Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 07/11/2009, 7 novembre 2009
QUELLA FINANZA CHE NON CAMBIA
L’India scambia dollari contro oro ceduto dal Fondo monetario internazionale e il prezzo del metallo giallo vola al massimo storico. In 6 anni, la Cina ha raddoppiato in silenzio le riserve auree, altri emergenti fanno incetta di lingotti. Numeri piccoli, certo: l’India compra 200 tonnellate per 6,7 miliardi di dollari, la merce è rara. Non torneremo al vecchio gold standard , ma la nuova febbre dell’oro segnala la tendenza diffusa all’investimento delle riserve non più in valute occidentali ma in materie prime: quasi che i beni reali stiano diventando la moneta di ultima istanza di fronte alla carta di cui Federal Reserve e Bce hanno inondato il mondo sulla base di un patto fiduciario ormai traballante. Dice il ministro delle finanze indiano, Pranab Mukherjee: «Le economie americana ed europea sono collassate». Le economie dove la finanza da serva si è fatta padrona per consentire a pochi di guadagnare tantissimo indebitando i più.
Molti banchieri occidentali sono invece ottimisti. Le Borse si sono un po’ riprese e l ”investment banking macina di nuovo profitti e bonus. Non importa quanto a lungo l’economia reale debba faticare per tornare ai livelli, anche occupazionali, del 2007. E nemmeno se il debito degli Stati e delle famiglie sia ancora tutto lì, nella sua immane grandezza. Nouriel Roubini parla di una nuova bolla? E’ la solita Cassandra. Come l’oste del proverbio, i banchieri tornano a dirci che il loro vino è buono. La grande dimensione è segno di modernità: al massimo, è sbagliata quella del vicino. La banca universale resta il modello: prestare al cliente, costruirci derivati come prima, assumere partecipazioni, metterselo in casa come socio amico, organizzarne le obbligazioni, speculare con i denari dei depositanti, tutto «crea valore per l’azionista». Sì, ci sono conflitti d’interesse, ma basta la corporate governance .
I governi, le banche centrali e le authority sembrano impotenti. Avevano promesso di voltare pagina, ma si sono infilati in negoziati inconcludenti su quanto capitale in più serva all’esercizio del credito e su come si debbano pesare i rischi. E i banchieri inglesi, nonostante i fallimenti, resistono perfino alle blande idee della Financial Services Authority . La rinascita degli anni Trenta, dice Guido Rossi nell’intervista di ieri a Daniele Manca, fu segnata dal Glass Steagall Act , che separava il credito commerciale dalla finanza, e dalla costituzione della Sec, l’Autorità di controllo di Wall Street. Il giurista invoca – e a ragione – il ritorno del diritto nel deserto creato dalla deregulation , il primato della politica alta in luogo delle alchimie tra regolati potenti e regolatori timidi se non complici. Ma le regole rooseveltiane ebbero un senso in tanto e in quanto si accompagnarono a una politica economica che determinò una gigantesca redistribuzione del reddito dai ricchissimi alla classe media: il fondamento di una nuova cittadinanza. Alla vigilia della crisi, l’Occidente era tornato a concentrare la ricchezza nelle mani degli happy few , pochi eletti, come negli anni Venti del Novecento. Pensare alle banche senza invertire il pendolo della distribuzione come strada maestra del ritorno all’economia reale, rischia di essere una battaglia persa.