Guido Rampoldi, la Repubblica, 16/11/2009, 16 novembre 2009
NEL PAKISTAN DEI TALIBAN
La paura della classe dirigente è grande quanto i cortei traboccanti di mitra con cui ciascun ministro raggiunge il palazzo del governo: 22 mezzi, inclusa l´ambulanza. Mentre sfrecciano per viali chiusi al traffico, nelle strade limitrofe alla cittadella del potere gli automobilisti finiscono in labirinti di filo spinato o nel mirino delle mitragliatrici pesanti appostate dietro ripari di sabbia. Ai posti di blocco, i poliziotti comandati a rischiare la pelle infilano facce malinconiche dentro le macchine sperando di non incontrare il ghigno della Morte. E tutto questo scrutare, puntare, agitarsi, rende più vistosa l´incapacità di fermare i Taliban al tritolo che si avventano sulla popolazione. Dall´inizio di ottobre quelle bombe umane dilaniano in media una dozzina di persone al giorno, per un totale di uccisi che già superava i trecento quando la stampa ha smesso di contarli.
Avventori di bazar, innanzitutto; e passeggeri di pullman, poliziotti, funzionari dei servizi di sicurezza, maestre, passanti, studentesse dell´Islamic university di Islamabad. Una strage continua. Si muore soprattutto a Peshawar, la principale città dell´ovest, pashtun come i Taliban.Ma anche la capitale ha subito attentati, l´insicurezza assilla i quartieri più esclusivi, e questa è la vera novità, perché fino a ieri l´élite non aveva mai conosciuto le angosce della prima linea.
La polizia annaspa; gli ufficiali dell´antiterrorismo da cacciatori diventano prede. Il governo non sa cosa fare. Dopo l´attacco all´università islamica non ha trovato di meglio che chiudere tutte le scuole per una settimana. Ed ecco come si presenta alla riapertura l´ingresso del Roots, liceo di un quartiere altolocato: otto guardie private con fucili a canne mozze, una cabina con metal-detector, telecamere che controllano il viale, e la sommità del muro di cinta argentata da una spirale di filo spinato. Ma questa militarizzazione non è valsa a far tornare a scuola le ragazze di un liceo femminile prossimo al Roots, cui i Taliban hanno fatto trovare una bara davanti al cancello.
«Era previsto, prima di migliorare la situazione sarebbe peggiorata», mi dice flemmatico il generale Athar Abbas, la voce dell´influentissimo stato maggiore. Ma quel peggio sembra peggiore di quanto il vertice militare si aspettasse, se perfino questo Quartier generale delle Forze armate, il chilometro quadrato più sicuro del Pakistan, il 10 ottobre è stato penetrato da dieci Taliban, guerrieri valenti e misteriosamente ben informati, perché, sfondato il sistema di sicurezza all´ingresso, sono andati diritti alla palazzina dello spionaggio militare, dove hanno ammazzato un generale e preso in ostaggio 40 persone prima di essere uccisi a loro volta. Tre settimane dopo sei ufficiali usciti da qui per incassare lo stipendio nella banca a trecento metri sono stati ammazzati da un kamikaze. Erano in coda davanti all´ingresso, ne rimane il sangue nero che imbeve la terra scorticata dall´esplosione. Pare l´ombra di un´anima.
la guerra del Waziristan: asimmetrica, feroce, ubiqua.
L´esercito avanza tra le montagne al confine con l´Afghanistan, appunto il Waziristan, un territorio poverissimo e selvaggio dove al tempo dell´India britannica gli ufficiali di Sua Maestà si avventuravano di rado e con trepidazione, temendo di finire ammazzati a tradimento o di cadere in un agguato (l´ultimo massacro risale agli anni Trenta). Da qui la leggenda che vuole quella regione non assoggettabile da alcuna sovranità statuale.
«Mitologia, altri tempi», commenta il generale Abbas. Oggi i rapporti di forza, dice, sono chiari. «Per esempio: un tempo le tribù della regione erano padrone della notte, conoscevano perfettamente il terreno. Ora i padroni della notte siamo noi, perché abbiamo i visori notturni». Con il vantaggio della tecnologia, della migliore organizzazione e dell´aviazione, in cinque settimane il corpo di spedizione pachistano, trentamila uomini, ha conquistato due terzi del territorio controllato dal nemico, diecimila Taliban appartenenti alla tribù Mehsud e un migliaio di loro ospiti uzbechi, arabi e ceceni. Ma quei guerrieri si sono sottratti alla battaglia campale in cui speravano i generali. Avevano previsto l´offensiva e predisposto per tempo una rete di nascondigli e depositi, la logistica per sostenere una lunga guerra di montagna. Ma soprattutto, avevano pianificato la loro controffensiva e infiltrato nelle città decine di feddayn, come i Taliban chiamano i ragazzini destinati ad attacchi suicidi.
Così adesso l´esercito avanza sul terreno, ma i Taliban vincono sulle prime pagine, un campo di battaglia non secondario.
Dall´inizio dell´offensiva terrestre, 17 ottobre, ogni giorno le Forze armate annunciano l´uccisione di venti Taliban, dieci, trenta (per qualche motivo, la Morte persegue la cifra tonda). Ma quei bollettini di vittoria sono sovrastati dai massacri prodotti dal nemico. Così adesso anche alcuni media in lingua inglese, i più ostili al fondamentalismo armato, cominciano a vacillare. «Se le scuole fossero ancora colpite, i commerci paralizzati, e il governo si dimostrasse incapace di arginare l´insicurezza che dilaga, allora la guerra del Waziristan apparirebbe insensata, suicida», scrive Newsline.
«Non è la nostra guerra», mormora una parte dell´élite pachistana, che non ha nel coraggio una delle sue doti migliori. «Non è la nostra guerra», scrivono indignati non pochi opinionisti, però minoritari, volendo intendere che sono stati gli americani a costringere l´esercito a quell´azzardo.
Non è così. Gli americani chiedevano, chiedono, un´altra cosa: un´offensiva generalizzata contro la dozzina di bande Taliban che imperversano nelle regioni a ridosso del confine con l´Afghanistan, le tre maggiori tutte in Waziristan. Nel calcolo di Washington, tolti di mezzo quei quindicimila miliziani, i Taliban afgani avrebbero perso un alleato fondamentale e una retrovia indispensabile alla loro guerra contro la Nato.
Invece di assecondare la richiesta americana, i generali di Islamabad hanno consolidato i patti di non belligeranza con due delle tre bande del Waziristan, e lanciato l´attacco unicamente contro la terza, la più grossa, la più agguerrita, e anche la meno coinvolta nella guerra in Afghanistan: i Taliban della tribù Mehsud. Perché quelli? Perché nella percezione dello stato maggiore sono diventati il catalizzatore di uno straordinario intreccio di progetti diversi - locali, nazionali, transnazionali - ma tutti convergenti verso la destabilizzazione del Pakistan.
Come sia nato questa strana bestia è una storia più sorprendente di una trama di Kipling, e in ogni caso l´Uomo Bianco non è il vincitore. Per anni i servizi segreti pachistani avevano usato il Waziristan come retrovia per le loro operazioni in Afghanistan. Ma dopo l´11 settembre gli americani si accorsero che tra i Mehsud vivevano centinaia di fondamentalisti asiatici, alcuni legati ad Al Qaeda. Allora chiesero all´Isi di fare spazio alla Cia, a Musharraf di mandare le truppe in Waziristan. L´esito: disastroso.
L´esercito condusse con scarsa convinzione due spedizioni militari; bastonato, fu obbligato ad un armistizio umiliante. Resi famosi da quei successi i Mehsud fondarono un´alleanza guerrigliera, il Ttp, "movimento dei Taliban del Pakistan", che in pochi anni ha abolito anche la debole sovranità che lo Stato riusciva ad esercitare sui territori addossati al confine afgano.
Il Ttp riunisce una congerie: bande di Taliban prive di un´ideologia unica, milizie tribali, gang specializzate in sequestri e taglieggi, organizzazioni di narcotrafficanti. I generali aggiungono all´elenco i servizi segreti indiani, che farebbero arrivare ai Mehsud armi e denaro attraverso i canali messi a disposizione dallo spionaggio afgano. Fondato o no questo sospetto, chi davvero ispira e forse manovra quei Taliban è il loro grande alleato, un sodalizio islamista formato da arabi legati ad Al Qaeda, bande di guerriglieri del Punjab un tempo impiegate in Kashmir, e circoli militari cui appartengono alcuni ex istruttori di quei guerriglieri.
Washington ha lodato l´offensiva in Waziristan ma restano sospetti, del resto reciproci. Ai pachistani non è piaciuta la fretta con la quale gli americani hanno evacuato, con largo anticipo sulle prime nevi, nove postazioni sulla frontiera afgana. Ecco Abbas: «Avevano subito un attacco, certo. Nove morti, certo. Ma hanno lasciato ai Taliban una tale quantità di armi, di munizioni. Come vede, anche noi possiamo dire: dovete fare di più». Il dubbio affacciato dai giornali è che gli americani sperassero in un accorrere di Taliban afgani in Pakistan, per combattere al fianco dei Mehsud: in quel caso la pressione sulla Nato sarebbe diminuita. Ma anche il Pakistan è sospettabile di voler trasferire la "sua" guerra oltreconfine. Infatti il messaggio sottinteso nella scelta di non disturbare le bande che combattono la Nato suona grossomodo così: ammazzate gli infedeli in Afghanistan, non i vostri confratelli musulmani in patria. Non è forse così? Il generale Abbas mi risponde con una metafora: «Se io e lei siamo amici e veniamo attaccati, lei chi difende per primo, me o se stesso? Dove gli interessi divergono non ci si può chiedere di rinunciare al nostro per difendere il vostro. Dunque perché avremmo dovuto affrontare tutti quei gruppi, quando invece potevamo dividerli?».
Difendere gli interessi del Pakistan, domando, implica aiuti alle bande Taliban che attaccano la Nato? No, dice Abbas. «Prima dell´11 settembre abbiamo fatto molte cose insensate, ma oggi non più. Abbiamo contatti, certo: dobbiamo sapere. Però non finanziamo né addestriamo quella gente». Aggiunge: quando avremo vinto in Waziristan «lo Stato avrà un´effettiva influenza sulle popolazioni dell´area». Insomma, potrebbe indurle a comportamenti più pacifici (sempreché, pare di capire, si trovino i soldi per avviare laggiù uno sviluppo economico).
Il problema è che la vittoria pachistana non è affatto scontata.
Nelle previsioni dell´esercito, la battaglia del Waziristan doveva durare otto settimane, siamo alla sesta, e la conclusione non sembra vicina. Nessuno ora esclude un periodo intollerabilmente lungo di guerriglia e di attentati, e nella peggiore delle ipotesi, una progressiva "afganizzazione" del Pakistan occidentale (Tribal Areas e North-west Frontier). "Afgana" è già la decisione annunciata quattro giorni fa dal Ttp, diviso ma non defunto: i Taliban pachistani si sono organizzati per distretti, esattamente come i confratelli d´oltreconfine.
Secondo Samina Ahmed, capo-analista del Crisis group, l´afganizzazione è un prospettiva verosimile perché la strategia pachistana è sbagliata. Le offensive dell´esercito (in primavera lo Swat, ora il Waziristan) decimano la fanteria dei Taliban «ma non colpiscono la struttura di comando e controllo», che in parte non è in quei territori e in parte ripara in regioni limitrofe. Sicché presto è in grado di ricominciare la guerra.