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 2009  novembre 16 Lunedì calendario

GLI EROI PUNITI


Cinquemila morti per chilometro quadrato di battaglia. Novecentomila tra caduti e feriti per la conquista di 30 chilometri di terreno sul solo fronte dell´Isonzo, buona parte dei quali presi nei primi quindici giorni di guerra. In totale settecentomila soldati e seicentomila civili perduti dall´Italia, più un numero incalcolabile di mutilati: il triplo del secondo conflitto mondiale. Un´ecatombe insensata, superiore persino a quella descritta da Eric Maria Remarque sul fronte occidentale. Peggio del fango della Somme, dell´inferno di Yipres o del piombo della Marna. Fu questo, nude cifre alla mano, la Grande Guerra su fronte italo-austriaco. Sono passati 91 anni dalla vittoria e dall´armistizio del 4 novembre 1918, i Cavalieri di Vittorio Veneto sono tutti scomparsi di scena (l´ultimo l´anno scorso), e il Paese ancora fatica a guardare a quel grande momento della storia nazionale senza il filtro della retorica, oltre i riti di Redipuglia e la canzone del Piave.
Ci voleva un occhio straniero perché l´epopea dell´Isonzo, del Grappa e delle Dolomiti diventasse racconto pieno, disincantato, critico, avvincente. il caso di Mark Thompson, storico inglese, ex corrispondente di guerra nei Balcani, traduttore di Saba e Magris, uscito alle stampe con La guerra bianca – Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919 (il Saggiatore, Pagg 502, euro 22, il Saggiatore), con la traduzione di Piero Budinich. Sul tema molto è stato scritto da austriaci e italiani, i diretti interessati. Pochissimo invece è uscito da autori di altri Paesi all´epoca belligeranti, con Francia, Germania e Inghilterra, tutti ripiegati sul racconto e sull´epica del fronte di casa loro, nelle Fiandre e dintorni. Thompson riempie questo vuoto, non limitandosi a un lavoro di ricerca cartacea. Per un anno ha battuto per il terreno, da inviato di guerra, alla ricerca dei luoghi e degli ultimi testimoni. Ha seguito le trincee del Carso, è salito sulla Marmolada e sull´Ortles, si è infilato nelle gallerie del Grappa e ha camminato lungo l´Isonzo, e questo ha dato al racconto il profumo forte della vita vissuta.
Ne viene fuori, dietro il racconto della guerra, il ritratto dell´Italia: quello di un popolo nobile e pronto al sacrificio, ma governato con disprezzo da una classe dirigente spesso irresponsabile e inadeguata. Politici doppiogiochisti e soprattutto generali-padreterni, ampiamente sostenuti da giornali servili ben oltre i limiti imposti dalla censura militare. Luigi Barzini, divo del Corriere della Sera, nel 1917 avverte perfettamente l´insensatezza di certi assalti, tanto che scrive al suo direttore che si mandano inutilmente al massacro divisioni intere. Ma egualmente seppellisce la sua posizione ambigua di embedded sotto valanghe di parole: assalto magnifico e irresistibile, soldati che muoiono col sorriso in volto, fumo che si dipana oltre le trincee, ufficiali che escono dall´incontro col fallimentare generalissimo Cadorna «trasfigurati, armati di non so quale forza nuova, con una fermezza serena nel viso, la fronte alta e come schiarita».
Né Francia né Inghilterra né Germania avrebbero espresso una simile retorica nei loro giornali. E i soldati che, in licenza, leggevano quelle parole, schiumavano. «Se vedo Barzino gli sparo» fu la battuta di un fante che passò alla storia. Ci fu anche questo dietro Caporetto. I giornalisti vidimavano con i loro articoli gli errori del comando supremo, e il comando supremo accoglieva quegli articoli come una conferma della sua infallibilità. «Un circolo vizioso – scrive Thompson – che incoraggiava l´arroganza del comando, l´odio per la critica, il brutale trattamento delle truppe e una completa mancanza di riguardo nei confronti del governo». L´atteggiamento di Cadorma verso i suoi soldati fu sanguinario oltre ogni limite, si esplicò con ferocia, anzi, come disse poi il ministro degli esteri Carlo Sforza, con "sadismo mistico"; e fu questo, non la propaganda "disfattista" ad abbattere il morale della truppa e creare le premesse di Caporetto.
«L´Italia – dimostra l´Autore conti alla mano – mobilitò lo stesso numero di soldati della Gran Bretagna, ma il numero di condannati a morte fu tre volte superiore. Nessun altro esercito punì ripetutamente intere unità con la decimazione, fucilando uomini scelti a caso». Il generale Andrea Graziani, incaricato da Cadorna di gestire il dopo-Caporetto colpevolizzando la truppa e non gli alti gradi, si distinse per violenza selvaggia: spezzò una mano a un soldato che aveva lasciato cadere il fucile; un uomo fu fucilato per aver salutato durante la ritirata senza essersi tolto la pipa di bocca; altri due finirono al muro per aver nascosto qualche chilo di farina negli zaini. La colpa doveva essere tutta della bassa forza. Tre giorni dopo lo sfondamento il generalissimo emanò un bollettino ufficiale in cui si affermava che la colpa di tutto era dei soldati che si erano «ritirati in manikera spregevole o si erano arresi ignomignosamente».
Nessuno mai giudicò Cadorna per tutto questo. Nessuno pensò a fucilare il generale Capello che si diede malato dopo aver appreso della disfatta, oppure il generale Badoglio che alla vigilia del disastro aveva intimato ai suoi di non sparare un solo colpo senza suo ordine, il che – tagliate le linee telefoniche dal cannoneggiamento austro-tedesco – significò, in quel clima di terrore e deresponsabilizzazione totale, l´assenza di risposta al fuoco nemico in quel settore del fronte.
La narrazione è incalzante, priva di nozionismo e saccenteria. Episodi chiave raccontati sono con la suspense di un thrilling. Per esempio le ore convulse che precedono il conflitto, con Cadorna che non viene nemmeno avvertito e non è messo nelle condizioni di lavorare a una mobilitazione, al punto che, dopo la dichiarazione di guerra gli italiani ci metteranno un mese per iniziare davvero a combattere, offrendo al nemico un vantaggio che il 24 maggio ancora non aveva. E che dire di D´Annunzio che si butta nella guerra anche per sfuggire ai debiti, cerca nel sangue (altrui) il gaudio e l´ebbrezza (propri), e si avvicina (prudentemente) alla prima linea come a uno sport estremo, inventando parole deliranti utilissime alla propaganda. Esorta alla «lotta di razze», ritiene inevitabile la «contrapposizione di potenze inconciliabili», cerca nello scontro «un´ordalia di sangue». Parole ingannevoli, le stesse che avevano stancato le sue amanti e suscitato l´ira della grande Eleonora Duse.
E poi la guerra in montagna, dove i progressi del fronte si misuravano in termini di centimetri, e dove gli uomini venivano fatti salire su rocce pazzesche sotto la neve e il vento indossando scarpe con suole di canapa. Uno sforzo colossale. Il generale Giulio Douhet, responsabile del settore carnico del fronte e implacabile nemico di Cadorna, osservò che, «per mantenere una guarnigione di cento uomini su un picco di 3000 metri, occorrevano novecento portatori che lavoravano dandosi il cambio». Per non dire del freddo, che uccise più del piombo nemico. Una guerra, sembrava questa, fatta più contro gli italiani, che contro gli austriaci. Uno scontro utile in primo luogo a bloccare sul nascere le rivendicazioni operaie e portare la pace sociale in patria, favorendo gli industriali del Nord e i latifondisti del Sud, entrambi preoccupati del nascente socialismo. Sarà un caso, ma il governo italiano fu l´unico a trattare da codardi e traditori i soldati che erano stati catturati dal nemico, e a impedire gli invii di cibo e abiti da casa. Conseguenza: oltre centomila dei 600 mila prigionieri di guerra italiani morirono in prigionia, una percentuale raggiunta da nessun altro esercito. Ma anche per questo non ha pagato nessuno.