Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  novembre 10 Martedì calendario

PER SALVARE VENEZIA DATE LA CITTADINANZA ANCHE AGLI STUDENTI


Suo padre Giuseppe volle chiamarlo come il suo bar. Caso, forse, unico al mondo. E solo perchè era nell’anno XI dell’era fascista, "Harry" non si poteva e si riparò così su "Arrigo". La sua vita è in gran parte arrotolata in quel locale quattro metri e mezzo per nove. Harry’s Bar. Hemingway, mondanità, alta cucina, altissima società. Accademia di Bellini e del Carpaccio, che non sono pittori ma due capolavori del gusto - il cocktail di prosecco più succo di pesca e l’arcinoto piatto a base di carne cruda - inventati proprio qui. La leggenda irrora i suoi libri: spassosi vizi di penna su quella piccola grande gabbia ereditata. Lui, "Prigioniero di una Stanza a Venezia", come recita il suo ultimo libro edito da Feltrinelli. Arrigo Cipriani. Veneziano stanziale di Dorsoduro. Ristoratore tra i più celebri.
Tutto cominciò con Mr. Pickering. Harry Pickering. Tranquillo ragazzo americano, ch’era giunto a Venezia al seguito di una zia per rimediare a un principio di alcolismo, ed era finito ad ammazzare la noia bevendo cocktail al Bar Europa. Dove a servirlo c’era Giuseppe Cipriani, intraprendente cameriere veronese, poi papà di Arrgio grande alchimista di gioie da bancone. Un giorno Mr. Pickering chiese a Cipriani un pò di quattrini; li ebbe; sparì. Tornò qualche mese dopo, e a Cipriani disse: «Ecco i tuoi soldi. E ci aggiungo anche questi altri. Per aprire un bar in società». In un magazzino di corde alla fine di una calle che finiva sull’acqua, anno 1931, nacque l’Harry Bar. Pochi anni dopo Mr. Pickering vendette la propria quota a Giuseppe: rimase il suo nome e per lunghi anni la fama di miglior cliente.
Cipriani oggi è un un marchio mondiale. Grazie soprattutto allo sbarco in America. L’avventura oltreoceano è cominciata nel 1985 con Giuseppe Cipriani jr, e da allora ha fruttato un gran numero di ristoranti, un paio di lussuosissimi "residences", dollari nell’ordine dei sei zeri, perfino un aggettivo: "ciprianesque". E dei guai con la giustizia americana. Che non hanno lasciato affatto le cronache, se solo fino a qualche giorno fa il procuratore distrettuale di Manhattan, Robert Morgenthau, minacciava: «Se Cipriani jr. torna in America lo arrestiamo per il fisco». Arrigo rimanda al mittente e al Riformista dice: «In America ci ritorneremo eccome, è lì che abbiamo il grosso della nostra attività... Abbiamo patteggiato e stiamo pagando 10 milioni di dollari tra multe e imposte, dopo aver ammesso la nostra colpa, anche se, più che nostra, la colpa è degli avvocati che non ci hanno detto di quella legge, valida solo nello Stato di New York, che non consente di detrarre le royalties se destinate a Paesi dove le tasse sono inferiori: nel nostro caso, il Lussemburgo, in cui ha sede la holding. Non lo sapevamo, abbiamo sbagliato ma adesso davvero basta... Sempre nel mirino, nemmeno fossimo Berlusconi ... ».
New York, una giungla. Spietata. Fantastica. In fondo cos’è. se non una Venezia tanto più grande? «I due unici luoghi al mondo a non essere città ma sensazioni. Se le misuri dal punto di vista delle umane cose sono uguali se non addirittura identiche», ha scritto Cipriani. Che sulla sua città è intervenuto dalle colonne del Corriere della sera del 24 ottobre scorso, immaginandosi novantenne nel 2022: «Di veneziani ne saremo rimasti in dieci». La Serenissima si spopola. «Ecco perché bisogna intervenire subito - dice al Riformista - Cominciando per esempio a trasformare gli studenti in cittadini. Dando loro non stanze, ma case. Immaginando sgravi fiscali per impiantare nuove attività». E di Cacciari cosa pensa? «E’ stato un buon sindaco, molto meglio lui dei suoi assessori, e se a qualcuno sembra che abbia fatto poco, va ricordato che a Venezia i tempi non sono le ore, ma l’andare e venire delle marce: qui tutto è più lento, eccetto il pensiero. Certo, tra qualche mese, ci toccherà cambiare parecchio, tra Comune e Regione. Allo stato mi sembra che per fare il sindaco sia Brunetta l’unico ad avere i numeri». E se si candidasse Cipriani? «Per carità. Una volta, senza troppa convinzione, mi presentai in una lista della Lega: presi tre voti ... ».
Proprio la Lega punta alla poltrona regionale di Giancarlo Galan. «Non mi scandalizza. La Lega parla veneto, ha le orecchie sul territorio, le città che amministra sono tenute bene, vada a Treviso e vedrà che gioiello... Si fa il nome di Zaia: mi sembra un bravo ministro. In ogni caso, chiunque ci sarà, non pensi alle balle su Venezia. Tipo che il nostro problema è l’acqua alta». Cipriani le dedica parecchie pagine in "Prigioniero di una Stanza a Venezia", a partire da quel che accadde il 4 novembre 1966. «L’alluvione». Errore: «Non fu alluvione, ma acqua alta, anzi altissima. C’è sempre stata e nei secoli ha contribuito a tener pulita la città e ad ammazzare i topi». L’acqua riempì anche l’Harry’s Bar: «Ero in piedi davanti al banco del bar, affascinato dal nuovo aspetto della mia prigione. Avevo anche bisogno di fare la pipì. Così la feci in mezzo alla sala. Una specie di battesimo». E ancora: «I grandi danni furono causati dagli uomini, non dall’acqua. Moltissimi negozi furono distrutti dai dementi che correvano a tutta velocità con i motoscafi per le calli. E la città rimase senza energia perché i geni dell’azienda elettrica avevano piazzato i trasformatori sotto il livello della marea». Altro che Mose. «Leggerete che piazza San Marco è allagata novanta giorni all’anno. Non è vero. Novanta ore al massimo».
«E’ curioso che io il mondo l’abbia conosciuto non perché sia andato a visitarlo di persona, ma perché lui stesso è venuto a trovarmi come un buon amico - e qualche volta anche come un nemico», scrive Cipriani. E davvero è impressionante la galleria di
figure e figurine transitate nella Stanza. Hemingway, che a un tavolino riservato scriveva il suo romanzo veneziano "Di là dal fiume e tra gli alberi" («Poi si trovò a spalancare la porta dell’Harry’s Bar ed entrò e ce l’aveva fatta di nuovo e si sentì a posto», si legge al capitolo IX), lui convinto che il Gordon’s Gin fosse il miglior antisettico del mondo. E quella «squadra di pittori che in una notte, lasciati soli con le bottiglie del bar in vista, si sono ubriacati e hanno fatto cinque milioni di danni». E i sette "fondatori" che arrivavano alle undici in punto: «Li chiamavamo così, perché giuravano di essere stati presenti il giorno dell’apertura della Stanza». E lady Diana Cooper, «una tra le donne più belle del mondo», che, guardando con commiserazione le nipoti in visita alla toilette, confessava: «Cipriani, quando ero giovane non facevo mai la pipì». E la contessa Volpi, «l’inganno dei soldi», «acida e cattiva, una gran dama». E Gianni Agnelli, «un vero re», che ogni tanto telefonava: «"Cavo Cipviani, scusi se la distuvbo... E come sta sua zia?". "Benissimo, grazie, avvocato". Magari era morta da un anno, ma chi avrebbe avuto il coraggio di dargli un così grande dolore?». Perfino le Brigate Rosse: «Ricevetti dal carcere di Lodi una bellissima lettera nella quale alcuni reclusi per terrorismo mi inviavano i loro saluti ricordando con nostalgia il risotto alla primavera e i nostri dessert», scriveva Cipriani nella "Leggenda dell’Harry’s Bar".
«Ma di una cosa sono certo - è la conclusione del paròn prigioniero, che all’ultima pagina consegna la ricetta del suo dry Martini - I milioni di pensieri di questi cinquantacinque anni, i miei e quelli degli altri, rimarranno per sempre nella Stanza sotto fonna di una lievissima corrente d’aria che si insinuerà tra la tappezzeria e i mattoni invisibili dei muri. Tutti in buona compagnia. Mi dispiacerà un poco non esserci. Sarà il prezzo da pagare per la libertà e non potrò più portare neanche i miei vecchi pantaloni alla zuava. Che mi venga un colpo».