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 2009  novembre 06 Venerdì calendario

DIETRO LA CORSA ALLE POLTRONE UE


In tutte le grandi famiglie economiche o politiche la scelta della persona che dovrà rivestire una carica importante (presidente, amministratore delegato, governatore, segretario generale) è l’esercizio che maggiormente appassiona i suoi grandi elettori.
Non mi è difficile immaginare la soddisfazione con cui i membri del Consiglio europeo, nelle loro riunioni ufficiali o informali, sposteranno avanti e indietro sulla loro scacchiera le pedine di Tony Blair (Gran Bretagna), Wolfgang Schüssel (Austria), Jean-Claude Juncker (Lussemburgo), Paavo Lipponen (Finlandia), Jan Peter Balkenende (Paesi Bassi), Fredrik Reinfeldt (Svezia), Felipe González (Spagna), Herman van Rompuy (Belgio) e Vara Vike-Freiberga (Lettonia): tutti disposti ad assumere, per due anni e mezzo, l’incarico gratificante di presidente del Consiglio.
E il gioco ricomincerà con altrettanto piacere quando le pedine, per il posto di «ministro degli Esteri» (ufficialmente: alto rappresentante per la politica estera dell’Ue), saranno quelle di Massimo D’Alema, David Miliband, Michel Barnier, Joschka Fischer.
Il guaio è che i grandi elettori parleranno del candidato, ma solo superficialmente delle sue funzioni. Nessuno di essi sarà disposto ad affrontare il tema perché nessuno è disposto a dire con franchezza quali saranno gli effettivi poteri del candidato prescelto. E non è disposto a dirlo perché dovrebbe dichiarare pubblicamente di quali poteri sia egli stesso disposto a privarsi.
Le due cariche hanno potenzialmente una straordinaria importanza, ma il mansionario che generalmente accompagna la designazione del titolare non è stato ancora scritto. Vi sono, come sempre, almeno due tesi. I teorici della prima sostengono che il presidente e il ministro degli Esteri (ma soprattutto il primo) devono essere personalità conosciute e autorevoli, capaci di rialzare le azioni dell’Unione Europea nel mondo e, come ha detto il ministro degli Esteri britannico alludendo a Blair, «fermare il traffico a Pechino». Ma i secondi rispondono che una star di prima grandezza sarebbe inutile e pericolosa. Avrebbe grandi ambizioni ma compiti mal definiti e andrebbe in giro per il mondo a prendere impegni che non riuscirebbe a mantenere.
Meglio sarebbe quindi scegliere un personaggio meno noto, ma laborioso, attento, paziente, capace di ascoltare il parere dei 27 soci e indurli a votare per la migliore delle soluzioni possibili. Il maggiore potere del presidente del Consiglio europeo sarà, dopo tutto, quello di preparare con il presidente della Commissione l’agenda delle riunioni del Consiglio. Un buon amministratore, in queste circostanze, è meglio di un brillante decisore.
La situazione dell’alto rappresentante per la politica estera è per certi aspetti migliore di quella del presidente. Dovrà scontrarsi spesso con le resistenze dei colleghi nazionali, tutti restii a spogliarsi delle loro prerogative, ma disporrà di un corpo diplomatico che è stato chiamato, per non indispettire le diplomazie nazionali, «servizio dell’azione esterna».
Non sarebbe ragionevole, quindi, riporre troppe speranze sugli effetti delle due nuove cariche per la spinta unitaria di cui l’Europa ha bisogno in questo momento. Ma è permesso fare almeno una domanda: perché mai, se le due cariche sono così modeste, tante persone di qualità fanno la coda nella speranza di conquistarle? Vi sono stati altri casi in cui una carica ha offerto a un uomo l’occasione di valorizzare se stesso e le proprie funzioni. Potrebbe accadere anche questa volta.