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 2009  novembre 19 Giovedì calendario

La ricca provincia degli orrori -  tutto grande in Lombardia. Grandi i supermercati e le rotonde, grandi i conti in banca e le rivendicazioni contro lo Stato «che arraffa»

La ricca provincia degli orrori -  tutto grande in Lombardia. Grandi i supermercati e le rotonde, grandi i conti in banca e le rivendicazioni contro lo Stato «che arraffa». Grandi le discoteche e i suv parcheggiati fuori. Dev’essere grande anche l’odio, nella Padania liquida del profondo Nord, se una donna di 82 anni può essere trucidata per futili motivi nella sua villetta, colpita all’addome con un cacciavite, poi accoltellata alla gola fin quasi a essere decapitata. E lasciata lì in uno stagno di sangue senza qualcosa che le apparteneva dalla nascita: le mani. Mani ingioiellate, segate con precisione chirurgica all’altezza del polso. E portate via come trofeo o forse come bottino da un killer distratto e immaginiamo annoiato, con il volto di Javier Bardem in Non è un paese per vecchi, livido affresco del male gratuito. Dev’essere grande anche il silenzio, se nessuno ha visto e sentito niente a Cocquio Trevisago, hinterland di Varese, teatro dell’omicidio. Quattromilaseicento anime fra Comerio e Gemonio. Vale a dire fra il quartier generale di Giovanni Borghi, l’uomo che realizzò il miracolo economico varesino vendendo frigoriferi anche al Polo Nord, e quello di Umberto Bossi, il politico che meglio interpreta le tensioni di frontiera di questa terra. Quattromilaseicento anime e un solo collante in queste ore: la paura. Nessuno ha visto la Carla Molinari uscire come ogni pomeriggio verso le 18 a portar fuori il sacco dell’umido, prima di chiudere col chiavistello come faceva tutti i giomi, lei così preoccupata del degrado e degli allarmi sulla sicurezza da far mettere le inferriate alle finestre. Nessuno l’ha vista rientrare accompagnata dal suo assassino, nessuno l’ha sentita gridare durante la mattanza, nessuno ha incrociato la belva imbrattata di sangue sgattaiolare dalla porta posteriore. E nessuno oggi riesce a spiegare perché un paese onesto e tranquillo con il Monte Rosa all’orizzonte debba somigliare, agli occhi di chi non ci vive, a Brainerd, nel gelo del Minnesota, dove i fratelli Coen ambientarono il film Fargo dopo che uno psicopatico aveva rapito una donna e l’aveva fatta sparire riducendola a trucioli di carne in una falegnameria deserta, dentro un trituratore per tronchi. Eppure, questo accade nella California italiana, dove non c’è più fantasia perché tutto è stato raccontato. E dove letteratura splatter e cinema inseguono, come maratoneti bolsi, le cupe atrocità della realtà. Nessuna esagerazione, solo contabilità di un orrore che avrebbe bisogno di Truman Capote per essere raccontato con lieve rassegnazione. Era l’11 dicembre 2006 a Erba, quando i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi trucidarono gli inquilini del piano di sopra «perché facevano troppo rumore e non ci lasciavano dormire»: nonna, mamma, una vicina e il piccolo Youssef di 2 anni. Tutti annegati nel sangue in 9 minuti, con gli assassini a cercare alibi da McDonald’s fra i cheeseburger. Era il 30 agosto del 2005, a Brescia, quando Guglielmo Gatti eliminò gli zii Aldo e Luisa Donegani e li gettò in un dirupo della Val Camonica dopo averli fatti a pezzi nel garage di casa per denaro e rancore. Era il 16 maggio di quest’anno, quando ad Ardenno in Valtellina, fra profumo di erba tagliata e scorci di vette eterne, il giovane Donald Sacchetto pagò duramente un affare di cocaina: un suo amico, Simone Rossi, lo uccise, bruciò il corpo, lo maciullò con una ruspa, lo distrusse in un frantoio e ne sparpagliò i resti sminuzzati in una cava. Per poi dire agli investigatori che lo incalzavano: «Ho trovato un cadavere in giardino e l’ho seppellito, ma non ricordo dove». Un mese fa a Tavernerio, alle porte di Como, un uomo è stato trovato cadavere con un sacchetto in testa, dentro un furgone. Oggi uno degli indiziati si difende dicendo d’essere stato chiamato dal presunto omicida a cose fatte, solo per ripulire la stanza e spostare il cadavere. Come Wolf («Risolvo problemi») in Pulp fiction. E ci risiamo con il succo di pomodoro dello schermo che diventa sangue vero, sangue a ettolitri nei gesti d’una società grassa ma con l’intestino pigro. Bisogna prendere fiato al termine della conta. Cocquio, Ardenno, Erba, Tavernerio: il crimine ha lasciato la metropoli e si è trasferito in provincia. Ha seguito il flusso della gente, ha pedinato il benessere e ha sorpreso un’umanità indifesa, che il commissario Pepe non protegge più. il crimine è atterrato con l’ala del falco in una Lombardia spaventata e sempre più avvitata su se stessa, che non ha nulla a che vedere con i malumori letterari di Carlo Emilio Gadda, l’ingegnere in blu dalle stizze omicide dentro la noia opulenta della Brianza velenosa. Cocquio è più in là, ed è persino più piccola. Come direbbe Fletcher Christian guidando gli ammutinati del Bounty: «Questo è un posto così piccolo che, se ci mettiamo anche l’odio, non ci stiamo più noi». Così, si spera che il mostro sia arrivato da lontano e lontano sia tornato. Con le sue strane sigarette, con le sue scarpe nunero 39 (e se fosse una donna?) e con le sue manie feticiste. Hanno amputato le mani alla Carla Molinari e se le sono portate via. I criminologi ricordano che era accaduto altre due volte nel mondo, mai in ltalia. E gli esperti di guerre balcaniche aggiungono che la pratica era diffusa in Kosovo fra le tigri di Arkan durante i raid di pulizia etnica. Tutto così lontano dalla Carla Molinari, che era stata una brava tipografa e non si era mai sposata. Trascorreva i pomeriggi della pensione nella biblioteca comunale a leggere i classici e rispondeva ai molti amici: «Mais oui», ”ma sì”. Adorava parlare francese, l’aveva imparato da giovane quando aveva seguito papà in Costa Azzurra. Lui costruiva case, lei teneva i conti. Fino al ritorno in Italia, lui con una buona rendita e lei con uno charme nuovo. Da allora la Carla era sempre elegante, parisienne, con la erre rutilante. E la sua vie en rose raccontata due anni fa alla rivista locale Menta e rosmarino l’aveva letta tutto il paese. Alla fine, scritta nel sangue, resta una sola domanda: perché l’orrore delle mani mozzate? I conoscenti le ricordano sempre ingioiellate. E allora l’assassino può aver voluto impossessarsi più facilmente di anelli e bracciali che non riusciva a sfilare dalle dita. Ma chi ci dice che non sia uno psicopatico e che non abbia agito per lasciare un segnale, per giocare con la polizia? Ancora due piste. Una che porta alla mutilazione per vendetta e per usura, seguendo l’antica regola che vuole tagliare le mani dei ladri. E l’altra al pragmatismo da medico legale: la donna, nel tentativo di difendersi, avrebbe graffiato il killer, trattenendo fra le unghie frammenti decisivi di pelle o capelli. Crudeltà sadica che sgomenta anche gli investigatori guidati dal procuratore Maurizio Grigo, vecchia conoscenza di Tangentopoli, che ripete scandendo le parole: «Chi ha colpito era mosso da odio profondo. Come spiegare altrimenti la follia omicida?». Eppure, una spiegazione dev’esserci nella villetta della mattanza. O magari lì vicino, fra gente frastornata e innocente, che proprio qualche settimana fa aveva lanciato una petizione per far mettere telecamere di sorveglianza nella via. E a chi le chiedeva di firmare, la Carla aveva risposto convinta: «Mais oui». E nello svolazzo aveva fatto tintinnare i bracciali.