Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  novembre 08 Domenica calendario

dal nostro corrispondente ALESSANDRA FARKAS ell’anticamera del suo loft sulla East Broadway, a nord di Soho, c’è un ap­pendiabiti personalizzato con i nomi degli amici in­cisi in targhette di rame

dal nostro corrispondente ALESSANDRA FARKAS ell’anticamera del suo loft sulla East Broadway, a nord di Soho, c’è un ap­pendiabiti personalizzato con i nomi degli amici in­cisi in targhette di rame. Salman Rushdie, Scarlett Johansson, Isabella Ferra­ri, Edward Albee, Fran Le­bowitz e Marisa Monte si sono guadagnati un posto nel mondo di Francesco Cle­mente, anche se basta varcare l’ingresso dell’enorme studio-appartamento per capire che è l’ altra famiglia, quella biologica, a dominare il suo spazio. « Alba, mia moglie, la mia musa», spiega l’artista di origine napoletana, 57 anni, uno dei maestri più im­portanti (e quotati: fino a 200 mila dollari a quadro) del Neoespressionismo. «Mi osserva con indifferenza e ironia. Ma non ha mai smesso di guardare». La sua immagine di ragazza, fidanzata e poi mamma gareg­gia, nelle foto scattate in 35 anni di vita insieme, con quelle dei figli: fotografati, ritratti, tratteggiati, comun­que sempre presenti: Chiara, 32 anni, Nina di 28, e i gemelli Pietro e Andrea di 21. «Hanno tutti un gran talento artistico – spiega or­goglioso Clemente ”. Chiara è una regista cinemato­grafica, Nina una chef, Pietro e Andrea per ora studia­no, ma amano vivere bene, con moderazione, un’arte quasi scomparsa». Grazie a loro l’ex enfant terrible del­l’arte newyorchese, il rivoluzionario che nel 2000 spin­se il «New York Times» a dedicargli un rarissimo e in­tenso editoriale pieno di elogi, oggi accarezza l’idea di diventare nonno. «Non mi spaventa, perché tutti quelli che conosco sono felici di esserlo, a partire dal mio amico pittore Alex Katz», spiega. Poi si corregge: «La mia generazione per fortuna è stata perdonata dai propri figli. A casa il ragazzino sono sempre stato io». La prova – ce ne fosse biso­gno – viene dal parquet in legno rossastro, disseminato dai giocat­toli di una vita. Foto, disegni, ci­meli di viaggio, macchinine, rosa­ri indiani, la mano di un santo in legno del ”600, tarocchi, un cusci­no ricamato a mano, una scultura tantrica in cristallo comperata a Benares che ritrae la fertilità femminile sono disposti in un ordine solo all’apparenza casuale. In mezzo alla stanza dove le ampie vetrate sono sta­te offuscate – forse per evitare sguardi indiscreti dei dirimpettai – ci sono leggendari mobili Bauhaus, Sott­sass e Lloyd Wright. «Li acquistai nei primi anni ”80’ racconta il pittore – quando costavano poco e nessu­no a New York li voleva». Gli «affreschi» ai soffitti so­no firmati dall’americano Jim Long: macchie trompe l’oeil color giallo e carta da zucchero che simulano l’ef­fetto muffa. Una stranezza? «No. Come disse Jasper Jones, i qua­dri devono essere almeno migliori della parete». Se poi la maggior parte delle sue opere sono appoggiate in terra, non appese, è perché Clemente ama contrad­dirsi ed essere contraddetto e, in quanto artista, può permetterselo. «Credo che tutto sia in transito e in cambiamento», ripete più volte. Non per nulla sta cercando di ottenere le cittadinan­ze Namericana e indiana – senza rinunciare a quella ita­liana – e vive sempre con la valigia. Pronto a spostarsi tra le sue varie dimore: Manhattan, Brooklyn e Tulsi Ghat, un quartiere di Benares, la città sacra degli indui­sti. Di recente ha cambiato galleria, passando a Jeffrey Deitch perché, spiega, «quando esponevo da lui, Gago­sian aveva cinque artisti, ora ne ha più di ottanta». «Qualcuno mi ha detto che sono un uomo senza no­stalgia – incalza ”. Non è vero: ho tanta nostalgia, ma solo del futuro». L’ennesima contraddizione. Nel tour del suo studio Clemente si sofferma più volte di fronte alla grande bacheca dove sono custodite, come reliquie, le immagini dei suoi cari morti. Gli amici poe­ti Robert Creeley e Allen Ginsberg, il compositore Mor­ton Feldman (suo è il piano a coda dietro le colonne annerite da un passato incendio), William Burroughs. Ma anche mamma Bianca, che per prima lo iniziò alla pittura, seria in un delicato autoritratto e papà Loren­zo, stimato magistrato napoletano. «Se ne sono andati entrambi, una fetta di memoria scomparsa per sempre. Sapevano cose e dettagli di me che, in quanto figlio unico, nessun’altro conosce». Na­poli, ma anche l’Italia e la famiglia riaffiorano sugli scaffali semivuoti della cucina spartana, dove l’unica traccia di cibo sono una confezione di pasta De Cecco, tè verde, aceto balsamico, crema di sesamo tahina e olio biologico prodotto da un suo amico chef. «Anche papà era un cuoco eccelso, noto per la sua pastiera: la migliore di Napoli – riattacca ”. Mamma, invece, non aveva proprio il dono e ai fornelli lasciava fare a lui». Anche in questo assomiglia a mamma Bian­ca: «Non so friggere un uovo – scherza ”. Sono stret­tamente vegetariano dall’età di diciannove anni. Poi ho mangiato carne di nuovo in Brasile, tre anni fa, ed era buonissima». Ma non parlategli di ecologia. «Sarà difficile evitare la catastrofe ricorrendo esclusivamen­te a strumenti razionali – teorizza ”. Solo la riscoper­ta del Sacro può salvarci». Alla salubrità delle campa­gne lui preferisce l’inquinamento della città. «La mia metropoli preferita è Benares, perché è la più stressan­te. Più caotica e inquinata è la città e più mi piace». Quando è a Benares, Clemente trova l’armonia che lo elude in Italia e a New York: «In India, di fronte a situazioni impossibili, ci si arrende alla propria impo­tenza, ed è più facile essere felici, anche se non si sa se è proprio felicità o tristezza assoluta». Non ha paura di ammetterlo: «Osservare e ascoltare il caos fuori, è me­no inquietante che riconoscerlo in me. Guadagno da vivere col mio disordine interno e le mie deformità. Se tutto fosse armonia non avrei motivo di dipingere». Ma nel suo universo tutto dev’essere al proprio po­sto. Come i tubetti e i vasetti di colore marca Old Hol­land («i migliori», puntualizza) ammonticchiati in or­dine simmetrico contro la parete. O i tantissimi Cd: Astor Piazzolla, Cat Power, Santo Gold, Bob Dylan, Neil Young, Chaka Kahn. «Springsteen? Troppo macho per me. E preferisco Debbie Harry a Madonna». Anche se i libri, esposti come in un negozio, sono quasi tutti testi di magia e tarocchi («se abbandonassi la pittura, vorrei essere un cartomante»), Clemente dice di leggere molto – Swedenborg, Emerson, Thoreau, Carly­le, Blake, Pound – e di lavorare poco. «Dalle tre alle cinque ore, poi l’attenzione cade. Cammino molto, spe­rando di incontrare coincidenze, segni, echi, assonanze, tutto quello che nutre il mio lavoro». Come i musei. «La più bella mostra che ho visto di recente è quella di William Blake alla Morgan Library. Sono un patito di Blake, di Beato Angelico, Zurbaràn e Petrus Christus». Anche il suo studio è un minimuseo: la testa di Satana settecentesca di Füssli e i quadri di artisti con cui ha col­laborato quali Warhol e Basquiat, accanto a una Madon­na napoletana in gesso rosa-azzurro. Ma le sue due scul­tura preferite – un tronco di felce nel Sud Pacifico e un bue indiano di cartapesta in preghiera – sono state rea­lizzate da artiste donne. «La voce delle donne si è fatta più forte. Chissà che un giorno, come nel Giappone del 1400, non rimangano solo loro a occuparsi di arte». Proprio in India, la sua seconda casa, ha incontrato tante donne straordinarie. «Ho conosciuto Sonia Gan­dhi alla commemorazione della morte del Mahatma, una cerimonia che mi ha fatto ricordare, con nostal­gia, l’India socialista e idealista dei miei vent’anni». I cimeli di quell’era psichedelica di cui Clemente è stato uno dei massimi cantori lo circondano. «Non prendo Lsd da molti anni, ma credo che lo si dovrebbe ammi­nistrare nelle scuole», afferma con un sorriso provoca­torio. Eppure nelle foto ufficiali Clemente è sempre serio, anzi serissimo. «Non sorrido fuori, ma dentro», si schernisce. Tra poco il patriarca-bambino radunerà come ogni anno la famiglia per la festa più gioiosa del­l’anno: il Natale. «Lo festeggio in modo super tradizio­nale: presepe, albero, tombola, vigilia. Amo i riti di tut­te le religioni: sarebbe ingiusto trascurare quelli della religione in cui sono nato».