Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  novembre 06 Venerdì calendario

Evasioni,violenza, malessere: è il carcere dei minorenni- Tentati suicidi e atti di autolesionismo Mancano gli agenti e gli educatori «Meno celle e più recuperi in comunità» A luglio un ragazzo si è suicida­to a Bari, un mese dopo altri due hanno tentato di fare lo stesso a Milano e a Firenze

Evasioni,violenza, malessere: è il carcere dei minorenni- Tentati suicidi e atti di autolesionismo Mancano gli agenti e gli educatori «Meno celle e più recuperi in comunità» A luglio un ragazzo si è suicida­to a Bari, un mese dopo altri due hanno tentato di fare lo stesso a Milano e a Firenze. Qualche tempo prima, era primavera, le car­ceri di Bologna, Firenze e Potenza avevano registrato sette evasioni al­le quali ora si sommano i quattro fuggiti il 26 ottobre dall’istituto di Airola nel beneventano (tre riacciuf­fati), imitati qualche giorno dopo da tre che hanno provato a scappare dal Beccaria di Milano. Suicidi, eva­sioni, autolesionismo e atti di insu­bordinazione sono fenomeni in pre­occupante aumento nelle carceri mi­norili italiane, favoriti dalla cronica carenza negli organici della polizia penitenziaria e degli operatori. In valore assoluto i dati relativi ai minorenni detenuti non sono para­gonabili a quelli degli adulti. Solo apparentemente. A fronte di circa 64.595 adulti (al 30 settembre) pigia­ti nelle 217 carceri, nei 18 istituti pe­nali per i minorenni ci sono in tutto una media di 489 detenuti, di cui so­lo 147 condannati a pene definitive. A prima vista sembra un divario enorme, ma non è così perché ai mi­nori dietro le sbarre vanno aggiunti i 17.814 seguiti dagli Uffici di servi­zio sociale, tra cui 2.188 ragazzi ospi­tati in comunità (struttura chiusa e protetta), più tutti quelli più o me­no assistiti dai servizi locali tra mil­le difficoltà di bilancio. Questo perché nella giustizia mi­norile italiana il principio costituzio­nale della riabilitazione e del reinse­rimento nella società di chi sbaglia è una chimera meno irraggiungibile rispetto alla giustizia per gli adulti. Di conseguenza gli 813 agenti di po­lizia penitenziaria (sui mille circa previsti dalla pianta organica), i 422 assistenti sociali, i 349 educatori e i 63 operatori di vigilanza partecipa­no costantemente a corsi di forma­zione organizzati dal ministero del­la Giustizia per dotarli degli stru­menti necessari ad affrontare le pro­blematiche minorili. Tutto somma­to, la giustizia minorile, sia nella fa­se processuale che in quella dell’ap­plicazione della pena, in Italia bene o male funziona. Tanto è vero che il sistema nostrano è studiato e copia­to nei Paesi più evoluti e ha ottenu­to l’anno scorso un importante rico­noscimento dall’Onu. Un solo suicidio in un anno, pari allo 0,2 per mille dei detenuti mino­renni, a fronte di 61 adulti che si so­no tolti la vita, e cioè circa lo 0,009 per mille. Fortunatamente parliamo di casi, per quanto tragici, statistica­mente trascurabili. Ma più che quel­l’unica morte, a far accendere la spia sono gli eventi di autolesionismo, di insubordinazione verso il perso­nale e le evasioni. «Contro 43 dete­nuti ad Airola c’erano soltanto 5 agenti che con coraggio hanno evita­to una fuga di massa», dice Eugenio Sarno, segretario Uil penitenziari, il quale sottolinea che «negli organici mancano 5 mila agenti, ma è nella giustizia minorile che il gap è più marcato. Nonostante questo, nessu­no parla di uomini ma solo di carce­ri da costruire». Una recente ricerca nel carcere mi­norile Beccaria di Milano ha dimo­strato che è la presenza e la vicinan­za psicologica degli operatori a fare la differenza. Se il suicidio è una for­ma di autolesionismo pressoché sconosciuta – a Milano un solo ca­so in 30 anni ”, le altre manifesta­zioni più lievi sono tutt’altro che po­co frequenti. Lo studio ha rilevato che nel 79,4% dei casi, i ragazzi si fanno male da soli se sono in grup­po e quasi sempre al sabato e alla do­menica, quando cioè vogliono mani­festare ai compagni il loro disagio. Solo nel 6,7% dei casi si feriscono durante le attività scolastiche e for­mative, quando l’attenzione degli operatori è elevata. « difficile dare una spiegazione della genesi di questi episodi. Van­no esaminati caso per caso, ma è ve­ro che l’amministrazione soffre di una generale carenza di organici», dice Bruno Brattoli, magistrato da un anno a capo del dipartimento del­la Giustizia minorile del ministero, sicuro che «tutti gli operatori e i diri­genti si adoperano per far sì che i ra­gazzi siano osservati con attenzione e professionalità durante la loro per­manenza. Una sola morte è sicura­mente un fatto tristissimo, ma un’entità numerica così bassa dimo­stra che il lavoro degli operatori dà i suoi frutti».  la solita coperta troppo corta. Si taglia un po’ qua un po’ là e alla fine non si riesce a garantire un servizio ottimale. «Le carenze negli organici – aggiunge Brattoli – si ripercuo­tono su tutto l’iter trattamentale con disfunzioni e anomalie. Se non riusciamo ad avere un numero suffi­ciente di agenti, quelli che ci sono devono fare turni più gravosi e que­sto ha una diretta influenza sulla qualità del servizio. un dato ogget­tivo e grave che crea malcontento nel personale che negli istituti per minorenni ha compiti delicati e gra­vosi, come dimostra il fatto che da poco il ministro Alfano ha attribuito lo status di polizia specializzata agli agenti che lavorano con i minoren­ni ». Brattoli si sta muovendo strate­gicamente: «Il dipartimento si sta impegnando al massimo nella ricer­ca di risorse e per garantire la mi­gliore attuazione dei provvedimenti giudiziari intensificando i rapporti con la magistratura minorile. Tutto, ed è un punto di orgoglio, in un qua­dro di corrette relazioni sindacali con gli operatori e la polizia». Don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria dal ”72 ed educatore, è pro­fondo conoscitore del disagio mino­rile: «Anche il numero degli educa­tori è insufficiente. Basta che uno si ammali perché i ragazzi si sentano abbandonati, compresi quelli che sembrano forti, che hanno commes­so i reati più gravi, ma che in fondo hanno tutti una bassissima stima di se stessi». «Meno carcere, più comunità, più progetti educativi dentro e fuori i luoghi di detenzione», propone Laura Laera, presidente dell’Associa­zione dei magistrati minorili (Aim­mf), che il 13 e 14 novembre affron­terà a Milano anche questo tema nel suo convegno nazionale. «Si tratte­rà dell’importanza di accompagnare il ragazzo che delinque durante il processo penale in un percorso di re­sponsabilizzazione anche nei con­fronti delle vittime nonché della ne­cessità di coinvolgere e sostenere la famiglia e il territorio nei progetti educativi», sostiene Laera secondo la quale «bisogna rafforzare e non impoverire le risorse destinate a questo settore». I dati dimostrano che il trattamen­to esterno dà i suoi frutti. A Milano «su 1.634 ragazzi in carico al servi­zio minori del Comune dal 1992 al 2007, l’indice di chi è tornato a delin­quere è sceso dal 21,54% al 3,24%». Ma non basta. «Chiedono spesso di essere aiutati, ma quando escono e tornano a casa trovano un deserto di opportunità e un fiorire di occa­sioni di reato», aggiunge don Rigol­di, che rivela: «Siamo al punto di chiedere ai giudici di non mandare a casa i ragazzi per evitare che torni­no nei quartieri patologici».