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 2009  novembre 09 Lunedì calendario

GOOGLE E LE TASSE. I FURBETTI DI DUBLINO NON CLICCANO SUL FISCO


Il 19 ottobre, davanti a 2.500 Googlers convocati nella cittadina irlandese di Killarney da tutt’Euro­pa, Medio Oriente e Africa, Eric Schmidt ha illustrato i formida­bili risultati di Google: nei pri­mi 9 mesi del 2009, alla faccia della crisi, i ricavi aumentano da 16 a 17 miliardi di dollari e gli utili da 3,8 a 4,5 miliardi. Il chief executive officer era venu­to dal quartier generale di Mountain View, California, pi­lotando per larghi tratti il suo Gulfstream.

Segreti

In tempi di disoccupazione, ha promesso assunzioni nella fi­liale di Dublino, la maggiore fuo­ri dagli Usa, ma ha taciuto sulla performance della Google Ire­land Holdings. Eppure, i ricavi di Google all’estero raggiungo­no il 53% del consolidato. E il comparto irlandese è tra i più brillanti. Che la grande Google, campione di libertà che diffon­de l’informazione gratis e senza limiti, abbia a sua volta qualco­sa da nascondere?
La risposta è: forse sì. Google si è conquistata la supremazia con la tecnologia e una parsimo­nia da old economy , al punto da non distribuire dividendi pur avendo 15 miliardi di liquidità, ma è anche sospettata di abusa­re della posizione dominante e di non spiegare bene la sua poli­tica fiscale. Insomma, Schmidt e i presidenti-fondatori, Sergey Brin e Larry Page, sono tre geni, ma anche tre furbetti: i geni fur­betti di Mountain View. Basta ra­gionare su quanto si vede in Ita­lia e, appunto, in Irlanda.
Nel Belpaese, su Google inda­ga l’Antitrust. Gli editori lamen­tano una distorsione della con­correnza del mercato della pub­blicità online a opera di Google News. Il portale segnala le pri­me righe di articoli di giornali e agenzie ai quali l’internauta può poi accedere sui siti che li pub­blicano, ma senza passare dalle homepage dove si concentrano i banner pubblicitari. Google News non paga nulla a chi pro­duce le notizie sopportandone i costi e non dà garanzie sul loro utilizzo. Naturalmente, gli edito­ri potrebbero impedire a Google News l’accesso ai propri siti, ma siccome l’algoritmo di Google è unico, escludendo Google News farebbero uscire i propri siti dal grande motore di ricerca ri­schiando così di perdere troppo traffico.
Google sta così diventando una specie di infrastruttura intel­ligente nell’infrastruttura di ba­se delle telecomunicazioni. E per la sua natura globale pone problemi nuovi ai regolatori na­zionali e comunitari.

Il Fisco

In Italia, la spesa pubblicitaria globale è in forte calo da almeno due anni, ma sull’online cresce velocemente. Secondo le rileva­zioni più prudenti, nel 2007 la pubblicità sulla Rete era sotto i 300 milioni di euro, a fine 2009 supererà i 420. Secondo l’Autori­tà per le Comunicazioni sarebbe addirittura a 560 milioni. Ebbe­ne, all’interno della pubblicità in­ternettiana quasi il 60% si con­centra nell’attività di search , ri­cerca di immagini e documenti con parole chiave. In Italia, so­stiene l’Antitrust, il 90% del sear­ch passa per Google. Dunque, i ricavi stimabili per Google oscil­lano tra i 220 e i 300 milioni, e tendono ad aumentare. Se vi ca­ricassimo la quota parte dei costi del gruppo, avremmo un utile prima delle imposte di 75-100 milioni, che darebbe un gettito di 20-30 milioni al Fisco italiano.
Ma quanto fattura Google Ita­lia? Meno di 20 milioni. La diffe­renza tra ricavi reali e ricavi uffi­cializzati in loco si spiega con il fatto che i contratti si stipulano online con la Google Ireland Li­mited di Dublino. Che è control­lata dalla Holdings, altra irlande­se. Ora Dublino è una città avan­zata, ma è anche un porto delle nebbie, rifugio di quanti voglio­no approfittare delle basse ali­quote fiscali senza darne conto.
A metà ottobre 2009 non era ancora disponibile al pubblico il bilancio 2008 della Limited. Ep­pure, la Limited è una società con 1.500 addetti e un fatturato che già nel 2007 era arrivato a 5,3 miliardi di euro, più del 40% del totale di gruppo.
Essendo irlandese, la Limited paga solo il 12,5%, poco più di un terzo delle aliquote Usa e ita­liana. Ma di fatto la Limited paga solo 2-3 milioni di imposte per­ché l’imponibile viene azzerato con le royalty . La Limited le ver­sa alla controllante diretta, la Holdings, in misura che resta mi­steriosa perché la Limited è esen­tata dal dare informazioni delle operazioni con parti correlate co­m’è la Holdings; la quale, a sua volta, non è tenuta a dare rendi­conti pubblici perché è stata tra­sformata nel 2005 in limited liabi­lity company , società a responsa­bilità limitata.
Nel 2004, quando i ricavi glo­bali di Google erano un settimo di quelli del 2008, la Holdings aveva ricevuto dalla Limited 330 milioni di euro come royalty e aveva generato un risparmio fi­scale di 131 milioni. La legge ir­landese esenta dalle imposte le royalty se riferite a brevetti e mar­chi realizzati nell’isola. Per me­moria, diremo che la Limited spende per ricerca a sviluppo 18,5 milioni, mentre la casa ma­dre americana vi dedica 2,8 mi­liardi, un robustissimo 12,9% del fatturato.
Ma la questione fiscale non de­riva solo dal desiderio di guada­gnare di più. Fosse solo così, Go­ogle non sarebbe diversa da tan­te altre multinazionali che, a co­minciare dall’arcirivale Micro­soft, cercano di basare in paradi­si fiscali le proprietà intellettuali (marchi, brevetti) e certi servizi così da creare maggiori costi de­ducibili nei Paesi a maggior tas­sazione dove, però, si fa il fattura­to vero. Il caso Google è partico­lare perché il business online non si compie entro i confini sta­tuali, sui quali si fonda il diritto dei governi a pretendere impo­ste, ma fuori, nello spazio extra­territoriale del web. E al tempo stesso, questo business non po­trebbe farsi se non ci fosse un’Ita­lia che, pagando imposte, lavora e domanda inserzioni pubblicita­rie online a Dublino. Il modello Google, nel quale sete di profitto e rivoluzione tecnologica si rin­corrono senza fine, apre una fal­la che oggi è ancora piccola, ma domani potrebbe diventare enor­me per la sovranità degli Stati.