Michele Brambilla, La Stampa 15/11/2009, 15 novembre 2009
Ogni tanto abbiamo bisogno di un pugno nello stomaco, e quindi è consigliabile a tutti la lettura di Come mi batte forte il tuo cuore, il libro di Benedetta Tobagi appena uscito da Einaudi (304 pagine, 19 euro)
Ogni tanto abbiamo bisogno di un pugno nello stomaco, e quindi è consigliabile a tutti la lettura di Come mi batte forte il tuo cuore, il libro di Benedetta Tobagi appena uscito da Einaudi (304 pagine, 19 euro). Benedetta è la figlia di Walter Tobagi, uno dei tanti morti ammazzati dalla follia brigatista. Era un giornalista del Corriere della Sera, Tobagi: un inviato tra i migliori, nonostante avesse solo trentatré anni; e il presidente del sindacato lombardo dei giornalisti. Una delle tante vittime di quel tempo diabolico, abbiamo detto. Anche tra i giornalisti, Tobagi non fu il solo bersaglio. Prima di lui avevano ammazzato Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa; e gambizzato Montanelli. Ma fu l’omicidio di Tobagi ad aprire, nel mondo del giornalismo, una ferita ancora non del tutto sanata. Walter aveva fondato una corrente sindacale - Stampa democratica - che aveva rotto l’egemonia, ma forse sarebbe meglio dire il monopolio, di Rinnovamento, la corrente che univa comunisti e democristiani (ma soprattutto comunisti) in una sorta di compromesso storico della categoria. Stampa democratica nasceva da giornalisti vicini al Psi e si era alleata con l’ala conservatrice, vincendo le elezioni. Per questo era avversata - e con quale veemenza - dai giornalisti più schierati a sinistra, in un’epoca in cui essere schierati a sinistra non voleva dire andare controcorrente. La mattina in cui Tobagi venne ucciso - 28 maggio 1980, a Milano, vicino a casa - il direttore del Corriere della Sera Franco Di Bella urlò nel suo ufficio di via Solferino: «Sono qui dentro! I mandanti sono qui dentro!». Il sospetto di una qualche complicità fu rafforzato dal volantino di rivendicazione, zeppo di riferimenti al Corriere e al sindacato, tanto precisi da far pensare a un suggeritore dall’interno; e poi fu alimentato anche dal fatto che tra gli assassini uno - Barbone - era figlio di un dirigente del gruppo Rizzoli; e un altro - Morandini - figlio di un giornalista, ma del Giorno e non del Corriere. Un delitto maturato dunque all’interno della categoria? I socialisti, Craxi in testa, lo hanno pensato a lungo, ma al processo nulla di tutto questo è stato provato. Anche Benedetta Tobagi, nel suo libro, mostra di non credere a quella pista interna; anzi, si dice preoccupata da inquietanti coincidenze che porterebbero alla loggia P2, e su Craxi ha parole che le hanno procurato una polemica con la figlia Stefania. Resta comunque una coda che ha avvelenato i rapporti nel sindacato dei giornalisti. Ma il delitto Tobagi è particolare anche per lo scandalo che destò la sentenza. Marco Barbone, uno dei due che spararono, restò in carcere complessivamente solo tre anni e due mesi: premiato per una collaborazione ritenuta dai giudici «eccezionale» anche se l’unico omicidio rivelato dal cosiddetto «pentito» fu proprio quello di Tobagi; e anche se Barbone, quando decise di collaborare, era già finito in manette. E «particolare», quel delitto, anche perché a compierlo fu una neonata brigata di ragazzi di buona famiglia i quali non avevano altro fine che l’accreditarsi presso le Brigate Rosse come rivoluzionari ormai pronti per la lotta armata. Il libro di Benedetta Tobagi - che pure parla anche di tutto questo - è però prezioso per la sua parte più umana, più intima. Benedetta, che aveva tre anni quel giorno (suo fratello Luca ne aveva sette), mette insieme articoli e lettere private di papà, e poi fotografie, testimonianze, aneddoti. Pagina dopo pagina, il lettore si rende conto che è il commovente tentativo di far rivivere quel padre di cui può conservare solo un vago ricordo; il tentativo di conoscerlo come non ha potuto conoscerlo, di vederlo, di toccarlo, di abbracciarlo. la storia di un’assenza e il desiderio di una resurrezione. Sono struggenti i passi in cui Benedetta racconta uno dei suoi tanti sogni a lungo inseguiti: ritrovare la voce perduta di papà. A un tratto riesce a recuperare la videocassetta di una conferenza: «Parlava lento, con sussiego, aveva un tono curiale: sembrava freddo. Fatico ad ammetterlo, ma lo trovai quasi antipatico». Una delusione, e poi il rimorso per averla provata. Ma più tardi ancora la gioia per un dono inaspettato, il ritrovamento di una cassetta con incisa la voce di papà che gioca con lei e Luca: un’altra musica, e quale gioia, quale emozione nel risentirla. Come quando Benedetta trova, nel risvolto di un’agendina del 1979, una foto che ritrae lei e il fratellino al parco Sempione. E poi, ancora, la lettera che Tobagi scrisse alla moglie Stella la vigilia di Natale del 1978, piena di sensi di colpa per il suo troppo lavoro, per il poco tempo passato con i suoi angeli. un libro importante proprio perché dimostra che non c’è alcun fine che possa giustificare i disastri dell’ideologia: le vite umane spezzate, le infanzie rubate, le famiglie lacerate, i lunghi anni trascorsi dall’analista. «Come mi batte forte il tuo cuore» è bellissimo soprattutto quando scava nell’umano; quando racconta i tormenti di una fede nella Provvidenza ereditata dai genitori ma smarrita dopo tanto dolore. E poi il rapporto con gli assassini: il tormentato Marano che la cerca, il gelido Barbone che la ignora. un pugno nello stomaco, dicevamo, questo libro. Ma un pugno salutare. Ci ricorda - in un momento in cui torna la tentazione di dare dei brigatisti un’immagine edulcorata quando non eroica - quante sofferenze seminano coloro che, in nome di un’astratta «umanità», eliminano gli uomini.