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 2009  novembre 07 Sabato calendario

RISPARMIO, AFFARE DA ANZIANI

«Quello non è un paese per vecchi». Non si occupava di finanza né di demografia William B. Yeats: quando pubblicò "Navigando verso Bisanzio", nel 1928, il poeta irlandese premio Nobel aveva 63 anni e si descriveva come «misera cosa, un lacero cappotto su un bastone». Il mondo contava due miliardi di persone con alti tassi di fertilità e un’aspettativa media di vita che, in Occidente, raggiungeva appena i 55 anni. L’anno dopo, il crack
di Wall Street avrebbe svelato il legame tra finanza e demografia: la Grande Depressione avrebbe ridotto la nuzialità e la fertilità fino al baby boom
seguito alla Seconda Guerra mondiale. Ottant’anni dopo, quel rapporto è più attuale che mai: la recessione deprime la natalità, già in crisi, mentre la popolazione mondiale di 6,7 miliardi ha un’aspettativa media di vita di 66 anni e mezzo che in Occidente supera abbondantemente i 78. La schiera dei
babyboomers,
ormai in pensione e in ottima salute (niente a che vedere con Yeats), possiede ricchezze sconosciute alla generazione dei suoi padri ma tra i suoi figli sono sempre di meno quelli che possono contare su lavori stabili e salari decenti. In Italia, in Occidente e tra breve anche in Cina l’ incipit di Yeats è ormai ribaltato: «Questo non è un paese per giovani». Molti si preoccupano dell’effetto dell’invecchiamento globale sulle pensioni: ma quale sarà l’impatto sui risparmi e la ricchezza delle famiglie? E come ci si può mettere al riparo?
L’età è una variabile rilevante per la salute finanziaria delle famiglie. In Italia e negli Usa i nuclei più ricchi sono quelli con i capifamiglia più anziani, più istruiti e con un lavoro indipendente. Se dopo la pensione negli Usa i risparmi si azzerano e anzi il patrimonio accumulato viene eroso (ad esempio dagli home equity loans
che estraggono valore dalla casa), in Europa (ma non in Olanda) e in Italia invece gli anziani continuano ad accumulare, spesso più da pensionati che non durante l’età lavorativa.
Ma due anni di crisi hanno lasciato un segno profondo. Negli Usa gli anziani hanno pagato meno dei giovani lo scoppio della bolla immobiliare e il tonfo delle Borse, come mostrato da un’analisi recente della Brookings Institution .
Dal luglio 2007, quando Wall Street era ai massimi, al marzo scorso, quando ha toccato i minimi, subprime e crack
dei listini hanno ridotto i patrimoni delle famiglie statunitensi di 13mila miliardi di dollari, il 15% del totale. Anche in Italia la recessione pesa su reddito e propensione al risparmio, come segnala l’ Istat.
Banca d’Italia stimava che gli investimenti reali delle famiglie a fine 2007 pesassero per il 60% della loro ricchezza lorda (5.570 miliardi di euro, per l’82% case) e quelli finanziari il 40% (3.652 miliardi): i nuclei con capofamiglia pensionati possedevano oltre la metà degli asset
finanziari, 1.850 miliardi, investiti per il 51% circa in titoli di Stato. Se nel primo semestre 2008 i tonfi delle Borse hanno ridotto la somma del 6%, i prezzi delle case in Italia invece tengono.
Nel breve periodo, dunque, la crisi ha distrutto ricchezza e, con i tassi di interesse ai minimi storici, ha aumentato da domanda di rendimenti sicuri da parte dei risparmiatori. Ma nel lungo periodo sarà la demografia a mandare in crisi rendimenti e sicurezza degli investimenti. Gli economisti studiano da anni le ricadute dell’invecchiamento globale. I catastrofisti abbracciano la teoria dell’" asset meltdown",
il collasso del valore di intere classi di investimenti sotto la pressione delle vendite scatenate dalla necessità dei babyboomers
di liquidare il patrimonio per recuperare redditi falcidiati dal calo delle pensioni. Un’ipotesi che pare confutata dal fatto che, almeno sinora, gli anziani non disinvestono – tranne, come visto, negli Usa e in Olanda – ma anzi continuano ad accumulare. Tutti, comunque, prevedono un calo dei rendimenti per il
mix
di invecchiamento, contrazione della crescita della forza lavoro e aumento delle masse di risparmio. Senza che, paradossalmente, il rischio venga ridotto.
Quanto sarà ampio il calo dei rendimenti? Uno studio olandese pubblicato a ottobre stima che la contrazione sarà graduale e si situerà tra lo 0,5% e l’1% in meno al 2050. Ma potrebbe accelerare se la forza lavoro non crescerà, se la domanda di pensioni aumenterà e se la crescita di Cina e India dovesse far defluire da questi paesi enormi flussi finanziari. Anche un’altra analisi, presentata il mese scorso dal Congressional Budget Office ,
la divisione di studi economici del Parlamento di Washington, prevede che nei prossimi 75 anni la frenata della forza lavoro Usa dovrebbe ridurre i tassi medi di circa l’1,8%. Sembrano pochi decimali. Non se comparati con i rendimenti dei fondi pensione: nei sei anni dal 2003 e 2008 secondo la Covip
in Italia quelli negoziali hanno reso il 2,78% annuo, quelli aperti l’1,58% e il Tfr il 2,68 per cento. Ma ha senso spingere tanto in là le previsioni? E quale può essere la loro accuratezza? La prudenza è d’obbligo. Perché, come avverte lo stesso Cbo, mentre l’invecchiamento globale deprimerà i tassi, l’aumento dei deficit pubblici dovuto agli oneri previdenziali e sanitari crescenti di una società anziana li aumenterà. Se la finanza dovrà misurarsi sempre più con gli over 65, meglio cominciare a tenerne conto sin da giovani. Perché solo chi alzerà presto le vele, seguendo una rotta precisa grazie a buoni strumenti, potrà approdare sicuro a Bisanzio.