varie, 11 novembre 2009
DELITTO DI VIA POMA, SIMONETTA CESARONI
(schedone con pezzi del Messaggero) -
Busco, quell’alibi cambiato due volte: «Ero con Simone. No, ero a casa» -
Via Poma Ultimo Atto si aggroviglia attorno alla storia di un Alibi prima non richiesto, poi richiesto, quindi smentito e infine fornito di nuovo, ma ormai sulla base di ricordi così lontani da risultare, almeno agli occhi degli investigatori, poco convincente.
E’ l’alibi principe, se vogliamo essere onesti: dov’era Raniero Busco quando Simonetta fu uccisa? Dov’era quest’uomo, che ormai ha superato la quarantina e ha messo su famiglia, nel pomeriggio del 7 agosto 1990? Ma nessuno sentì la necessità di chiederglielo, come si deduce dai verbali di ben due deposizioni, la prima l’8 agosto alle 6 e mezza del mattino -quindi a neanche ventiquatt’ore dal delitto- e la seconda il 10 settembre di quelle stesso anno «alle ore 11,25», in tutte e due le occasioni davanti agli uomini della Squadra Mobile di Roma, V sezione.
L’8 agosto gli fecero un sacco di domande sullo stato della sua relazione con Simonetta e lui si dilungò con tutta una serie di considerazioni che avrebbero fatto la storia dei talk show televisivi. tipo quella: «...Voglio precisare che il nostro rapporto sentimentale non era equilibrato, nel senso che io nutrivo un semplice affetto nei suoi confronti, mentre lei...».
Un mese dopo, Raniero Busco sfiorò appena la questione cruciale che poi l’avrebbe portato a processo, raccontando che la sera del 6 agosto, il giorno prima dell’omicidio, «ho lavorato fino alle 7 del giorno dopo», come operaio all’Alitalia, «dopodiche sono andato a casa dove sono rimasto a dormire fino all’ora di pranzo». Ora voi vi aspettereste che qualcuno gli abbia chiesto: «E dopo l’ora di pranzo che hai fatto? Quali sono stati i tuoi movimenti durante quel pomeriggio?». Niente, la deposizione fila via liscia come l’olio.
Prima di aprire lo scenario che riporta Raniero Busco alla ribalta, bisogna solo contestualizzare queste due deposizioni: probabilmente nessuno gli chiese un alibi perché fra gli investigatori, in quei giorni, ben altre erano le convizioni, ben altre piste sembravano degne di essere seguite, perché Raniero Busco a tutti sembrava semplicemente un innocente a tutto tondo.
Debbono passare non cinque, non dieci, ma addirittura sedici anni, perché al termine di un carosello estenuante di indagini fallite, si torni a parlare di Raniero Busco. A quel punto l’alibi glielo chiedono eccome. E lui tira in ballo un suo amico, un Simone Palombi che il pomeriggio del 7 agosto 1990 dovrebbe averlo trascorso tutto con lui a riparare un motorino. Mai ricordo risultò così fragile.
Bastò ripescare fra le carte un’altra delle deposizioni rese quell’8 di agosto, «alle ore 17,00», quindi neanche dodici ore dopo il primo verbale di Busco, per scoprire che Simone Palombi era stato da tutt’altra parte: «Unitamente ai miei genitori mi sono recato a Frosinjone in quanto mia zia Palombi Giselda stava male. Verso le ore 19,00, sempre insieme ai miei genitori, ho fatto rientro a casa. Verso le 19.45 sono uscito dalla mia abitazione e mi sono recato al bar dei portici ove ho incontrato il mio amico Busco Raniero insieme ad altri amici comuni». Occhio all’orario, 19,45: a quel punto Busco poteva anche essere andato in via Poma e tornato.
La frittata era fatta. A nulla in questi tre anni è valso che Raniero aggiustasse il tiro. Intervista con Oggi di qualche mese fa: «Io era a casa quel pomeriggio, ho sistemato sulla rampa la Panda azzurra di mio fratello Paolo per ripararla. Alcune vicine lo ricordano. C’era anche mia madre...Ho parlato del motorino di Simone solo perché non riuscivo a ricordarmi, a distanza di tanto tempo, cosa avessi riparato quel pomeriggio».
Nella stessa intervista, Raniero Busco dice dell’altro. Sostiene che a botta calda lui fornì l’alibi giusto, ma che non c’è traccia nel verbale -come abbiamo visto all’inizio- di quelle sue dichiarazioni. «Non ricordavo più... ho chiesto di cercare nelle mia deposizione di allora. Ma nessuno aveva trascritto quella risposta, quell’alibi».
(Nino Cirillo, Il Messaggero 11/11/09)
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«Credo in lui, non smetterò mai di farlo: è innocente» -
«La nostra forza è quella dell’innocenza. Mio marito non c’entra niente con il delitto di via Poma». Roberta Milletari, lo ripete più volte, non ha alcun dubbio sull’innocenza del marito, gli è sempre stata accanto e ora più che mai non lo abbandonerà. «Credo in lui, e non smetterò mai di farlo. Sono serena, perché è innocente. Delusa però da tutto questo. Aspetteremo il 3 febbraio».
Raniero Busco, oggi 44enne, è sposato con Roberta da undici anni, ha due figli, fa il meccanico per Adr a Fiumicino, e una vita serena fino a qualche anno fa (quando fu iscritto nel registro degli indagati). Busco è l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, uccisa con 29 coltellate nell’ufficio dove lavorava. Il 3 febbraio si troverà davanti alla III Corte d’Assise di Roma a rispondere di omicidio volontario, e la storia di questo efferato omicidio arriverà per la prima volta in un’aula giudiziaria.
«Ha già sofferto molto per la morte di Simonetta, ma oggi quel ragazzo di vent’anni fa non c’è più - aggiunge senza esitazione la moglie - Ora c’è un uomo che si è ricostruito una vita, una famiglia e che vuole andare avanti per la sua strada, come tutte le persone normali». Raniero Busco finì al centro dell’inchiesta a 17 anni dal delitto. Quando fu scoperta una traccia della sua saliva sul corpetto che la ragazza indossava quando fu uccisa. Sul suo alibi (ha sempre sostenuto che al momento del delitto era con un amico, ma questi negò), le perplessità della procura di Roma, anche se, per quell’omicidio tanti personaggi nel tempo sono finiti nel mirino degli inquirenti senza che mai si arrivasse a un processo. Ora è la famiglia Busco a dover affrontare il giudizio del Tribunale.
Signora Milletari come ha reagito alla notizia del rinvio a giudizio di suo marito?
«La realtà che supera la fantasia, non la trovi nemmeno nei film. Non credevo che potesse succedere. Non ci credevo, e mi sembra ancora impossibile. Andremo comunque avanti per la nostra strada».
Come affronterete un periodo che si annuncia estremamente difficile per la sua famiglia?
«Non abbiamo altra forza, né economica per affrontare tutto questo, né di altro genere. Quello che abbiamo è l’innocenza di mio marito, e basta. Ho sempre detto a Raniero che nella sfortuna, la nostra unica fortuna, è quella di vivere questo brutto momento nel 2009, se fosse accaduto trecento anni fa, gli avevano già staccato la testa».
Non crede che sia giusto fare chiarezza in un aula di tribunale, anche se a distanza di vent’anni?
«Non si tiene in considerazione che si parla della vita della gente, gente normale, anzi normalissima. Questa volta è successo a noi domani a chi? Ripeto, come ho già detto, dicono sempre che è meglio un colpevole a piede libero che un innocente in galera ma a quanto pare non corrisponde al vero, oppure ci sono le eccezioni. Quello che vogliono è un colpevole a tutti i costi. Gli italiani dovrebbero essere davvero preoccupati per la giustizia se è vero che mandano una persona a processo per indizi così labili».
Lo ha detto ai suoi figli?
«No, ancora non gli abbiamo raccontato niente. Sono troppo piccoli. Hanno sette anni e a questa età i bambini sono spugne, assorbono tutto. Per fortuna che in casa c’è armonia, malgrado quello che stiamo passando. Li dobbiamo tutelare al massimo, sicuramente lo faremo gli parleremo insieme».
La vicenda vi sta creando problemi nei rapporto sociali?
«La gente si è immedesimata in noi, ci sostiene con tutte le forze. La cosa positiva, e ne sono felice, è che non tutti credono a quello che viene raccontato come la verità assoluta. La solidarietà di tanta gente anche persone che non ci conoscono direttamente ci ripaga di quello che stiamo passando».
Quando ha conosciuto suo marito?
«Ho conosciuto Raniero all’inizio del ”91, mi sono innamorata di lui perché era ed è una persona speciale, abbiamo una bellissima famiglia. Avevamo una vita serena fino a quando c’è piombata sulla testa questa accusa. Ho sempre avuto fiducia in mio marito, sempre. Mai una volta un dubbio, mai. Questa è una storia piena di contraddizioni dall’inizio».
(Elena Panarella, Il Messaggero 11/11/09)
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SCHEDA:
7 agosto 1990 - In via Poma, nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventù, viene uccisa Simonetta Cesaroni. Il cadavere viene trovato per l’insistenza della sorella Paola, preoccupata per il suo ritardo. Simonetta è nuda, ma non ha subito violenza carnale. Il cadavere è stato trafitto con 29 colpi di tagliacarte.
8 ottobre 1990 - Consegnati i risultati dell’autopsia. Il corpo ha una lesione ad un’arcata sopracciliare e diverse ecchimosi. La morte, avvenuta tra le 18 e le 18,30, è dovuta alle coltellate, vibrate sul corpo senza vestiti. Scattano le indagini.
30 gennaio 1995 - Escono di scena definitivamente tutti gli indagati. La Cassazione conferma infatti la decisione della Corte d’appello di non rinviare a giudizio gli indagati.
20 agosto 2005 - Claudio Cesaroni, padre di Simonetta, muore per una pancreatite.
12 gennaio 2007 - Il Messaggero, rivela le analisi dei Ris di Parma che avrebbero trovato tracce del Dna di un uomo sugli indumenti di Simonetta.
6 settembre 2007 - Busco è iscritto dalla procura di Roma sul registro degli indagati per omicidio volontario.
28 maggio 2009 - La procura di Roma chiede il rinvio a giudizio di Raniero Busco.
9 novembre 2009 - L’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, è rinviato a giudizio per omicidio volontario. Il processo comincerà il 3 febbraio prossimo davanti ai giudici della Terza corte d’Assise. A disporre il processo è il Gup Maddalena Cipriani.
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Anatomia di un delitto tra prove e misteri -
C’è uno strofinaccio di troppo nel teorema accusatorio che proietta Raniero Busco sul banco degli imputati per il delitto di via Poma. E un secchio di quelli utilizzati per le pulizie. E ancora, ci sono chili di carte che raccontano come fu trovato il corpo di Simonetta e qual’era il suo stato d’animo al momento del ceffone che la stordì, consegnandola alla furia del suo assassino.
Perché nel processo che comincerà il prossimo 3 febbraio in corte d’Assise, l’accusa dovrà fare in conti anche e soprattutto con le prove raccolte dagli altri magistrati che si sono avvicendati al timone di questa indagine. E che hanno disegnato un identikit del killer che non assomiglia al profilo dell’ex fidanzato di Morena. Ma andiamo con ordine.
A cominciare dagli indizi che hanno convinto il pubblico ministero odierno a bussare alla porta di Raniero Busco. Sono fondamentalmente quattro: una traccia di saliva sul reggiseno che indossava Simonetta; una somiglianza dell’arcata dentaria di Busco con l’impronta lasciata sul seno sinistro della ragazza; una sua contraddizione nell’indicare dove fosse il pomeriggio del delitto; una compatibilità del suo Dna con una delle tracce trovate nell’appartamento. Quattro indizi solidi. Che però non sembrano acquisire mai la valenza di ”prova” processuale se confrontati con le verità investigative che detective del calibro di Nicola Cavaliere e Antonio Del Greco misero nero sui bianco in quella calda estate del Novanta. A cominciare dalla relazione di servizio che descrisse la scena del crimine: la camera in cui si verificò l’omicidio venne ripulita accuratamente. Simonetta morì praticamente dissanguata e per terra era tutto asciutto. Almeno tre litri di sangue, disse l’autopsia, furono raccolti e eliminati. Sparirono anche i vestiti che l’assassino strappò via dal corpo della ragazza: una giacca bianca a maniche corte, stile Marina, acquistata per corrispondenza sul catalogo Postalmarket, e un pantacollant blu, descritto come molto provocante.
Il motivo di una condotta del genere, spiegarono gli investigatori, poteva essere uno solo: l’assassino aveva intenzione, con il favore della notte, di far sparire il cadavere dall’ufficio degli Ostelli della Gioventù. Voleva allontanare le indagini, i sospetti, le curiosità da via Poma. Una preoccupazione che poteva avere solo qualcuno che abitava o che lavorava in quel palazzo. Non certo Raniero Busco, che veniva dall’altra parte della città.
C’è la saliva sul reggiseno, c’è il morso. Ma la sera prima del delitto Simonetta vide Raniero: forse si scambiarono effusioni. Sicuramente due sere prima erano a casa di Annarita Testa, un’amica di lei, che raccontò: «In casa ci siamo appartate ognuno con il suo fidanzato e Simonetta è andata in camera mia, dove c’è la moquette...». E la traccia di sangue, che secondo l’accusa Busco potrebbe aver lasciato dopo essersi ferito nella collutazione, è solo ”compatibile”. Che è un concetto vago, quasi quanto quello del colore degli occhi. E poi la perizia sul corpo disse che non c’erano segni di difesa passiva sulle braccia, sulle gambe o sulle mani di Simonetta. Sotto le sue unghie non c’erano tracce di capelli, di peli, di pelle, che sono caratteristici del tentativo di una lotta estrema per la sopravvivenza. Significa che non ci fu colluttazione: chi l’ha uccise, l’ha colse di sorpresa, a freddo. E ancora: Raniero Busco non aveva movente. Quel sette agosto voleva solo partire per le vacanze con i suoi amici, senza di lei, come aveva fatto l’estate precedente, perchè «il nostro rapporto sentimentale non era equilibrato, nel senso che io nutrivo un semplice affetto nei suoi confronti, mentre lei mi amava strenuamente ed a volte mi faceva capire che da me pretendeva un maggior coinvolgimento», spiegò il ragazzo agli inquirenti. Che raccolsero infinite conferme nella loro comitiva di amici: era Simonetta a inseguire Raniero; lui voleva sottrarsi a quelle richieste di attenzioni e di presenza costante. E poi: Simonetta fu oggetto di una violenza inaudita: 29 coltellate, molte delle quali nella zona del pube, e poi il morso sul seno, il parziale denudamento. Che quella non fu una messinscena lo conferma il fatto che il killer voleva nascondere il corpo, tanto da ripulire la stanza. Quindi chi la uccise fu colto da un raptus sessuale vero. E Raniero Busco non era esattamente il più sospettabile di un impulso del genere: poteva avere Simonetta quando voleva.
E’ vero però che quando gli chiesero un alibi, lui rispose che era con l’amico Simone Palombi. Che invece era altrove. Ma glielo domandarono sedici anni dopo il delitto, quando il 7 agosto 1990 era ormai un giorno lontanissimo nel tempo.
(Massimo Martinelli, Il Messaggero 11/11/09)