Paolo Brusorio, La stampa 9/11/2009, 9 novembre 2009
ALL BLACKS, NON E’ TUTTO NERO QUELLO CHE LUCCICA
Sono arrivati ieri sera. Trentatré armadi tutti neri, si prenderanno il cuore di Milano per un settimana. Hanno scelto l’Arena per addestrarsi, San Siro per combattere. «Batti le mani contro le cosce/Sbuffa col petto/Piega le ginocchia/Lascia che i fianchi li seguano/Sbatti i piedi più forte che puoi/ la morte, è la morte! la vita»: in lingua maori fa più colpo e lo stadio se ne accorgerà sabato prossimo due minuti prima delle quindici, quando gli All Blacks spareranno in faccia all’Italia la loro storia. Sempre che gli Azzurri decidano di guardarli e di non dare invece di spalle come fecero nel 2007 a Marsiglia (match che aprì i mondiali) prima di venire regolarmente calpestati, allora fu 76-14, dalla nazionale di rugby più famosa nel mondo.
L’haka è danza e simbolo, è coraggio e radici. la sigla iniziale più conosciuta al mondo di uno spettacolo che gli All Blacks portano in tournèe riempiendo stadi come fossero rockstar. 73.000 persone sabato al Millenium di Cardiff (Galles stirato 19-12 non senza sofferenze), 76.000 sabato a San Siro, tempio per un pomeriggio prestato a un’altra religione. All Blacks, basta la parola e poco importa a chi andrà allo stadio che con l’Italia non ci sarà match, che finirà tanti a pochi e magari anche subito. Ma il punto non è questo, si va a vedere i Tutti Neri come un fenomeno, un’apparizione. Per dire io c’ero.
il pulsante che fa partire la macchina. All Blacks, il marchio più conosciuto al mondo, alla pari di Real Madrid e Manchester United, New York Yankees e Ferrari. L’Adidas gli ha messo mani e maglie addosso, contratto eterno che fa vendere al brand con tre strisce più divise del Real Madrid. Una spara soldi talmente perfetta da poter prescindere dai risultati. Come Madonna: stellare nel marketing di se stessa a ogni brano, anche se l’ultimo disco azzeccato è sempre il penultimo o il prossimo. Così gli All Blacks: che non vincono il mondiale dal 1987, era la prima edizione e il loro successo fu l’imprimatur che il mondo ovale aspettava; che nell’ultimo Tri Nations (sfida tra chi sta nella parte capovolta del mondo) hanno battuto l’Australia ma si sono accodati al Sud Africa. Poi, certo, le campagne d’Europa sono sempre molto floride, dal 2004 (anno in cui Graham Henry ne prese la guida) hanno un record di 16-1. Non una sconfitta qualsiasi, però. «Blemish», la macchia: così sul sito ufficiale della federazione kiwi resta impresso quel giorno. 20-18 contro la Francia, coppa del mondo 2007: tutti neri quel giorno a Cardiff. Di vergogna. Da allora, hanno in testa una sola cosa: rifarsi nel 2011. Ma non sarà la stesso: si giocherà proprio in Nuova Zelanda e, dicono laggiù i loggionisti dell’ovale, anche l’eventuale vittoria sarebbe sminuente in valore assoluto. Sud Africa, campione in carica, Inghilterra e Australia hanno alzato la Webb Ellis cup sul suolo straniero. A questi uomini non piacciono le imprese facili e vincere i mondiali in casa, per loro, ne avrebbe molto le sembianze.
In bilico se far girare i soldi o il pallone, i neozelandesi tengono in caldo la prima opzione dopo aver tirato due somme: ogni stagione alla federazione entrano 51,2 milioni tra ingaggi, diritti tv (nei cassetti di News Limited, ramo di casa Murdoch) e sponsor e nonostante questo il bilancio è tornato in attivo (dal 2005) soltanto l’anno scorso; gli sponsor isituzionali sono 17 (dall’Adidas alla Coca Cola, dalla Master Card alla Ford) e l’Iveco, che degli All Blacks è partner, sborsa 2,5 a stagione milioni per marchiare l’intera federazione. Per dire quanto tiri quel colore: l’Iveco sponsorizza anche la Nazionale italiana, ma alla nostra federazione versa ogni anno 600 mila euro: un quarto rispetto ai Tutti Neri.
Ci sono numeri e numeri, però, e sono quelli tra i pali che cominciano a preoccupare. Prima di perderci sabato, Warren Gatland, coach del Galles, si era già fatto una certa idea di come il vento stia girando. «Gli All Blacks hanno perso la loro aurea di imbattibilità. Se esci sconfitto da un paio di partite, non importa chi tu sia. Hai solo dimostrato che puoi perdere un’altra volta». Il Galles contro gli All Blacks non becca palla dal ”53 e anche sabato ha infilato una sconfitta, ma senza il genio di Dan Carter, l’apertura, questa volta i Dragoni avrebbero potuto ribaltare la storia. Carter: rischia di saltare l’incrocio con l’Italia. Su di lui pesa una possibile squalifica per aver placcato alto, e quindi in modo irregolare e pericoloso, il mediano di mischia gallese Roberts. E quanto conti Carter lo dice anche il trattamento speciale che per lui mise in atto la federazione neozelandese. Nel regno degli All Blacks chi se ne va a giocare all’estero perde il codice d’accesso alla nazionale. «Hai scelto i soldi invece dell’onore. E allora stai fuori»: suona così il comma di un regolamento che non vuole aggiornarsi. stato così per Hayman, pilone volato in Inghilterra, nei Saracens, per 500 mila euro a stagione. Verso l’Europa si era mosso anche Carter, ingaggiato dai francesi del Perpignan, ma solo dopo aver ottenuto una deroga federale semestrale (tanto era la durata del contratto). Nell’epoca che ha appiattito le distanze, restare a giocare in Nuova Zelanda e dire di no ai soldi, inizia a sembrare un’eresia anche per uomini dalla religione All Blacks: così il livello, da eccellente scende a ottimo, e la nazionale fa meno paura di prima. Innervata dal sangue maori, poi, l’ultima versione tutta nera assiste anche al rinsecchimento ancestrale: sabato a Cardiff erano solo in quattro a raccogliere tanta eredità. Problemi di coach Henry, ma non solo. Rischia di andarci di mezzo anche l’haka: danza maori, non necessariamente deve essere lanciata da uno di loro, ma andando di questo passo - e col rugby a seven, disciplina olimpica dal 2016, che potrebbe sottrarre uomini e talenti - rischia di rappresentare sempre più una minoranza. All Blacks, non è tutto nero quello che luccica.