Carlo Panella, Libero 10/11/2009, 10 novembre 2009
a presentare un libro nel teatrino di Fazio, per una colpa imperdonabile: il presunto anti-antifascismo, attestato dai miei libracci sulla guerra civile
a presentare un libro nel teatrino di Fazio, per una colpa imperdonabile: il presunto anti-antifascismo, attestato dai miei libracci sulla guerra civile. Invece ecco Fazio accogliere con il tappeto rosso quel collaudato fascistone di Fini. Con il pretesto di un libro firmato dal presidente della Camera e scritto da chissà chi. uno dei paradossi della Rete Tre della Rai: quella rossa, di sinistra, zeppa di compagni e di compagnucci. Adesso in subbuglio perché, forse, vedrà giubilare il direttore, Paolo Ruffini. Che, sempre forse, verrà sostituito non da uno sgherro del caimano Berlusconi, bensì da un professionista della tivù. Ruffini l’ho conosciuto anni fa, quando scriveva sui giornali e faceva il notista politico per ”Il Mattino” di Napoli e poi per ”Il Messaggero”. Nel Transatlantico di Montecitorio mi colpiva il suo restare un po’ in disparte rispetto a noi cronisti. All’apparenza timido, con l’aria del ragazzo per bene. E ogni volta che lo incontravo vedevo alle sue spalle l’ombra del padre: Attilio Ruffini. Nell’ombra del padre Il babbo di Paolo era stato un deputato democristiano di lungo corso, eletto per ben sei legislature, più volte ministro, ai Trasporti, alla Difesa e agli Esteri. La corrente dei dorotei lo considerava uno dei suoi pilastri. Anche per un dettaglio geografico-famigliare. Benché nato a Mantova, Attilio aveva il collegio a Palermo. E qui poteva contare su un parente di tutto rispetto: il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di quella diocesi, uno degli uomini più potenti nell’isola. curiosa la storia delle famiglie italiane di rango alto, fitte di eccellenze sempre dentro il potere, anche quando il colore del potentato cambia. Il cardinale Ruffini era un vero reazionario, direbbero oggi i compagni di Rai Tre. Per di più aveva un carattere ferrigno, capace di mostrarsi sprezzante. Una volta ringhiò: «Tre cose, più di altre, hanno disonorato la Sicilia: la mafia, il romanzo del ”Gattopardo” e lo scrittore Danilo Dolci!». Il Ruffini democristiano era tutto diverso dallo zio cardinale. Lo ricordo alla mano, in apparenza conciliante, sempre disposto a concedere qualcosa all’avversario politico. Insomma, il tipico big doroteo della Balena Bianca. Gli allievi di Mariano Rumor, il fondatore della corrente, di solito avevano il pugno di ferro nel guanto di velluto. Tuttavia erano un fattore di equilibrio nella complessità della Dc, divisa in tante fazioni. Anche nel Dna del giovane Ruffini doveva esserci un cicinino di doroteismo. Lo fa pensare la sua rapida carriera nei media. Dopo l’esperienza di notista politico, nel novembre 1996, a soli 42 anni, diventa di colpo direttore del Giornale radio Rai. Di qui fa un balzo in avanti e viene nominato direttore della Rete Tre. Forse in virtù della militanza nella Margherita, il partito degli ex-democristiani di sinistra. Da doroteo a compagno Arrivato alla guida della rete rossa, Ruffini junior si getta tutto dall’altra parte rispetto alle tradizioni di famiglia. E comincia a condursi come un militante della sinistra più chiusa. Lo dice la storia delle rete governata da lui. Pagata da tutti noi con il canone Rai e con le tasse, diventa una proprietà privata delle tante sinistre italiane. Prima fra tutte la Quercia. Chi non si inchina a una di queste sinistre viene dichiarato inesistente. E dalle porte di Rai Tre non passa. Adesso sembra che Ruffini dovrà lasciare l’incarico. Lavoro da quasi cinquant’anni nella carta stampata e ho visto tanti cambi nelle direzioni dei giornali. Un tempo, il direttore responsabile di una testata era l’unico a poter essere licenziato. Nessuno ne faceva un dramma. Anche ai Comitati di redazione più agguerriti non restava che accettare il cambio. Oggi, invece, vedo nella Rete Tre una vera insurrezione in difesa del Ruffini direttore. Ma a insorgere non è la truppa, bensì i baroni della Tre. Per baroni intendo chi occupa una poltrona di prima fila. Volete dei nomi? Fazio, Floris, Vianello, le signore Sciarelli, Colò e Dandini, il comico Vergassola, il giallista Lucarelli, il presentatore Augias. Accanto ai baroni del video stanno sulle barricate le eccellenze del Partito democratico, a cominciare dal segretario Bersani e dalla presidente Bindi. Persino il micro-club di Libertà e Giustizia si è riunito a Genova e ha chiesto spiegazioni urgenti, in difesa della democrazia. Come utente pagante della Rai, ho un sospetto: che l’in - surrezione baronale abbia l’unico scopo di conservare il privilegio di andare in video con una trasmissione. Se Ruffini resta, tutto continuerà come sempre, madama la marchesa. Se Ruffini se ne va, il nuovo direttore di rete potrebbe dire: questo programma sì, quell’altro no. Insomma i baroni fanno la resistenza in difesa del loro potere, non per altro. No alla qualità di Minoli e Di Bella Il grottesco della faccenda è che i possibili sostituti di Ruffini non sono dei destroni agli ordini del Caimano. Uno, Giovanni Minoli, è un professionista forte, con anni di lavoro in Rai. L’altro è nientemeno che l’ex direttore del Tg3, Antonio Di Bella, avvicendato di recente da Bianca Berlinguer. Davanti ai baroni infuriati, il povero Antonio è costretto a difendersi: «Non sono l’uomo della Destra». Siamo davvero agli stracci che volano, in questo disgraziato paese. L’Italia dei potenti è diventata un immenso festino di travestiti. L’unico a mostrarsi per quello che è sembra proprio l’odiato Berlusca. Lui almeno non finge. Grida: chi non è con me, è contro di me. E pretende dai suoi parlamentari la firma su una lettera di fedeltà. Ma le sinistre che campano in Rai sono molto peggio. Insorgono in difesa delle proprie chiappe d’oro, fingendo di farlo per la democrazia, per la Costituzione, per la Resistenza antifascista, per il diritto di cantare Bella ciao. Come dobbiamo definirli, questi campioni? Mi vengono in mente soltanto tre parole: ipocriti, sepolcri imbiancati e gatte morte.