Alberto Negri, Il Sole-24 Ore 11/11/2009;, 11 novembre 2009
TALEBANI PADRONI DELLA RING ROAD
Le acque dell’Helmand e del Kabul scorrono impetuose nelle vallate della guerriglia, irrorano le colture dell’oppio, bagnano le rovine di millenarie fortificazioni e, da qualche tempo, costeggiano anche una delle più grandi centrali dell’Afghanistan. Che però è alimentata a diesel, non con l’energia idroelettrica. L’impianto deve importare gasolio per 70 milioni di dollari l’anno dal Tagikistan e viene chiamato, con una certa ironia, il "mantello invernale" di Karzai perché riscalda e illumina la parte più fortunata e ricca di Kabul: questo è stato uno degli ultimi regali che fece George Bush all’alleato afghano. Ma la luce resta spenta nell’80% dell’Afghanistan e le uniche a sorridere sono le compagnie che hanno realizzato l’impianto, la Louis Berger e una societàcinese incaricata della manutenzione. I talebani non controllano tutte le strade dell’Afghanistan ma sono abbastanza forti per impedire la ricostruzione di una vecchia e molto più economica centrale idroelettrica a Kajaki, edificata dagli americani negli anni 50.
«I collegamenti sono in mano loro», dice Wahid Mozdah, ex viceministro degli Esteri con il mullah Omar, che ora, oltre alla politologia, si dedica a dirigere una società di costruzioni. «Sai come funziona l’economia talebana?Ecco un esempio: io ricevo l’incarico di edificare una scuola nell’Helmand e devo trasportare mezzi, uomini e materiali, loro, i talebani, si prendono il 20-30%dell’appalto per garantire che i miei convogli non saranno attaccati. E la scuola, dopo qualche tempo, diventa una madrassa, un istituto coranico».
Con Wahid imbocchiamo a Sud la strada per Kandahar: è la Ring Road, un anello di tremila chilometri che si ricongiunge alla capitale passando, in senso antiorario, da Mazar-i-Sharif ed Herat: «Fino a questo punto- avverte Wahid - siamo sicuri - ma dopo Ghazni può succedere di tutto». I talebani corrono veloci e indisturbati sul nastro d’asfalto che doveva rappresentare il fiore all’occhiello della ricostruzione, l’arteriavitale per avvicinare a Kabul etnie prigioniere di gole inaccessibili e ferree tradizioni tribali: il 60% degli afghani vive nel raggio di 50 chilometri dal grande anello.
La Ring Road è una delle speranze deluse di un paese dove dieci milioni campano con meno di un dollaro al giorno. La strada era stata costruita dagli americani e dai sovietici negli anni 60, una curiosa cooperazione in piena guerra fredda voluta dalla monarchia di Zahir Shah nel tentativo, poi naufragato,di mantenere l’equidistanza tra i blocchi: il suo percorso circolare è un viaggio quasi metaforico nella storia dell’Afghanistan, dei suoi problemi, diventati da qualche tempo anche i nostri.
Quando cade il regime dei talebani nel 2001 l’Afghanistan ha meno di 60 chilometri di strade asfaltate.
«Già questo ci dice che qui, sin dall’inizio,non si poteva parlare di ricostruzione ma si partiva quasi da zero nell’edificazione di un intero stato», sottolinea Fernando Gentilini, il diplomatico italiano capo della missione civile della Nato. Ma in un primo momento gli americani si rifiutano di rimettere in piedi la Ring Road: l’agenzia di cooperazione UsAid dice che non si occupa di lavori stradali, la Cia ostacola il progetto. Il via libera viene direttamente da Bush nel novembre del 2002 e l’appalto è assegnato all’onnipresente Louis Berger per 250 milioni di dollari, un onere da dividere tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Giappone.
Ma i costi iniziali lievitano e i tempi si allungano per gli attacchi dei talebani. Cominciano le prime defezioni. I sauditi, forse consigliati dagli stessi talebani, si sfilano da tutta l’operazione. «L’Arabia Saudita è uno dei paesi che si offrono come mediatori tra Karzai, gli americani e la dirigenza talebana: Riad, insieme agli Emirati Arabi, è tra i finanziatori della guerriglia», dice Wahid Mozdah. «Gli altri sostenitori sono i pakistani e aiuti consistenti arrivano dal traffico d’armi con l’Iran».
Abbandonati dai sauditi, gli americani riprendono i lavori, questa volta però senza i giapponesi, che si rifiutano di cominciare perché le condizioni di sicurezza peggiorano. Ma alla fine del 2003, con uno slancio notevole, viene completato il tratto KabulKandahar. Il costo però è astronomico per gli standard afghani: 190 milioni di dollari, un milione a chilometro, mentre i prezzi locali si aggirano intorno ai 200mila dollari. La Louis Berger, che ha capito l’antifona,per risparmiare toglie uno strato d’asfalto e riduce lo spessore del manto stradale del 20% per cento. Più o meno la tangente che riscuotono i talebani. Il Grande anello, che da qualche tempo in certi punti è tornato un groviera, raggiunge Herat ma ormai i padroni della strada sono i gruppi criminali e la guerriglia: «Talibans on the road again», direbbe un vecchio refrain dei Canned Heat.
«Due mesi fa-racconta l’uomo d’affari Farid Amarkhel - dopo le elezioni ho preso il pullman per ritirare a Herat un’auto importata dall’Iran: a Ghazni i talebani ci hanno fatto scendere e abbiamo dovuto alzare alzare le mani in alto a palme aperte per mostrare se le dita erano state marchiate dall’inchiostro indelebile dei seggi ». Farid, 39 anni, conosce bene questa strada: è un piccolo importatoreche ha rinunciato a far viaggiare i suoi camion, regolarmente rapinati. Con una squadra di autisti va a prendersi direttamente le Toyota Corolla a Herat e paga la dogana al "governo", che non sempre si chiama Karzai. «Una parte minima dei soldi va a Kabul, un’altra nelle mani della polizia locale e di Ismail Khan, il vero padrone della provincia».
I signori della guerra non rinunciano a intascare i dazi doganali. «Soltanto gli introiti di questa attività sono stimati intorno ai 500 milioni di dollari l’anno:i warlord dispongono di entrate di gran lunga superiori al bilancio dello stato», dice Ashraf Ghani, ex ministro delle Finanze, candidato alle ultime presidenziali. E siccome personaggi come Ismail Khan, Rashid Dostum e il vicepresidente Fahim, controllano anche le importazioni di carburante guadagnano pure sulla nuova centrale a gasolio, con costi insopportabili per le finanze afghane.
Al rientro a Kabul Wahid Mozdah passa davanti alla Baraki Station dove partono i bus per Kandahar. La stazione è affollata ma soltanto dai più poveri; chi non vuole rischiarel’incontro con i talebani, e se lo può permettere, sale su un affollatissimo volo di linee aeree con sigle esotiche, come Pam Air, Kam Air, Safi. Sulla Ring Road il tour afghano si affida a un fatalistico biglietto da dieci dollari con stampato «inshallah»: questa è l’anima di un popolo che, come dice il celebre scrittore Khaled Hosseini, non ha mai smesso di soffrire, ma anche non ha mai smesso di sperare.