Alessandra Farkas, Corriere della Sera 8/11/2009, 8 novembre 2009
dal nostro corrispondente ALESSANDRA FARKAS ell’anticamera del suo loft sulla East Broadway, a nord di Soho, c’è un appendiabiti personalizzato con i nomi degli amici incisi in targhette di rame
dal nostro corrispondente ALESSANDRA FARKAS ell’anticamera del suo loft sulla East Broadway, a nord di Soho, c’è un appendiabiti personalizzato con i nomi degli amici incisi in targhette di rame. Salman Rushdie, Scarlett Johansson, Isabella Ferrari, Edward Albee, Fran Lebowitz e Marisa Monte si sono guadagnati un posto nel mondo di Francesco Clemente, anche se basta varcare l’ingresso dell’enorme studio-appartamento per capire che è l’ altra famiglia, quella biologica, a dominare il suo spazio. « Alba, mia moglie, la mia musa», spiega l’artista di origine napoletana, 57 anni, uno dei maestri più importanti (e quotati: fino a 200 mila dollari a quadro) del Neoespressionismo. «Mi osserva con indifferenza e ironia. Ma non ha mai smesso di guardare». La sua immagine di ragazza, fidanzata e poi mamma gareggia, nelle foto scattate in 35 anni di vita insieme, con quelle dei figli: fotografati, ritratti, tratteggiati, comunque sempre presenti: Chiara, 32 anni, Nina di 28, e i gemelli Pietro e Andrea di 21. «Hanno tutti un gran talento artistico – spiega orgoglioso Clemente ”. Chiara è una regista cinematografica, Nina una chef, Pietro e Andrea per ora studiano, ma amano vivere bene, con moderazione, un’arte quasi scomparsa». Grazie a loro l’ex enfant terrible dell’arte newyorchese, il rivoluzionario che nel 2000 spinse il «New York Times» a dedicargli un rarissimo e intenso editoriale pieno di elogi, oggi accarezza l’idea di diventare nonno. «Non mi spaventa, perché tutti quelli che conosco sono felici di esserlo, a partire dal mio amico pittore Alex Katz», spiega. Poi si corregge: «La mia generazione per fortuna è stata perdonata dai propri figli. A casa il ragazzino sono sempre stato io». La prova – ce ne fosse bisogno – viene dal parquet in legno rossastro, disseminato dai giocattoli di una vita. Foto, disegni, cimeli di viaggio, macchinine, rosari indiani, la mano di un santo in legno del ”600, tarocchi, un cuscino ricamato a mano, una scultura tantrica in cristallo comperata a Benares che ritrae la fertilità femminile sono disposti in un ordine solo all’apparenza casuale. In mezzo alla stanza dove le ampie vetrate sono state offuscate – forse per evitare sguardi indiscreti dei dirimpettai – ci sono leggendari mobili Bauhaus, Sottsass e Lloyd Wright. «Li acquistai nei primi anni ”80’ racconta il pittore – quando costavano poco e nessuno a New York li voleva». Gli «affreschi» ai soffitti sono firmati dall’americano Jim Long: macchie trompe l’oeil color giallo e carta da zucchero che simulano l’effetto muffa. Una stranezza? «No. Come disse Jasper Jones, i quadri devono essere almeno migliori della parete». Se poi la maggior parte delle sue opere sono appoggiate in terra, non appese, è perché Clemente ama contraddirsi ed essere contraddetto e, in quanto artista, può permetterselo. «Credo che tutto sia in transito e in cambiamento», ripete più volte. Non per nulla sta cercando di ottenere le cittadinanze Namericana e indiana – senza rinunciare a quella italiana – e vive sempre con la valigia. Pronto a spostarsi tra le sue varie dimore: Manhattan, Brooklyn e Tulsi Ghat, un quartiere di Benares, la città sacra degli induisti. Di recente ha cambiato galleria, passando a Jeffrey Deitch perché, spiega, «quando esponevo da lui, Gagosian aveva cinque artisti, ora ne ha più di ottanta». «Qualcuno mi ha detto che sono un uomo senza nostalgia – incalza ”. Non è vero: ho tanta nostalgia, ma solo del futuro». L’ennesima contraddizione. Nel tour del suo studio Clemente si sofferma più volte di fronte alla grande bacheca dove sono custodite, come reliquie, le immagini dei suoi cari morti. Gli amici poeti Robert Creeley e Allen Ginsberg, il compositore Morton Feldman (suo è il piano a coda dietro le colonne annerite da un passato incendio), William Burroughs. Ma anche mamma Bianca, che per prima lo iniziò alla pittura, seria in un delicato autoritratto e papà Lorenzo, stimato magistrato napoletano. «Se ne sono andati entrambi, una fetta di memoria scomparsa per sempre. Sapevano cose e dettagli di me che, in quanto figlio unico, nessun’altro conosce». Napoli, ma anche l’Italia e la famiglia riaffiorano sugli scaffali semivuoti della cucina spartana, dove l’unica traccia di cibo sono una confezione di pasta De Cecco, tè verde, aceto balsamico, crema di sesamo tahina e olio biologico prodotto da un suo amico chef. «Anche papà era un cuoco eccelso, noto per la sua pastiera: la migliore di Napoli – riattacca ”. Mamma, invece, non aveva proprio il dono e ai fornelli lasciava fare a lui». Anche in questo assomiglia a mamma Bianca: «Non so friggere un uovo – scherza ”. Sono strettamente vegetariano dall’età di diciannove anni. Poi ho mangiato carne di nuovo in Brasile, tre anni fa, ed era buonissima». Ma non parlategli di ecologia. «Sarà difficile evitare la catastrofe ricorrendo esclusivamente a strumenti razionali – teorizza ”. Solo la riscoperta del Sacro può salvarci». Alla salubrità delle campagne lui preferisce l’inquinamento della città. «La mia metropoli preferita è Benares, perché è la più stressante. Più caotica e inquinata è la città e più mi piace». Quando è a Benares, Clemente trova l’armonia che lo elude in Italia e a New York: «In India, di fronte a situazioni impossibili, ci si arrende alla propria impotenza, ed è più facile essere felici, anche se non si sa se è proprio felicità o tristezza assoluta». Non ha paura di ammetterlo: «Osservare e ascoltare il caos fuori, è meno inquietante che riconoscerlo in me. Guadagno da vivere col mio disordine interno e le mie deformità. Se tutto fosse armonia non avrei motivo di dipingere». Ma nel suo universo tutto dev’essere al proprio posto. Come i tubetti e i vasetti di colore marca Old Holland («i migliori», puntualizza) ammonticchiati in ordine simmetrico contro la parete. O i tantissimi Cd: Astor Piazzolla, Cat Power, Santo Gold, Bob Dylan, Neil Young, Chaka Kahn. «Springsteen? Troppo macho per me. E preferisco Debbie Harry a Madonna». Anche se i libri, esposti come in un negozio, sono quasi tutti testi di magia e tarocchi («se abbandonassi la pittura, vorrei essere un cartomante»), Clemente dice di leggere molto – Swedenborg, Emerson, Thoreau, Carlyle, Blake, Pound – e di lavorare poco. «Dalle tre alle cinque ore, poi l’attenzione cade. Cammino molto, sperando di incontrare coincidenze, segni, echi, assonanze, tutto quello che nutre il mio lavoro». Come i musei. «La più bella mostra che ho visto di recente è quella di William Blake alla Morgan Library. Sono un patito di Blake, di Beato Angelico, Zurbaràn e Petrus Christus». Anche il suo studio è un minimuseo: la testa di Satana settecentesca di Füssli e i quadri di artisti con cui ha collaborato quali Warhol e Basquiat, accanto a una Madonna napoletana in gesso rosa-azzurro. Ma le sue due scultura preferite – un tronco di felce nel Sud Pacifico e un bue indiano di cartapesta in preghiera – sono state realizzate da artiste donne. «La voce delle donne si è fatta più forte. Chissà che un giorno, come nel Giappone del 1400, non rimangano solo loro a occuparsi di arte». Proprio in India, la sua seconda casa, ha incontrato tante donne straordinarie. «Ho conosciuto Sonia Gandhi alla commemorazione della morte del Mahatma, una cerimonia che mi ha fatto ricordare, con nostalgia, l’India socialista e idealista dei miei vent’anni». I cimeli di quell’era psichedelica di cui Clemente è stato uno dei massimi cantori lo circondano. «Non prendo Lsd da molti anni, ma credo che lo si dovrebbe amministrare nelle scuole», afferma con un sorriso provocatorio. Eppure nelle foto ufficiali Clemente è sempre serio, anzi serissimo. «Non sorrido fuori, ma dentro», si schernisce. Tra poco il patriarca-bambino radunerà come ogni anno la famiglia per la festa più gioiosa dell’anno: il Natale. «Lo festeggio in modo super tradizionale: presepe, albero, tombola, vigilia. Amo i riti di tutte le religioni: sarebbe ingiusto trascurare quelli della religione in cui sono nato».