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 2009  novembre 14 Sabato calendario

Le dame di corte piemontesi lo avevano ribattezzato sporcaciun. Più lieve, Francesco De Sanctis discettava di «un certo amabile folleggiare… pieno di buon umore»

Le dame di corte piemontesi lo avevano ribattezzato sporcaciun. Più lieve, Francesco De Sanctis discettava di «un certo amabile folleggiare… pieno di buon umore». E così a volte la fama di bon vivant e donnaiolo, o tutt’al più quella di scrittore e pittore, ha oscurato l’abile politico. Massimo d’Azeglio, il grande bardo liberale moderato - dopo una fugace simpatia e vicinanza alle sette mazziniane e segrete - diventerà dal 1849 al 1852 un presidente del Consiglio del Regno di Sardegna pronto a giocare tutte le sue carte a favore della pace e delle riforme costituzionali. Insomma sarà un grande e sottovalutato tessitore dell’unità della Penisola, questo scrittore nelle cui opere lo storico Lucio Villari s’imbatté da ragazzino. Andando a frugare tra gli scaffali della biblioteca paterna, a Reggio Calabria, troverà I miei ricordi. «E’ uno degli esempi migliori di memorialistica risorgimentale, di gentiluomo piemontese legato alle sue tradizioni e tuttavia aperto alle esigenze del liberalismo ottocentesco, capace di cimentarsi nella difficile impresa di ”fare gli italiani” una volta ”fatta l’Italia”», commenta Villari. Lo studioso, formatosi alla scuola di Federico Chabod e Rosario Romeo nel tempio degli «Studi storici italiani», l’istituto fondato da Benedetto Croce, oggi, in controtendenza con le rivisitazioni critiche del Risorgimento come culla dei tanti mali dell’Italia postunitaria, ha utilizzato proprio D’Azeglio come nume tutelare per dare vita al suo ultimo saggio, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento (Laterza, pp. 345, e18). Un libro di storia che si legge come un romanzo e che fa la sua apparizione in un momento assai caldo. Professor Villari, come valuta le polemiche intorno alle celebrazioni del 2011 per il 150° anniversario dell’unità d’Italia. «Il Risorgimento è stato spesso soffocato dalla retorica. Adesso invece accade il contrario: ricorrenze e festeggiamenti ne coprono il senso più vero, di humus fondamentale delle nostre origini, mentre le vicende risorgimentali si presentano sempre più come reperti d’antiquariato. Con Berchet, Carducci, Mameli, Ippolito Nievo, ma anche con Carlo Cattaneo e Vincenzo Gioberti, questo momento della nostra storia fu epico e combattivo. Altro che le interpretazioni di quei ricercatori come Angela Pellicciari - il cui libro è stato addirittura consigliato dal premier - dell’ ”altro” Risorgimento ovvero dell’imperialismo piemontese e sabaudo che perseguitò i cattolici e si impossessò delle terre della Chiesa. Il Risorgimento fu invece una felice congiunzione astrale sotto il segno della modernizzazione. Per dirla con una battuta: la strada ferrata appena impiantata faceva da volano alla rivoluzione. Un momento memorabile anche per la giovinezza dei protagonisti, da Mazzini a Garibaldi a Mameli - che compone l’inno d’Italia a 20 anni e muore durante la repubblica romana del 1849 a soli 22 anni -, a Ippolito Nievo che a 17 anni partecipa al primo tentativo insurrezionale. Uno spirito unitario che nulla ha a che fare con i nazionalismi e torna ciclicamente a dare impulso alla nostra storia». Come la guerra di liberazione, ribattezzata Secondo Risorgimento? «Io all’epoca ero molto giovane ma percepivo uno sgomento esistenziale, reale e condiviso da tanti. Era il timore che la ”patria” fosse ”sì bella e perduta” come si canta nel Nabucco di Verdi. Bisognava agire e reagire. Nel 1943, quando l’Italia fu tagliata in due e percorsa da eserciti stranieri, affamata e stremata, fu protetta anche dalla sua tenuta culturale, dall’eredità degli entusiasmi unitari». Quale fu il suo libro-guida alla fine della guerra? «Spaziavo dalla letteratura francese a quella tedesca alle opere di Gramsci. Il Politecnico, rivista fondata nel 1945 da Elio Vittorini, pubblicò a puntate Per chi suonano le campane di Ernst Hemingway, tradotto curiosamente con questo titolo. Un racconto non solo d’amore ma anche d’avventura, ambientato durante la guerra di Spagna. Era esaltante». E successivamente la sua educazione cultural-sentimentale quali sentieri ha battuto? «Quelli tracciati da professori indimenticabili, come il classicista Santo Mazzarino, il filosofo Galvano Della Volpe e il critico letterario Giacomo Debenedetti. Ci coinvolgevano in lezioni e in grandi passioni. Il cinema, per esempio. Si andava al secondo spettacolo - rigorosamente di pomeriggio - a vedere tanto la produzione sovietica quanto una favolosa Marilyn in Giungla d’asfalto di John Huston o La foresta pietrificata o i capolavori di Marcel Carné, da Gli amanti perduti a Mentre Parigi dorme a La vergine scaltra». Narrativa e cinema dialettale, che in periodo neorealista erano molto à la page? «Non ho mai apprezzato nemmeno La terra trema di Luchino Visconti. E neppure l’egemonia del romanesco portato alla ribalta da tante commedie degli Anni Cinquanta-Sessanta che hanno segnato il degrado del cinema italiano. Oggi la rivendicazione da parte della Lega di Umberto Bossi dell’insegnamento dei dialetti la considero strumentale per menar bastonate all’unità faticosamente conquistata. Ai leghisti del maggior poeta in dialetto meneghino, Carlo Porta, o del Goldoni delle Baruffe chiozzotte, chiaramente non interessa nulla». Delusioni del passato? «Un vulnus fu inflitto all’eredità risorgimentale dal voto dato dai comunisti all’articolo 7 della Costituzione che riconosceva un regime privilegiato alla Chiesa cattolica. Nell’Italia nata dalla Resistenza si abdicava a una politica laica». Lei ha formato generazioni di studenti con le sue lezioni: come giudicò il rinnovamento del ”68? «Da un punto di vista culturale il Sessantotto mi appassionò. Soprattutto per la prospettiva internazionale. Mi ero formato sui testi di Karl Kautsky e di Rudolf Hilferding, ministro delle Finanze nella Repubblica di Weimar, fuggito nel 1933 in Francia e arrestato dai nazisti. Auspicavo anche in Italia una svolta socialdemocratica. In quel periodo mi dedicavo al Capitale di Marx. E, mentre tutte le lezioni erano bloccate dall’ ”onda” della contestazione, le mie erano seguitissime. Poi arrivarono gli anni bui del terrorismo e anche quell’aria da ”primavera culturale” esaurì il suo slancio». Un terzo Risorgimento, c’è stato? «Grandi aspettative erano state prospettate dall’operazione Mani pulite. Si percepiva la necessità di agire, di tagliare i ponti». Alle rivoluzioni seguono poi le restaurazioni. «Ascolti questa affermazione: ”Ci sono popoli, come ci sono individui che hanno tratto forza di rinnovamento dalla nausea di se stessi, cioè del loro passato”. Chi le sembra? Nietzsche? Macché. E’ Benedetto Croce nel 1924. Ancora prima D’Azeglio aveva spiegato come la restaurazione postnapoleonica avesse interrotto modernizzazione e civilizzazione. Oggi viviamo in tempi molto bui ma sarà la nausea a farci da motore e a farci uscir fuori. ”Quando un popolo è politicamente malato di solito ringiovanisce se stesso”». E questa volta è veramente Nietzsche.