Ugo Bertone, Economy 18/11/09, 18 novembre 2009
MARCHIONNE
Il difficile ritorno a casa -
«Io credo che quel che la Fiat sta facendo qui ci dia la carica...». General Holiefield non era
un invitato qualsiasi al grande meeting del 4 novembre ad Auburn Mills (caffè espresso e risotto, uniche concessioni al made in ltaly) che ha dato il via alla Chrysler targata Torino. Holiefield, infatti, in qualità di vicepresidente del sindacato Uaw, United Automotive Workers, con delega alla Chrysler, è sia la principale controparte che il primo azionista, con
il 55%, cui deve rispondere il ceo Sergio Marchionne. Non solo. Holiefield ha seguito da vicino l’introduzione dei nuovi metodi di lavoro, il Wcm (World Class Manufacturing, libera rielaborazione del sistema giapponese di far l’auto) importati da Torino a Jefferson North, uno degli impianti in cui nasce la jeep Grand Cherokee. «Non vedo l’ora» commenta al Detroit News «che queste novità vengano estese a tutti i nostri impianti».
E non si sa se qui prevalga l’animo del sindacalista o del socio, consapevole che, tra i tanti problemi ereditati dalla vecchia Chrysler, c’è pure (come per la vecchia Fiat) la scarsa qualità, con un tasso di reclami superiore di un terzo alla media. L’azionista è entusiasta di fronte agli obiettivi industiali: da 11 a 7 piattaforme, 3 in arrivo da Torino. Ciascuna dovrà sopportare almeno 300mila vetture, contro le 125mila di oggi, garantendo il ritorno all’utile. Ma quel che piace di più a Marchionne è il sindacalista che, almeno per ora, preferisce passare sopra all’aspetto più critico: gli otto impianti a rischio chiusura in Nord America. «Vediamo come va» dice «poi decideremo». E qui Holiefield si interrompe: sta arrivando Marchionne, accompagnato dalla musica di Bruce Springsteen. E tra i due c’è un lungo, affettuoso abbraccio.
Al di qua dell’Atlantico ben altro clima attende Marchionne nella veste
di amminisbatore delegato della Fiat. Lo aspettano al varco, a fine novembre, sindacati e ministri, preoccupati per l’occupazione, soprattutto a Sud. Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, non nasconde propositi battaglieri: «Dopo il piano Chrysler bisogna tornare in Italia per fare un piano industriale che riparta da quelle risposte che aspettiamo, dai modelli
ai volumi di produzione, ma soprattutto dalla salvaguardia di tutti gli stabilimenti italiani, che per noi è fondamentale».
Facile prevedere una risposta negativa. Marchionne ha anticipato che la piattaforma della
nuova Punto, a Melfi, produrrà anche per la sorella Usa. E a partire dal 2012 lo stabilimento
ex Bertone alle porte di Torino sfornerà le ammiraglie concepite a Detroit. Ma dall’integrazione tra le aziende, d’ora in poi «inestricabilmente legate», non scaturirà il miracolo di restituire un futuro a Termini Imerese, che a fine 2011 chiuderà la sua avventura nell’auto.
Così la capacità produttiva in Italia scenderà del 15%, «un livello ancora non sufficiente, ma gestibile» ha detto Marchionne. Molto dipenderà dall’andamento dei mercati, drogati dagli incentivi adottati in ordine sparso dai vari governi europei senza affrontare il problema principale: la sovracapacità produttiva. Almeno il 30%, aggravata dal fatto che gli impianti più vecchi e inefficienti stanno a ovest, nei mercati più maturi. Come la Germania, dove non si ha notizia di un solo stabilimento chiuso dal 1945 in poi, nonostante che nel frattempo le case tedesche abbiano effettuato forti investimenti verso est. O la stessa ltalia, dove i 5 stabilimenti del gruppo producono tante auto quante se ne fanno a Tichy, patria polacca della 500, o a Belo Horizonte, ma con il triplo dei dipendenti.
Non a caso, incassato un giudizio largamente positivo dai mercati finanziari sul business plan Chrysler, pur così ambizioso (raddoppio delle vendite entro il 2014, anno in cui saranno rimborsati gli aiuti del governo federale, ritomo all’utile già alla fine del 2010), Marchionne ha lanciato la sua offensiva più europea che italiana dal territorio neutro della Zunthaus zur Meisen di Zurigo, sede della Camera di commercio. «In Usa» ha detto «l’amministrazione Obama non solo ha favorito il recupero veloce dei produttori, ma ha anche elaborato un progetto per un nuovo futuro, sia economico che ambientale.
Altra musica in Europa. Francia e Germania hanno esagerato con i contributi aggravando gli squilibri già esistenti che, prima o poi, verranno al pettine perché i bilanci pubblici non possono sostenere all’infinito questa sfida.
L’ltalia è un caso a parte. «Noi abbiamo solo crediti di imposta legati al programma di incentivi che il governo dovrebbe rimborsare» ha sottolineato Marchionne. A fine settembre la Fiat doveva avere 400 milioni di euro. A fine anno saranno più di mezzo miliardo. Ovvero, nessuno si sogni di «ricattare» Fiat non rinnovando gli incentivi.
Se questa sarà la scelta, gli effetti saranno «devastanti, perché il mercato italiano cadrà
da 2,1 a 1,7 milioni di pezzi. E la Fiat («che oggi in Italia vende sottocosto») non potrà che prenderne atto. Senza sconti, come vuole il Marchionne style, ormai riferimento unico anche per le scelte politiche del gruppo, se vuole dire qualcosa l’assenza di Luca di Montezemolo a Detroit (dove erano presenti sia John Elkann che Andrea Agnelli). Anche
perché c’è dawero poco spazio per fare sconti.
Sergio Marchionne, l’uomo armato di 5 telefonini (2 BlackBerry, 2 iPhone e un normale cellulare per le chiamate più riservate) e dai ritmi di lavoro infernali, non si nasconde che la vera traversata nel deserto, destinata a durare almeno per tutto il 2010, è solo all’inizio.
Il matrimonio porterà in dote a Fiat doni preziosissimi: lo sviluppo e la produzione di tutti i modelli oltre il segmento C, colmando il vuoto evidenziato dal fallimento della Thesis e sfruttando la piattaforma usata da Chrysler solo per la 300 c («Una follia» ha detto agli analisti «non oso nemmeno dirvi quanto è costata...»); lo sviluppo dei motori elettrici e ibridi, favorito dai generosi aiuti di Obama.
Soprattutto, la jeep, il vero cuore dell’operazione Chrysler, che avrà successo solo se la forza di questo brand, combinata con motori Fiat più puliti e brillanti, consentirà all’accoppiata Torino-Detroit di conquistare quote in Europa, dove bisognerà puntare a modelli a maggior valore aggiunto per compensare il calo delle vendite.
Peccato, però, che i concorrenti non stiano certo a guardare. Sia Ford sia Gm, per non parlare di Hyundai o di Nissan, stanno rovesciando sul mercato nuove proposte mentre Chrysler, almeno fino al 2011 compreso, dovrà accontentarsi del restyling di modelli già in produzione e delle invenzioni di Olivier François, il «mago» della comunicazione Lancia che
promette di puntare sullo stile Chanel («Se vuoi essere notato devi essere diverso»), grande rivoluzione per una casa che, fino a ieri, ha puntato sullo stile macho, compresi
rodei e l’elezione di miss Chrysler in bikini e guêpière.
un passaggio stretto, anche se super Sergio può contare su una posizione finanziaria (5,7 miliardi in cassa) infinitamente migliore di quella che trovò al suo arrivo in Fiat, nel 2004. E dopo? La strategia del manager con il maglione che non dorme (quasi) mai può funzionare solo se il mercato Usa confermerà la ripresa, formidabile e sorprendente, che ha consentito il ritorno all’utile di Ford e la riscossa di Gm.
Adam Jonas di Morgan Stanley, forse l’analista più autorevole del settore, ne è convinto: il mercato Usa, dice, ha sempre avuto, dopo le crisi, recuperi a forma di V. Andrà così anche stavolta, complici le nuove regole ambientali: dai 10,5 milioni di vetture vendute quest’anno
si passerà a 14,5 milioni nel 2014. E così la nuova Chrysler, grazie anche a 500 e motori
multiair, riuscirà a generare i 23 miliardi di dollari necessari per sostenere il decollo di 21 nuovi modelli.
Altrimenti? «Ce la giochiamo per l’ultima volta» risponde Marchionne «e se sbagliamo
adesso...». E lascia cadere la frase, come nei western. Il paragone tiene: anche stavolta gli indiani sono in agguato, sia sulle colline di Torino che sulle rive del lago Michigan.