Pierangelo Sapegno, La Stampa 14/11/2009, 14 novembre 2009
Il 2 ottobre un alluvione ha devastato la zona a Sud di Messina. Il bilancio è di trentun morti, sei dispersi, oltre mille sfollati
Il 2 ottobre un alluvione ha devastato la zona a Sud di Messina. Il bilancio è di trentun morti, sei dispersi, oltre mille sfollati. E un cadavere senza passato, senza nome. Che nessuno riconosce, nessuno vuole. E’ una donna più alta e diversa dalle due donne sparite nel nubifragio: è bionda e più grossa. Trentacinque anni fa un altro cadavere di donna, questa volta nudo, affiorato lungo le rive del Po, è rimasta senza nome. Due storie di ieri e di oggi che aspettano ancora la parola fine. E che sono più diffuse di quanto si pensi. Lo scorso anno, in Italia, quasi 800 persone sono morte prive di un’identità. E la tendenza è in crescita esponenziale (rispetto all’anno precedente il numero è più che raddoppiato). La maggior parte dei cadaveri «anonimi», che restano parcheggiati per qualche tempo nei nostri obitori, sono di emarginati di ogni genere, clochard, prostitute, immigrati irregolari. Li trovano morti, e nessuno sa chi sono. Molte difficoltà sono anche di ordine burocratico: manca il dialogo tra le varie banche dati che registrano reati e scomparse di persone. All’ingresso del cimitero c’è una scritta in latino, «Beati i morti che sono morti nel Signore». Forse, moriamo tutti nel nome del Signore. Ma a Lauriano, sulle rive del Po, fra le croci e il silenzio venuto dal cielo, ci sono due lapidi senza nome, una di fronte all’altra. Quella più vecchia ha inciso solo una data: 15 aprile 1974, il giorno che la seppellirono. L’avevano trovata l’11 aprile e il brigadiere Raffaele Posca della stazione dei carabinieri di Casalborgone aveva scritto nel rapporto che era una «salma di sesso femminile dell’apparente età di quaranta-cinquant’anni. Giaceva in un groviglio di arbusti ammucchiati dalle acque del fiume, supina, completamente nuda, con all’altezza della vita un elastico, presumibilmente da reggicalze». Tutto quel che resta di questa donna senza nome è questo ritratto: «Capo infangato. Cavità orbitali vuote. Addome teso annerito. Piedi scheletriti. Erosioni a coscia e polpacci da topi e roditori di bosco». I cadaveri senza nome sono i più tristi, perché sono morti senza la parola fine. Molte volte sono anche i più brutti. Ce ne sono 770 in Italia, abbandonati al loro dolore, e alla loro crudele solitudine, vittime della burocrazia, di una ingiustizia senza pietà, nemmeno per i morti. Non è un film La morte, in fondo, appartiene alla vita. E l’identità è una delle cose più importanti della vita. Solo un anno fa i cadaveri senza nome erano 337. In dodici mesi sono più che raddoppiati: 114 di loro sono immigrati annegati in un barcone affondato nel mare. La maggior parte si trovano nel Lazio, 188. Poi seguono la Lombardia, 130, la Sicilia, 110, la Puglia, 52, il Veneto, 45, e la Campania 42. A Milano quest’anno sono 88 i corpi senza nome. Tecnicamente, il concetto di identità si può definire come quei «caratteri individuali che differenziano inconfondibilmente un determinato individuo da un altro». Ma l’identità di una persona non è solo questo: dentro c’è la vita, ci sono gli affetti, i sentimenti, le emozioni, anche le ingiustizie, tutto quello che troviamo sulla nostra stessa strada. Privare questo viaggio della parola fine è un po’ come negare che la persona sia mai esistita. Per questo la maggior parte dei cadaveri senza nome erano persone vissuta ai margini della società, clochard e immigrati, molte prostitute e diseredati di tutti i tipi. Degli 88 casi di Milano, la metà è oggetto di indagini come morti sospette, il venti per cento come omicidi certi. E in ogni caso l’identificazione dei resti non è come nelle fiction televisive: è molto più difficile, e a volte si hanno così pochi frammenti di un corpo che è quasi impossibile risalire al Dna. Così, per il suo lavoro, Cristina Cattaneo, dirigente del Labanof - il Laboratorio di Antropologia e Odontologia dell’Università Statale di Milano - ha messo su un team di esperti in odontologia, ma anche in archeologia, per studiare la conformazione di un terreno e capire dove fare gli scavi, o in botanica, con l’utilizzo persino di una muta di cani addestrati. In molti casi tutto questo non serve, anche se nel suo orrore (può succedere di «sfilare le ossa ancora sporche di materiale residuo in una poltiglia di tessuti molli maleodoranti»), questo lavoro così tragico e minuzioso riserva in fondo l’ultimo vero gesto di pietà per queste vittime. Qualche volta, invece, si arriva all’identità e all’ultima parola, come quando un vecchio marocchino ha finalmente potuto vedere i resti del figlio stringendo e baciando il suo cranio in lacrime, senza paura, e senza vergogna. Può succedere, come 4 anni fa a Milano, che il cadavere di un uomo ammazzato venga messo in un boiling unit che in pratica deve bollirlo, perché solo così si riesce a ripulire lo scheletro per fare gli esami opportuni: però, così ce l’hanno fatta. Un’altra volta un extracomunitario carbonizzato è stato identificato grazie a due bulgari, che sono rimasti per giorni e notte intere davanti al laboratorio, chiusi in una macchina, sempre lì, qualsiasi ora andasse via, fino a quando non hanno avuto il Dna della moglie. Sono casi isolati, comunque. Il problema è che «manca un giusto coordinamento», come sostiene Elisa Pozza Tasca, presidente di Penelope, l’associazione che raccoglie centinaia di uomini e donne in ansia per i loro cari svaniti nel nulla e che lavora su questa tragedia con il nuovo commissario straordinario per le persone scomparse, il prefetto Michele Penta. Venticinquemila scomparsi Secondo la banca dati del Ministero dell’Interno, gli scomparsi in Italia sono 24mila e 800: fra loro è ovvio che ci sono anche alcuni di quei cadaveri senza nome. «Da una parte la gente non sa come fare e dall’altra non c’è collegamento fra chi riceve la domanda, il ministero dell’Interno, il commissario straordinario che deve essere coinvolto in queste vicende e la famiglia». L’esempio lo racconta lei: è quello di Bachisio Inzaina, un anziano residente a Vinci, morto il 19 gennaio 2001: è caduto nell’Arno e la corrente ha trascinato il suo corpo a Pisa. Ma nessuno lo sa. Sta chiuso in una cella frigorifera per 8 anni. Le figlie Angela e Rita lo cercano disperatamente. Nel 2007 dalla Puglia arriva una segnalazione: c’è un morto con una cicatrice nella testa, come quella che aveva Bachisio. Le figlie danno il dna: non è lui. Però, ci sono 8 scomparsi in Toscana e finalmente confrontano i dna, e lo trovano. Ancora due anni dopo, perché tanto ci vuole per mettere la parola fine a una vita che non c’è più. Invece, quella di Lauriano quella parola non l’ha mai avuta. Dovrebbe essere il cadavere ignoto più vecchio. Avevano detto di lei che era una prostituta. Non era vero. E’ che si può dire di tutto di un morto senza nome. Il cantoniere che portò il suo corpo alla camera mortuaria ricorda solo che faceva un caldo bestiale quel giorno. Il 15 aprile del 1974: oggi è questo il suo nome. Il tempo può essere più vicino al Signore di quanto lo siamo noi. Dare un nome a un cadavere sconosciuto è la cosa più difficile del nostro lavoro. Esistono tecniche, logistiche e scientifiche. Ma quella che manca è una banca dati da incrociare con quella degli scomparsi. Il nostro istituto sta partecipando a un tavolo tecnico del governo per un progetto di questo genere». Cristina Cattaneo, ha 44 anni, due grandi occhi verdi e una passione per i morti sconosciuti. considerata tra i massimi esperti in Italia di Antropologia Forense, come dire la nostra Kay Scarpetta, con tre lauree due all’estero e quella di medicina e chirurgia in Italia. direttore del Labanof, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università di Milano che dal ”95 si occupa dello studio «di resti umani a fini identificativi». Qual è la parte «logistica»? «Fare un identikit sommario è la prima cosa, spesso i cadaveri senza nome sono clandestini vittime di morte violenta, non hanno documenti. Sul nostro sito per esempio abbiamo messo sia alcune foto di volti sia ricostruzioni al computer. In Europa non esiste una rete per identificare i cadaveri senza nome. Negli Usa solo in Georgia c’è una banca dati che funziona, non è come fanno vedere nei telefilm. Esiste poi il Doe Network (Doe è il cognome americano che si usa dare ai senza nome; ndr), dove sono inseriti però solo gli identikit dei cadaveri non identificati». Scientificamente oltre alla comparazione Dna cosa si può fare? «Dipende da cosa trovi. Se il cadavere non è in buona conservazione, si inizia da sesso ed età, poi lo studio tossicologico, per capire se ingeriva farmaci o droghe. Ma esistono casi molto difficili». Quali? «Per esempio i carbonizzati o quelli di cui è rimasto soltanto lo scheletro: qui si agisce con competenze particolari per il profilo biologico della persona. Dopo le ossa e i denti, per capire l’età, il cranio per l’etnia. E’ molto importante adesso capire la provenienza di una persona, quando non si hanno più tessuti si risale dal cranio». Quindi si può capire se il corpo è di un extracomunitario di colore o di un italiano. Ma esistono metodi per capire anche se una persona proveniva dall’Est Europa, per esempio? «Adesso c’è la schedatura delle impronte digitali e con quello qualcosa si può fare se la persona ha avuto problemi con la giustizia. Ma si può capire anche dai minerali nelle ossa, per esempio ci sono paesi dove c’è un’alta presenza di Cesio e se il cadavere è di qualcuno che ha vissuto molti anni a contatto con quella sostanza si capisce da dove proviene controllandone la quantità nelle ossa. Così per altri minerali o sostanze chimiche particolari». Sul sito del Labanof ci sono molte ricostruzioni di volti al computer. Quanto sono utili per risalire all’identità? «Se il volto è stravolto dalla decomposizione si può provare, ma si tratta di una ”caricatura” e in genere si fa per i denti, la dentatura è una delle caratteristiche fondamentali per il riconoscimento di una persona. Ci sono parenti che hanno riconosciuto i loro cari da una dentatura particolare, o dal lavoro particolare di un dentista». In che senso? «Se esiste una panoramica della dentatura è semplice, ma ci sono metodi diversi di trattare carie o altre patologie nei diversi paesi e i dentisti usano sostanze differenti. Da qui si risale a dove è stato fatto quell’intervento odontoiatrico. Poi i denti sono fondamentali per l’età, la loro usura come per le ossa ci dice quanti anni aveva quando la persona che stiamo esaminando è morta. Ma la cosa necessaria è una banca dati fatta bene, con gli stessi criteri di quella degli scomparsi per poter poi incrociare i dati e arrivare alla certezza dell’identità».