Riccardo Arena, La Stampa, 16/11/2009 Francesco La Licata, La Stampa, 16/11/2009, 16 novembre 2009
DUE PEZZI SULL’ARRESTO DI DOMENICO RACCUGLIA
PRESO IL NUMERO DUE DI COSA NOSTRA - I cori e l’esultanza dei ragazzi di Addiopizzo, che mostrano felici una bandiera della Trinacria, simbolo della Sicilia, salutano i poliziotti della Catturandi che portano a casa, nella sede della Squadra mobile di Palermo, l’ultimo colpo di una lunga serie. Bernardo Provenzano, Salvatore e Sandro Lo Piccolo, Gaspare Pulizzi, Andrea Adamo, solo per rimanere agli ultimi anni, avevano preceduto Domenico Raccuglia, per tutti Mimmo, 45 anni, catturato ieri pomeriggio in una palazzina di 4 piani in via Cabasino, a Calatafimi.
Con lui sono stati arrestati due presunti fiancheggiatori, Benedetto Calamusa e la moglie Antonia Soresi. Sequestrati un sacco pieno di pizzini, di cui il boss ha tentato inutilmente di liberarsi al momento della cattura, gettandoli dalla finestra. Materiale di grande importanza investigativa, adesso al vaglio dei poliziotti della Mobile.
L’arresto di Calatafimi per motivi geografici e storici ha dunque una valenza doppiamente simbolica: perché Raccuglia, boss di osservanza «corleonese» del piccolo paese di Altofonte, una manciata di chilometri sopra Palermo, dominus incontrastato di un’ampia fetta della provincia, era l’anello di congiunzione con la provincia di Trapani, con il superlatitante numero uno, Matteo Messina Denaro.
«Se il boss originario di Castelvetrano è il numero uno, Raccuglia era il numero due di Cosa nostra», dice il ministro degli Interni Roberto Maroni, nel complimentarsi con il capo della Polizia, Antonio Manganelli, ex questore di Palermo, e con l’attuale questore, Alessandro Marangoni. E proprio davanti agli uffici di piazza Vittoria, ad aspettare il latitante in manette, ci sono i ragazzi delle associazioni antiracket: gli agenti rispondono agli applausi levando le braccia al cielo e mostrando le dita in segno di vittoria, mentre i ragazzi fischiano il capomafia.
Scene già viste dopo le catture di Bernardo Provenzano e di don Totuccio Lo Piccolo, l’uomo che ha lasciato un grande vuoto di potere mafioso nel capoluogo dell’Isola.
Ora il capo che portava con sé la moglie in vacanza è ammanettato e sembra fuori posto perché ha l’aria di un distinto signore, alto, stempiato, brizzolato, la barba bianca a incorniciare un viso rotondo. Poco o nulla a che vedere con la vecchia foto segnaletica, l’unica conosciuta di questo boss latitante dal ”96 e condannato a tre ergastoli, uno dei quali per il sequestro e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il ragazzino figlio di un suo compaesano, il pentito Santino Di Matteo, «parchitano», cioè di Altofonte pure lui. «Mezzanasca» non rinunciò comunque a collaborare e il figlio fu ucciso e il cadavere disciolto nell’acido.
«Un’operazione di grande importanza, di grande abilità investigativa», dice il pm Roberta Buzzolani, che ha coordinato l’operazione. Che aggiunge: «La Squadra mobile è stata bravissima, nello sfruttare le proprie conoscenze sul territorio».
Indagini tradizionali, senza pentiti: perlomeno così dicono a caldo gli inquirenti. «Era abile, prudente, guardingo – dice il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia ”. Ancora una volta è stato dimostrato, laddove ve ne fosse bisogno, l’importanza delle intercettazioni».
Si congratulano in tanti. Il presidente del Senato, Renato Schifani, chiama Manganelli e il questore Marangoni, come fa il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Congratulazioni arrivano pure dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano: «Uno straordinario lavoro».
Il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso: «Per peso criminale, nella lista dei ricercati di Cosa nostra, era dopo Matteo Messina Denaro». Secondo il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, «l’arresto del boss ricercato da anni è una bella notizia per tutti i siciliani» RICCARDO ARENA, LA STAMPA, 16/11/2009 -
MIMMO IL VETERINARIO GIOVANE E SPIETATO -
Il Veterinario, al secolo Domenico «Mimmo» Raccuglia, è lo specialista dell’anonimato. Sebbene in più di vent’anni di silenziosa scalata al potere di Cosa Nostra fosse arrivato a posizionarsi subito alle spalle di Riina e Provenzano, non si può dire brillasse come una stella di prima grandezza. No, il Veterinario non ama la visibilità. E’ della vecchia scuola: poche apparizioni, pochissimi discorsi («La meglio parola è quella che non si dice») ma molti fatti concreti. Che dentro Cosa Nostra vuol dire farsi rispettare con l’esercizio della violenza.
Ne ha dovuta ammazzare di gente, il Veterinario, per arrivare in cima. Ma i risultati non sono mancati: a 45 anni, giovane e in buona salute, Raccuglia aveva ereditato l’immenso territorio che costituisce il mandamento di San Giuseppe Jato, un tempo feudo inviolabile di Bernardo, Giovanni Enzo ed Emanuele Brusca. Chilometri di campagna accogliente e silenziosa, tanto accogliente da averlo nascosto per tredici anni.
Raccuglia era latitante dal ”96, anno in cui piovvero i primi ergastoli per gli omicidi compiuti tra Altofonte, Piana degli Albanesi, Borgetto, Partinico e San Giuseppe Jato: il cuore nero dei Corleonesi di Riina.
Fu necessario dare una regolata al mandamento, specialmente dopo la cattura di Riina (1993) e del suo erede Leoluca Bagarella, fratello di Ninetta, moglie di Riina. Poi vennero presi anche Giovanni ed Enzo Brusca (1996) e allora il Veterinario divenne il più alto in grado. Si, è vero, era libero Provenzano, ma aveva altro per la testa e non poteva fossilizzarsi nella gestione del quotidiano di un territorio importante perché, da sempre, guaina protettiva della Cosa Nostra di tutta la provincia, da Palermo a Trapani.
Ma neppure quando divenne una sorta di capo di stato maggiore dell’esercito corleonese «Mimmo» modificò il suo stile. rimasto il basso profilo, la sua corda preferita. Si è sempre mosso con molta discrezione, tanto che persino gli investigatori impiegarono parecchio tempo per metterlo a fuoco e intuirne l’estrema pericolosità.
Anche ora, che la squadra mobile di Palermo e lo Sco gli hanno messo il sale sulla coda, si conferma la sua vocazione al basso profilo. Era latitante in territorio trapanese (Segesta) e quindi sicuramente protetto da Matteo Messina Denaro, che quantomeno non doveva ignorare la sua presenza così prossima, ma non ospite di nomi illustri della mafia locale. Stava in un appartamento senza pretese del centro storico, affidato («Nelle mani», si dice nel gergo mafioso) a normali pregiudicati. Al momento dell’irruzione i poliziotti l’hanno visto tentare di liberarsi di un sacco pieno d’armi. Eccola, la concretezza del Veterinario: armi e soldi, cioè il potere. Non più di due settimane fa sfuggì ai carabinieri che, nascosti dentro il piede di legno del letto, scoprirono quindicimila euro.
Già, i soldi. Di lui si favoleggia di recenti acquisti in una delle zone commerciali più in voga di Palermo. Ovviamente affidati ad amici e parenti prestanome. Ma i discorsi spesso non trovano riscontri puntuali. Il suo potere accertato è di natura militare.
Qualche giorno fa la procura di Palermo l’ha rinviato a giudizio per una delle sue storie violente: la scomparsa (1997) di un mafioso di Altofonte non gradito ai Corleonesi. Eppure è capace d’imprevedibili scatti amorosi, il Veterinario, ovviamente quando non si tratta di nemici. Ama i gatti e soprattutto i cavalli. Proprio come il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, strangolato e sciolto nell’acido per ordine di Giovanni Brusca.
Lui, «Mimmo», partecipò a quello scempio, come dimostra una delle condanne all’ergastolo collezionate. Ma fra tanta violenza nella sua vita ci sono stati, fino a qualche tempo fa, gesti di autentica tenerezza. Come quando riusciva a far sparire dal paese la moglie, proprio all’inizio delle vacanze estive, per farla riapparire alla riapertura delle scuole, dopo tre mesi di ferie, in latitanza col marito. Nessun poliziotto è mai riuscito a seguirla fino al nido estivo. Potenza dell’amore. FRANCESCO LA LICATA 17/11/2009