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 2009  novembre 07 Sabato calendario

L’ASIA TIRA LA CORSA ALLE MATERIE PRIME

(tre articoli) -

La Cina non aspetta. Scommette sulla ripresa facendo incetta di materie prime in tutto il globo. Mentre gli altri Stati del mondo stanno leccandosi le ferite della crisi, e hanno le tasche vuote, Pechino in crescita e con gli scrigni pieni, rastrella il mercato. Petrolio, gas, ferro, carbone e minerali preziosi, quelli che alimentano le nuove tecnologie, le auto elettriche. Il futuro.

Il Dragone ha fame, ma anche la Tigre ha appetito. A cominciare dal riso, di cui l’India è secondo consumatore, ora che è passato il monsone più disastroso della storia. Pechino e New Delhi si siedono a «tavola», che è il globo intero. Le loro «posate» sono una crescita senza eguali, corposi piani di stimolo dei governi e progetti infrastrutturali faraonici. Ma anche meno prosaiche operazioni finanziarie, ora che il dollaro perde quota.

L’India ha appena acquistato dal Fondo monetario internazionale 200 tonnellate d’oro, per 6,7 miliardi di dollari, spinta dalla volontà di diversificare le riserve, ridurre l’esposizione in valuta Usa, e forse, di contare di più nell’Fmi. Una mossa che ha fatto schizzare il prezzo del metallo giallo al massimo storico di 1.084 dollari per oncia (ieri a 1.101,90). Uno scenario che si ripeterà. Fino a quanto? Gli esperti parlano di cicli di 15-22 anni. Ma per Jim Rogers, co-fondatore con George Soros di Quantum fund, vedremo ancora salire i prezzi delle materie prime nel 2020. «Alla base di tutto c’è l’ingresso sul mercato di Paesi come l’India e soprattutto la Cina». L’oro, per altro, piace molto anche ai cinesi: sono i primi produttori del pianeta, con 10 milioni di once, il 10% dell’offerta mondiale. Senza contare i massicci acquisti pro-riserva degli anni scorsi e quelli che, secondo gli esperti, si apprestano a fare.


Già, il Dragone. soprattutto la Cina, più in forze dell’India, per ora a condurre la danza. La sua fame non ha confini, né remore politiche. E preoccupa. Ieri gli Usa hanno imposto dazi sui tubi d’acciaio cinesi che vanno fino al 99%: Pechino ha risposto piccata, accusando Barack Obama (che dal 15 novembre sarà nel Celeste Impero) di «protezionismo». Quattro anni fa il Congresso aveva già bloccato l’offerta d’acquisto su Unocal, la sesta società petrolifera americana, da parte di China National Offshore Corp.

Scaramucce, che non influiscono sull’appetito. Sono ormai decenni che Pechino investe all’estero. E dopo l’ingresso nel Wto, con molto più slancio. «Zou chuqu», ossia «go global», vai Oltreoceano, lo slogan della sua politica economico-finanziaria. Una politica che ora è stata accelerata. «Sono stati anticipati i piani per le grandi opere che erano previsti per il 2012-2013», dice Giorgio Prodi, dell’Università di Ferrara, membro del comitato scientifico di Osservatorio Asia. Il piano governativo di stimolo è di 4 miliardi di yuan. Ferrovie, strade, ospedali. Ecco perché ha fame di acciaio, e dunque ferro; carbone, rame, zinco.

Che fretta hanno? «I cinesi sono ottimisti. Credono nella ripresa, e vogliono essere in prima fila quando sarà a regime», spiega Prodi. Sono già la prima azienda manifatturiera del mondo, il primo Paese esportatore. Ma per produrre occorrono commodities. Come il petrolio. Pechino lo sta rastrellando ognidove, per spegnere la sua sete, attuale e prossima: quest’anno spenderà 9 miliardi di dollari, in «deals» per l’esplorazione e lo sfruttamento di giacimenti all’estero. anche entrata nel mercato Usa, acquistando con Cnooc il 30% di quattro licenze per l’estrazione nel Golfo del Messico dalla norvegese Statoil. il primo produttore straniero in Iraq, ha prestato 10 miliardi al presidente brasiliano Lula in cambio di barili, 4 miliardi al venezuelano Chàvez. pronta ad acquistare 6 miliardi di barili delle riserve nigeriane.

Le cifre, finora, danno ragione all’ottimismo del Dragone. La Banca mondiale ha alzato le stime di crescita 2009 della Cina dal 7,2% (giugno) all’8,4%, 8,7% nel 2010. Certo, per correre, e cavalcare la ripresa, occorrono anche risorse finanziarie. Ma per «Zhongguo», la Terra di Mezzo, il denaro non costituisce un problema. Può contare su riserve valutarie per 2.300 miliardi di dollari. E su una «macchina» che sforna a getto continuo profitti da reinvestire.

«Le grandi imprese sono controllate dallo Stato, attraverso la Sasac, una sorta di mega-Iri che contiene le holding. I profitti generati non vanno allo Stato, ma a queste holding, che si trovano così montagne di denaro da impiegare» spiega Prodi. Impiegare dove? «Zou chuqu». La lista degli accordi, delle acquisizioni si allunga di giorno in giorno. Africa, Asia, America Latina, Europa. Tra il 1982 e l’89 Pechino investiva all’estero 500 milioni l’anno: nel 2008 sono stati 52,2 miliardi di dollari, per il 2009 si stima 100 miliardi. Fame di materie prime, sì, comprese quelle agricole. Ma anche guerra industriale, perché acquisendo aziende si compra il «know how» tecnologico. «Go global», inoltre, significa anche aprire nuovi mercati per i propri prodotti: gli scambi con l’America Latina, ad esempio, sono passati dai 10 miliardi del 2000 ai 140 miliardi del 2008; in Angola la Cina è presente con 50 mila operai.

Un appetito famelico, però, può contrarre virus. «Il rischio bolla c’è», riconosce Prodi. «Ma i cinesi lo hanno messo in conto». Terra di Mezzo. Il ritorno della Cina al centro dell’attenzione del mondo, per i cinesi, è semplicemente il ritorno dell’ordine naturale delle cose.

(Fabio Pozzo, La Stampa 07/11/09)

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I cinesi alzano le barriere sulle terre rare -

Avranno caratteristiche e nomi differenti, ma quando verranno lanciate sul mercato, tra il 2010 e il 2013, le auto elettriche tedesche avranno tutte lo stesso problema: il successo a lungo termine delle varie Up o Ampera non si deciderà soltanto a Wolfsburg o Rüsselsheim, bensì a migliaia di chilometri di distanza.

A Bayan Obo, ad esempio, la più grande miniera cinese. da lì che provengono i metalli fondamentali per costruire i motori elettrici, elementi chimici come il Neodimio o il Gadolinio non certo tra i più noti, ma tra i più importanti per le tecnologie del futuro. E non soltanto nel mondo dell’auto: non c’è innovazione high-tech, dalle lampade a risparmio energetico alle pale eoliche, dagli schermi LCD ai laser, che riesca a farne a meno. Il problema: l’accesso alle «terre rare», come vengono chiamati questi elementi, è in mano a pochi Paesi, Cina in testa (detiene quasi il monopolio su 17 minerali rari, come il disprosio, il terbio o il tulio), che ne regolano l’offerta, al punto che l’Istituto tedesco per le Scienze della Terra e le materie prime (BGR) ha lanciato ora l’allarme. Misure di restrizione all’esportazione delle terre rare possono provocare «difficoltà nei rifornimenti», si legge in uno studio appena presentato. Una prospettiva drammatica per l’industria tedesca, forte in tutti quei settori, dal chimico all’automobilistico, in cui trovano applicazione le terre rare.

«Siamo molto preoccupati per la concentrazione di questi metalli in un Paese che limita le esportazioni: ciò rappresenta per noi un rischio», spiega Wilko Specht, esperto di materie prime del BDI (la Confindustria tedesca). «Occorre correggere le regole del Wto, mentre il governo tedesco e i Paesi Ue hanno la responsabilità di affrontare il tema con la Cina». Contrariamente a quanto faccia pensare il loro nome, del resto, «non si può parlare di una scarsità delle terre rare», chiarisce Raimund Bleischwitz, esperto di gestione delle risorse all’Istituto Wuppertal su Clima, Ambiente ed Energie. Anzi, questi metalli dovrebbero bastare ancora per centinaia di anni. «Il problema - continua Bleischwitz - non sta nella disponibilità, ma nella politica».

Su questo punto lo studio del BGR non lascia dubbi. Negli ultimi decenni gli equilibri nell’offerta si sono spostati a favore della Cina e oggi dalla Repubblica popolare arriva oltre il 90% di tutte le terre rare (il restante 10% si divide tra Australia, Canada e pochi altri Paesi). La miniera di Bayan Obo, da sola, copre il 40% della produzione mondiale. E Pechino sfrutta abilmente la leva dell’offerta, introducendo quote per ridurre le esportazioni e aumentare i prezzi. Ma non solo: la Cina, si legge nella ricerca, prova a partecipare a tutti i principali progetti di estrazione lanciati al di là dei propri confini, «per continuare a controllare l’approvvigionamento».

Il risultato: «Per il periodo post-2012, a seguito della crescita della domanda, dovuta tra l’altro allo sviluppo economico e alle nuove tecnologie, si delinea per alcune terre rare un deficit sempre maggiore, la cui copertura, al momento, non è prevedibile». A complicare il tutto c’è il fatto che non esistono alternative valide alle «terre rare». il caso, spiega Bleischwitz, dell’erbio, che viene usato per la fabbricazione di fibre ottiche e non ha sostituiti con caratteristiche simili. Lo stesso dicasi di elementi che sono ugualmente centrali per le nuove tecnologie, come il litio - fondamentale per le auto elettriche - o il platino. Metalli, questi, concentrati in America Latina, Russia o Sud Africa. Quando sarà finita l’era del petrolio, riassume Bleischwitz, «non solo la Germania, ma tutta l’Europa rischia di ritrovarsi in una nuova dipendenza».

(Alessandro Alviani, La Stampa 07/11/09)

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E il minidollaro può diventare una trappola -

C’era una volta un paese che aveva accumulato un immenso tesoro di riserve, il maggiore del pianeta, in valuta estera; una valuta che era stata fino a quel momento dominante nel mondo, ma che ora rischiava di deprezzarsi. I banchieri centrali di quel paese erano in trappola: se avessero cominciato a convertire il loro tesoro in qualche cosa di più stabile, come l’oro, avrebbero diffuso il panico, provocando un crollo di quella valuta, con l’effetto di deprezzare il loro stesso patrimonio.

Anzi, c’era due volte. E’ la situazione in cui si trova la Cina adesso, con i suoi 2.300 miliardi di dollari nelle casseforti; ma anche quella della Francia, piena di riserve in sterline nel 1930-31, all’inizio della grande crisi. Si può ben presumere che a Pechino si stiano interessando di quel precedente, descritto in un recente studio dell’economista francese Olivier Accominotti. Per la Banque de France finì male: il crollo della sterlina nel settembre 1931 la ridusse in stato di insolvenza.

Tutti prevedono che il ruolo internazionale del dollaro si ridurrà, prima o poi. Il problema sta tutto in quanto siano lunghi il prima ed il poi. Uno dei più grandi esperti in materia, l’economista di Berkeley Barry Eichengreen, pronostica «non prima del 2020». Altri vedono tempi ancora più lunghi. Nel frattempo, in mancanza di alternative, come già avvenne negli anni ”30, la ricerca di sicurezza spingerà verso l’oro: prima del maxi-acquisto annunciato dall’India, la Cina aveva già agito, prudentemente, in più riprese e di nascosto. Intanto ieri l’oro ha toccato un nuovo record infrangendo quota 1.100 dollari l’oncia (1.101,90 per la precisione).

Che i tempi siano lunghi, osservano operatori di mercato, lo si vede dal fatto che ancora nei momenti difficili, in cui prevale il pessimismo, il dollaro sale. Non avverrebbe così se la sua posizione fosse irrimediabilmente minata. Marco Annunziata, capo economista di Unicredit, esclude che nei prossimi giorni l’euro nel suo apprezzamento possa sfondare la soglia di 1,5 dollari. Anche l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo al momento non vede «ulteriori deprezzamenti per la valuta statunitense».

Almeno in teoria, i tempi sono lunghi. Ma il rischio è che il tesoro cinese intanto continui a crescere, fino ad assomigliare sempre più alla «macchina fine del mondo» nel film Il dottor Stranamore: ovvero quel sistema di bombe atomiche che l’Urss realizza in segreto a scopo di futura deterrenza ma che esplode davvero - distruggendo tanto l’Urss quanto gli Usa - quando un generale americano impazzito lancia all’attacco i suoi aeroplani.

La Cina infatti continua a comprare dollari per mantenere deprezzata la sua moneta, lo yuan, e poter così esportare meglio. Fa notizia un rapporto della Banca mondiale secondo cui quest’anno l’attivo dei conti cinesi con l’estero si sta dimezzando, con sollievo per gli squilibri mondiali. Però, a leggerlo bene, quel documento aggiunge che il fenomeno non durerà a lungo. Intanto i cinesi si preoccupano: a un sondaggio on-line fatto dal quotidiano Global Times (emanazione del «Quotidiano del popolo», l’organo del Partito comunista) l’87% giudica «poco sicure» le riserve di Stato in dollari.

A differenza degli anni ”30, tra le grandi potenze prevale un atteggiamento di cooperazione. Almeno a parole. Ma finora tutti gli inviti a rivalutare lo yuan sul dollaro (riducendo l’accumulo di dollari) sono stati lasciati cadere. Nel vertice di ministri finanziari e banchieri del G-20 che termina oggi in Scozia se ne parlerà poco; può darsi invece che Barack Obama scelga di mettere la questione sul tavolo durante il suo viaggio in Cina la settimana prossima.

«Un buon argomento da giocare Obama ce l’avrebbe - ha appena scritto sul suo blog Simon Johnson, ex capo ufficio studi dell’Fmi - ovvero l’afflusso record di capitali in Cina, causato dai bassi tassi di interesse negli Usa e dalla rapida crescita dell’economia cinese. Più a lungo la Cina resisterà ad apprezzare lo yuan, più capitali affluiranno nell’attesa che prima o poi si apprezzi. E’ un fenomeno benefico ma che può avere anche aspetti profondamente destabilizzanti». Possono essere, anche quelli, una bomba a tempo.

(Stefano Lepri, La Stampa 07/11/09)