Giuliano Ferrara, Panorama, 12 novembre 2009, pag. 72, 12 novembre 2009
C’ERA UNA VOLTA L’INCHIOSTRO. ORA IL FANGO - GIULIANO FERRARA PER PANORAMA 12 NOVEMBRE 2009 PAG. 72
I giornali sono stati il mio latte, i miei biscotti, la mia precoce pappa intellettuale e psicologica. Infanzia, adolescenza e poi giovinezza, maturità, incipiente vecchiaia: l’adorazione dei giornali ha avuto per me, in ogni stagione della vita, qualcosa di patologico.
Da piccolo facevo un quotidiano infantile incollando con la Coccoina, su carta da impaginazione procurata da mio padre, gli articoli scritti a macchina. Mostravo il giornalino al mondo dei grandi, e mi vantavo dei complimenti di Palmiro Togliatti e Gian Carlo Pajetta e dell’editore comunista Amerigo Terenzi. Testata ambiziosa e poco disneyana: La questione. Titoli e sommari tracciati con pennarelli di cui ricordo il profumo inebriante. Da grande ho fatto con un gruppo di amici un giornalino piccolo, appena meno artigianale del primo, con i complimenti di un ristretto circolo di lettori.
Io proprio non capivo come potessero esistere esseri umani che non leggessero i giornali, addirittura. O che non li leggessero come prima cosa al mattino. Con la concitazione per l’elenco dei fatti e la passione per l’interpretazione, il commento, che in me erano fattori vitali, di spinta, di energia, capaci di guidare l’immaginazione, il comportamento, le scelte, il ritmo stesso del tempo e della vita. Ho imparato il francese leggendo con un brivido di piacere il Monde e il suo Bulletin de l’étranger (editoriale di prima pagina non firmato, sempre dedicato alla politica estera e al posto della Francia in Occidente e nel mondo), ben prima di avere anche solo leggiucchiato Michel de Montaigne e Blaise Pascal. Ho divorato tonnellate di Unità, Paese Sera, Corriere della sera, Stampa, Repubblica, Manifesto, Giornale, infine i quotidiani inglesi e americani, quelli tedeschi, e mi sono fatto sulle loro colonne un’idea magari imprecisa, fallibile, spesso stupida, ma sempre gratificante, del mio posto nell’universo e del posto del mondo nell’animo mio.
Maledicevo i giorni di festa in cui «non escono i giornali», trovavo provvidenziale che in America escano 365 giorni l’anno, senza eccezione (mia moglie, che è americana, mi dice: «Se non escono i giornali, da noi la gente pensa a un colpo di stato»). Ancora oggi per me la data del giorno si verifica sul giornale, quella sul monitor del computer o sul display del BlackBerry potrebbe essere sbagliata. E anche i cinema, le farmacie, altri dettagli utili si cercano lì, tra le pagine di cronaca. Niente è veramente qualcosa se non sia stato impaginato. L’impaginazione è l’ordine delle cose.
Succede adesso questo. L’ordine delle cose è saltato. Al mattino ho dismesso l’abitudine di farmi portare la mazzetta di giornali e riviste, l’edicolante non viene più come faceva regolarmente, sereno o pioggia non aveva importanza, e non chiama l’ascensore prima delle 7 per depositarvi il mondo impaginato in 10, 12 testate, aspettando che il malloppo sia richiamato dal sesto piano per la presa in carico, e l’avida lettura.
Leggo libri, al mattino presto. Poi mi preparo e ai giornali mi avvicino da professionista, in ufficio, ore dopo la sveglia. Li leggo, certo, ma in modo svogliato, lo sfoglio mi dà il cordoglio, titoli e attacchi dei pezzi mi provocano spesso la nausea, per via della monotonia, della mancanza di sfumature e veri conflitti, per la fragilità faziosa degli argomenti, per la lingua insieme fiacca e belluina in cui sono scritte certe corrispondenze, certe notizie; e il correttivo un po’ esotico dei quotidiani e dei news- magazine inglesi americani francesi e tedeschi, con quello spaesamento letterale che fa bene all’anima e ti concede tregua dal chiacchiericcio nazionale, non è sufficiente a correggere, in uno psicopatico dell’informazione cartacea, l’aria di fine regno che grava sugli amati giornali.
A me, tra l’altro, il giornalismo italiano è sempre piaciuto, con tutti i suoi elzeviri e accademismi, con i suoi imbrogli e bassi politicismi. L’omnibus longanesiano in cui si stipa un po’ di tutto, con sarcasmo, ribalderia, malizia, spavalderia, non è affatto estraneo al mio carattere. E non sono uno snob.
La storia che vi racconto è personale, minima, privata, ma la morale è collettiva, pubblica. Sono circondato da persone che, come me, sono stufe di qualcosa, quando si parli di giornali. Magari li amano meno, meno morbosamente, e questo attenua il sentimento di delusione cocente che provo io. Ma la reputazione delle gazzette non era mai scesa così in basso, vendite e crisi a parte. Non è la concorrenza del web, luogo di delizie ma anche d’impostura, un paradiso che ha il risvolto simmetrico della cloaca. Non è la concorrenza della televisione, che trionfa nel «reality» e nella «fiction» ma nella realtà, nell’informazione, arranca, gode di una credibilità non proprio luminosa. proprio la mazzetta dei giornali che non è mai stata così pesante, così leggera, così disutile.
Da qualche mese, per reazione a una campagna ostinata e destinata inevitabilmente al fallimento, quella di Repubblica contro le abitudini private di Silvio Berlusconi e il loro riflesso pubblico, siamo addirittura immersi nella notizia canaglia, nel pettegolezzo, nella diffamazione generica. Quella nausea che veniva da lontano, forse dalla fine delle ideologie, da una curva banalizzante della storia umana, dall’età del lettore, dall’omologazione sciapa e secolarizzante dello spirito pubblico, dalla crisi della scuola e dell’istruzione alta, da una tendenza pericolosa a mettersi sotto le scarpe il sense of humour, dalla scomparsa dell’identità nazionale, quella nausea ora è ravvicinata, rende veramente contaminante la lettura di certi articoli, la ratifica dell’insistenza su certi dettagli, l’imbarazzante manifestazione di interesse, di curiosità incivile e privata senza alcuna giustificazione pubblica, per i fatterelli degli altri, specie sessuali.
I giornali, in altri termini, tendono a coincidere con la caricatura che ne hanno sempre fatto i grandi scrittori che li hanno scorticati, da Balzac a James, e sono diventati agenzie di delazione senza gloria (il giornalista-spia è una figura che mi piace, le affinità tra i due mestieri sono affascinanti: ma è altra cosa).
Secondo me quelli che fanno i giornali queste cose le sanno, compreso il direttore di Repubblica, e condividono il mio smarrimento, la mia noia mortale. Non sanno più come fermare le macchine, questo è il problema. Cercano scusanti e argomenti a difesa, si riparano dietro il contagio morboso che ha investito altri giornalismi e altre culture.
Ma non è vero che la polemica contro la violazione della privacy la facciamo noi berlusconiani, e solo quando si tratti di colletti bianchi o comunque dei «nostri», mentre la dimensione pubblica e scandalosa dei comportamenti privati è oggetto di uno screening particolarmente rigoroso sulla stampa di opposizione o di establishment. La faccenda dilaga, La Repubblica e i grintosi giornali della destra militante tendono a scambiarsi le parti, a farsi il verso, e così il tutto si trasforma, siamo entrati in una specie di transgiornalismo in cui ciascuno fa all’altro precisamente quello che non vorrebbe fosse fatto a lui.
Un conto è la denuncia di un giorno, di una settimana, di un mese, ma qui è diverso, l’accanimento ha qualcosa di puerile, il fango schizza, la coprolalia e la malalingua sessuofobica trionfano e vegetano nelle e tra le righe, il fenomeno riduce la soglia di considerazione per se stessi o di autostima di coloro che lo creano, che assistono al brutto spettacolo, che si voltano dall’altra parte.