Alberto Mattioli, La Stampa 15/11/2009, 15 novembre 2009
Quando la Regina Gertrude beve per errore la cicuta on the rocks destinata al figlio, alle due ragazzine nere sedute nella fila davanti, chiaramente venute per Jude Law («So gorgeous!», avevano sussurrato) scappa un ohhh! d’emozione
Quando la Regina Gertrude beve per errore la cicuta on the rocks destinata al figlio, alle due ragazzine nere sedute nella fila davanti, chiaramente venute per Jude Law («So gorgeous!», avevano sussurrato) scappa un ohhh! d’emozione. Già: pura emozione teatrale. l’Amleto al Broadhurst Theatre di Broadway, nella mitica matinée del mercoledì. E’ Shakespeare davanti al pubblico più incredibile in cui ci si possa imbattere. Non ci sono i soliti turisti o almeno ce ne sono meno che alla sera, e in platea siede il melting pot della città più globale del mondo: massaie di tutti i colori con la borsa della spesa, ebrei in kippah, studenti in jeans, un paio di indiani con il turbante in testa per la gioia di chi siede dietro, tutti insieme appassionatamente stipatissimi. In effetti questi teatri di Broadway tutto sono meno che comodi. A differenza di quelli europei, concepiti per l’ostentazione, dove il pubblico andava, più che vedere, per farsi vedere, furono costruiti per il business con foyer ridotti al minimo indispensabile o anche meno, sicché negli intervalli sembra di essere in metropolitana all’ora di punta, guardaroba minuscoli, bar lillipuziani, e toilette perennemente occupate. Il bardo arriva a Broadway da Londra, e si sa che in alcune cose gli inglesi sono imbattibili, come le guerre, il giardinaggio e, appunto, il teatro. L’ultimo dei comprimari recita meglio del primo dei mattatori nostrani. E lo stesso Law avrà anche il difetto di essere una star del cinema (ricordate? Due nomination per Il talento di Mr. Ripley e Ritorno a Cold Mountain, attualmente su questi schermi in Parnassus, il film postumo di Heath Ledger), ma in palcoscenico sa starci. Fa un Amleto molto moderno, easy going, scattante, dinoccolato, magari un po’ da telefilm ma di gran tenuta e, grazie al cielo, per nulla trombonesco. Del resto, i soliti noti di Hollywood non hanno paura di mettersi in gioco e in scena: a New York in questo momento ci sono anche Sienna Miller (proprio l’ex di Law, che la cornificò con la babysitter) e il bellone Hugh Jackman che duetta con lo 007 Daniel Craig. Tornando all’Amleto secondo il regista Michael Grandage, i costumi sono le solite gabbane grige similArmani che vanno sempre bene e in scena non c’è nulla, al massimo due sedie e un po’ di neve: però la recitazione di tutti è splendida, l’Ofelia di colore bravissima, Polonio stratosferico e, insomma, l’Amleto c’è proprio tutto. Ma se lo spettacolo commuove, il pubblico affascina. Nel senso che si tratta di spettatori evidentemente scafati, abituati benissimo perché da queste parti la professionalità è ai livelli che sappiamo e non c’è attore di musical che non canti-balli-reciti alla perfezione. Ma, appunto, è un pubblico avvezzo ai musical. Ed è chiaro che la maggioranza vede Hamlet per la prima volta e magari non l’ha nemmeno letto al liceo, concesso e non dato che l’abbia fatto. Quando il prence si mette a fare il matto (o lo diventa? La discussione è aperta da un paio di secoli) e inizia a snocciolare doppi sensi, il pubblico si diverte davvero: gran risate e applausi perfino a «Frailty, thy name is woman», «fragilità, il tuo nome è donna» che di solito da questa parte dell’Atlantico si ascolta con la compunzione da Grande Monologo. E tutti trattengono il respiro al duello con Laerte, che qui è un vero duello acrobatico da cinema, di quelli che però al cinema fanno le controfigure (i duelli, si sa, piacciono sempre: qualche giorno dopo, nel Faust alla Lyric Opera di Chicago, ci furono grandi consensi per come il tenore infilzava il baritono). Insomma, è un pubblico interclassista, popolare, entusiasta, per nulla di bocca buona ma ancora capace di commuoversi a una tragedia, purché sia recitata bene: in una parola, è il pubblico di Shakespeare.