in Francia il premio Renaudot, le atroci storie africane si vendono bene. «A long Way Gone» di Ishmael Beah, autobiografia di un bambino guerriero è stato distribuito in tutti gli «Starbucks» inglesi, tra i prodotti del politicamente corretto. Cerchiamo parabole di perdizione, fuga e ritorno, in fondo la nostra è una compassione ambigua.
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«A QUATTRO ANNI HO IMPARATO A UCCIDERE» - di Bruno Ventavoli
Se mi chiedi di una mela posso scrivere tre pagine. Ma se devo descrivere un bambino, dopo tre righe mi fermo. Non so che cosa sia. So che è un essere umano più piccolo di statura rispetto a un adulto. Ma dentro può avere voragini immense». E lì, in quegli abissi di orrore, spesso John Kon Kelei si perde ancora, risvegliato da incubi, perché a quattro anni è diventato un bambino guerriero, addestrato per uccidere senza pensarci troppo. Lui non ha scannato nessun nemico, ma per frutto del caso. Solo perché quando i suoi coetanei occidentali sognano con timore il passaggio alla scuola media, decise di studiare e smetterla con i bagni di sangue. Ora ha quasi trent’anni. S’è laureato all’università, vive in Olanda, e collabora con l’Onu per bloccare l’oltraggio della guerra infantile. E proprio di questo parlerà oggi a Torino, al convegno «L’infanzia violata dalla guerra: i bambini soldato».
La puerizia negata di John Kon Kelei finì prima dei quattro anni. Gli uomini dell’esercito di Liberazione Popolare che combatte contro il regime di Khartum nel sud del Sudan, arrivarono nel suo villaggio. Dissero ai genitori che l’avrebbero educato. Lo portarono in un campo d’addestramento in Etiopia. Con lui erano rinchiusi altri ventimila marmocchi, tutti inferiori agli undici anni. Sveglia alle 3 e mezzo del mattino. E poi tutto il giorno esercizi per imparare a odiare. «Ero eccitatissimo di andare via da casa. E quando mi hanno messo in mano un fucile è stata una magnifica sensazione di potenza. Vivevamo nella disciplina, nella violenza, nella brutalità. Ma ero contento. Era il mio ossigeno. Credevo ai capi, al leader. Odiavo i miei nemici. E non vedevo l’ora di andare a ucciderli».
Le pallottole di un kalashnikov non riconoscono l’età del dito che preme il grilletto. I bambini sono cose da poco, un mucchietto di pelle, ossa e gracili carni, ma sanno essere guerrieri perfetti. Anzi, perfino più affidabili dei grandi. Pensano meno, sono più leali. «E soprattutto sanno essere crudelissimi, perché per loro la guerra è un gioco. E non hanno quasi mai paura. Nemmeno della loro coscienza». L’unico balocco possibile, perché John Kon Kelei di altri non ne ha mai sfiorati. Al campo c’erano solo ringhi di capi. Massacri fisici. Simulazioni di attacchi. Poi, verso sera, quando i raggi del sole africano s’indeboliscono, chi voleva poteva svagarsi. Magari correndo dietro un pallone. Spesso, però, il gioco si mutava in conflitto, in rissa, perché una vera ricreazione dalla violenza non esisteva tra i ragazzi dell’odio. «Alla sera ci toglievano le armi, perché ci saremmo ammazzati tra di noi».
John Kon Kelei è cresciuto cinque anni nel campo. Senza mai uscire. Senza ricevere la carezza di una madre o il sorriso d’una creatura femminile. Senza ascoltare il consiglio d’un padre o i racconti degli avi da un nonno. Sapeva manovrare armi, fare imboscate, trasportare i compagni feriti. Perciò voleva combattere più d’ogni altra cosa. I capi gli dissero d’attendere. C’erano compagni più robusti, c’erano esili fanti un po’ più grandi dei fucili che dovevano usare, da spedire in prima linea. Non per sensibilità, ma per praticità bellica. John Kon Kelei si sentì ferito nell’orgoglio di uomo e di scannatore. E decise di fuggire. Di ricominciare tutto da un libro, da un quaderno, da una matita, anziché da una pallottola.
«Volevo studiare, ma non è stato facile. Perché all’inizio mi sentivo solo aggressività dentro. Volevo impormi con la forza a insegnanti e compagni. Io ero un guerriero, pensavo subito con fierezza. Poi ho imparato che si può parlare con il nemico senza armi, anche se è difficile liberarsi da odi antichi».
Ora John Kon Kelei ha fatto della sua esistenza mutilata una causa per cui battersi. «Non è un problema solo africano. Vengono impiegati ovunque, dall’Afghanistan, al Sudamerica, ai Balcani. Non possiamo permettere che intere generazioni crescano nell’odio. Altrimenti il mondo di domani non sarà mai pacifico». E così, insieme all’Onu, organizza programmi di recupero per togliere i piccoli agli eserciti, per farli studiare, «perché senza studio non vai tanto lontano dal fucile», per garantirgli indipendenza economica e aiuto psicologico. Ed è il fondatore di un ente che promuove l’istruzione secondaria nel Sudan meridionale.
«Con me il destino è stato generoso, voglio che la mia vita serva ad altri». Pativa la fame e si sentiva assetato di sangue tra le sabbie etiopiche, ora viaggia il mondo e può parlare a voce alta delle proprie idee. «E soprattutto sono ancora vivo, capisci perché certe volte mi sento fortunato? Eppure c’è una cosa che ho perso per sempre, che nessuno riesce a restituirmi: la mia infanzia. Vorrei un figlio. Potrei guardare il mondo attraverso i suoi occhi, sentire il calore dell’affetto, mangiare con i genitori». E forse anche scrivere, finalmente, che cos’è un bambino.