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 2009  novembre 02 Lunedì calendario

UNA ROSA PER PAPA’, GIORNALISTA LIBERO - DAL LIBRO DI BENEDETTA TOBAGI + LETTERA DI STEFANIA CRAXI IN DIFESA DI SUO PADRE + RISPOSTA DELLA TOBAGI


Non ho ricordi di mio padre da vivo: è morto troppo presto. In compenso sono cresciuta assediata dall’immagine pubblica di Walter Tobagi.
A volte si trattava di rappresentazioni vere e proprie: ricordo il busto di bronzo inaugurato nel palazzo di un ente locale, che da piccola trovavo terrificante, oppure un ancor più terribile ritratto a olio di cui un artista sconosciuto aveva voluto omaggiare il nonno Tobagi. Era ricavato da una fotografia non molto riuscita di mio padre seduto alla macchina da scrivere.
Dalla vecchia Olivetti usciva un lunghis­simo foglio di carta bianco avorio che andava ad avvolgersi attorno al suo col­lo: non so se nelle intenzioni dell’auto­re dovesse simulare una stola vescovile, un regale ermellino o un cappio. In ogni caso, meglio la­sciar perdere.

Essere al centro di una tragedia pubblica aveva molti risvolti spiacevoli. Primo, mi collocava in una scomoda posizione di visibilità, del tutto inde­siderata. Secondo, avevo l’impressione che l’inva­denza di questa immagine pubblica, anziché avvi­cinarmelo e aiutarmi a conoscerlo, non facesse che spingere mio padre un po’ più lontano da me, come quando insegui un pallone tra le onde.
Chi era davvero Walter Tobagi? Perché lo han­no ucciso?
Mi ha confortato il fatto di non trovarmi sola nella difficoltà di dare un senso agli eventi. Che un giornalista progressista come lui sia diventato obiettivo dei terroristi di sinistra desta a tutt’oggi sconcerto. Ritrovo l’eco delle perplessità della mia infanzia nelle parole di un ex terrorista tedesco della Raf, che, guardando all’esperienza dei «com­pagni » italiani, si chiede perché mai, mentre in Germania si colpivano capitani d’industria ed ex nazisti, a sud delle Alpi sotto il piombo dei sedi­centi rivoluzionari caddero più spesso i riformisti. Con gli anni, gli elementi materiali del contesto diventavano per me più intelligibili, ma si faceva­no avanti problemi di comprensione più sottili e insidiosi.

Vi è un fenomeno caratteristico che interferi­sce con la memoria delle vittime del terrorismo (ma il discorso può essere esteso anche ai «cada­veri eccellenti» delle mafie): una vita intera viene risucchiata, come in un buco nero, dalla potenza di una fine tanto drammatica. L’identità della vitti­ma è schiacciata. Quel che resta è solo il simula­cro scintillante, ma vuoto, dell’eroe; nel mio caso, un martire della libertà di stampa. Tutto ciò rende assai più difficile capire chi fosse realmente il de­funto e tracciare un bilancio obiettivo della sua at­tività.

*** In una professione in cui tutti urlano, arringa­no e calcano i toni, mio padre parlava piano, a vo­ce bassa (...). La voce pubblica di mio padre riposa tutta intera nei suoi articoli. Noto una fraseologia ricca di espressioni come: «A me pare», «Si po­trebbe convenire», «Se guardiamo ai fatti degli ul­timi mesi», «Se consideriamo»: i tecnici li defini­scono «atti linguistici di cortesia positiva». Non ha il gusto del paradosso, predilige il tono discor­sivo, l’ironia velata. bravo, a raccontare. Le colo­riture efficaci sono divenute una cifra stilistica, co­me gli riconobbe anche Indro Montanelli. Negli articoli, una galleria di ritratti, freschi ed efficaci come schizzi a china.

Papà la sente tutta la responsabilità di parlare a centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Le sue convinzioni circa i compiti del giornalista si concentrano nella massima: «Poter capire, voler spiegare». Si sente vicino a quella che Bocca defi­nisce la funzione maieutica della stampa: «Aiuta­re la gente a tirar fuori quello che ha dentro», in­formare con l’intento di fornire al lettore gli stru­menti per ragionare e chiavi interpretative per in­tendere la realtà.

*** Scegliendo di montare tasselli poco chiari, si possono tessere trame verosimili, ma non verifica­bili, oppure riesumare polemiche già consumate contando sulla memoria corta dei mezzi d’informa­zione. Questo tratto accomuna molte vicende di ter­rorismo. Occorre cautela e profondo scrupolo, nel muoversi su terreni tanto scivolosi. In Italia manca davvero la verità intorno a troppe morti; trovo im­perdonabile abusare della buona fede di tante per­sone indignate senza motivazioni più che solide.
L’unico risvolto positivo in questa vicenda sfi­brante sta nel fatto che mi ha portato a inciampare senza volerlo nell’unica vera lacuna nell’inchiesta sulla morte di mio padre.

Questa volta la P2 c’entra sul serio, anche se non si capisce bene in che termini.
Il volantino di rivendicazione è stato analizzato in ogni maniera possibile, eppure, in tanto clamo­re, è passato sotto silenzio un fatto venuto alla luce nel marzo del 1981: copia del famigerato dattilo­scritto fu ritrovata nientemeno che dentro alla vali­gia sequestrata nella ditta Giole di Licio Gelli, a Ca­stiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo. Stava in una bu­sta sigillata con la dicitura, molto generica, «Rizzo­li - lettera Brigate Rosse», insieme ad altre cartelle selezionate di documenti riservatissimi, riguardan­ti tra le altre cose i piani di ricapitalizzazione e rias­setto proprietario del gruppo Rizzoli - Corriere del­la Sera, elaborati nei primi mesi del 1980 da Bruno Tassan Din con Licio Gelli e l’avvocato Umberto Or­tolani.

Vengo a conoscenza di questo fatto grazie alla meticolosità del senatore Flamigni, che lo menzio­na nel suo libro sulla P2, Trame atlantiche.
Provo stupore: in mezzo a tante polemiche, pro­prio sul volantino e sulla loggia P2, basate su indi­zi e suggestioni, com’è possibile che una notizia del genere non sia mai emersa? Temevo che la mia reazione nascesse da ingenuità. Quando ho visto le espressioni di sorpresa ogni volta che ho mostra­to i documenti a persone assai più esperte e smali­ziate di me, ho cominciato a preoccuparmi.

Lo stupore cresce quando scopro che la magi­stratura lo seppe subito. Il giudice istruttore Giulia­no Turone, responsabile della perquisizione con Gherardo Colombo, aveva girato il materiale al col­lega milanese incaricato dell’istruttoria sull’omici­dio Tobagi, Giorgio Caimmi: ritrovo la lettera d’ac­compagnamento, controfirmata per ricevuta in da­ta 14 aprile 1981.

Il magistrato Armando Spataro mostra sincera sorpresa: «Non ne sapevo niente, questa sembra effettivamente una lacuna», ammette. Mi mette su­bito in contatto col giudice istruttore. Caimmi se la ricorda, invece, la busta, ma all’epoca era impe­gnato a tempo pieno nel verificare con riscontri certosini le dichiarazioni dei pentiti. Caimmi si era occupato fino ad allora di cause di fallimento, do­po l’omicidio Galli dovette cominciare a occuparsi di terrorismo e gli toccò istruire il processo- mon­stre .

Del delitto Tobagi, ripete, si sapeva già tutto. «Non valutai che fosse un elemento rilevante», e la busta finì chissà dove. Nel fascicolo non riesco a trovarla. Mi viene spontaneo di obiettare che nel maggio dell’81 sulla vicenda P2 era caduto il gover­no, ma serve a poco. Spataro ha un’ironia triste ne­gli occhi mentre riflette ad alta voce: «Se anche avessimo voluto seguire la pista, cos’avremmo po­tuto fare, interrogare Gelli». Già.

Poco dopo, il tribunale di Milano fu obbligato a trasmettere l’inchiesta penale sulla loggia deviata – e tutti i documenti relativi – a Roma, dove di fatto si arenò. A settembre dello stesso anno, ven­ne costituita un’apposita commissione d’inchie­sta parlamentare presieduta da Tina Anselmi. Tra i membri, salta all’occhio il socialista Salvo Andò, uno dei deputati condannati per diffamazione per la campagna stampa contro i magistrati milanesi per la verità sull’ affaire Tobagi, esplosa nel conflit­to istituzionale del 1985 (nel 1987 ai reati fu appli­cata l’amnistia in grado di appello con la confer­ma del risarcimento dei danni disposto dal Tribu­nale in primo grado). Usarono ogni argomento possibile, tranne questo. Forse, come altri com­missari, non spese troppo tempo sui documenti acquisiti dalla commissione, nemmeno sul cor­pus centrale. Oppure tacque, e non dovrei stupir­mene: intorno alla loggia P2 sembra vigere da sempre la consegna di minimizzare e riportare tut­to al silenzio, al più presto. La commissione fece un lavoro straordinario, considerando l’enormità del compito. Quella particolare busta non poté es­sere oggetto di analisi specifiche.

 cominciata così l’ultima piccola odissea per ricostruire la storia di come e perché, tra i pochi e selezionati documenti che il maestro venerabile aveva impacchettato per portarseli via, ci fosse an­che il volantino di rivendicazione della «XXVIII Marzo » .

Sul come gli arrivò, c’è l’imbarazzo della scelta, tanto pervasiva era la presenza della P2 nel grup­po Rizzoli e al «Corriere». Mi sono concentrata al­lora sulle ragioni.

«C’è un metodo. La logica che guida Gelli nella costruzione del suo archivio è quella del ricatto e della disinformazione», mi spiega Giuliano Turo­ne. un uomo gentile, colto, limpido. In mezzo a tanti fantasmi, è uno di quegli incontri che mi ras­serenano. Mi serve a ricordarmi che l’Italia è fatta anche di tante persone come lui. Lo conferma il magistrato Elisabetta Cesqui, che riprese in mano l’inchiesta arenatasi, purtroppo con scarsa fortu­na. Se la ricorda bene, la busta: «Mi colpì che stes­se in mezzo a quei documenti sulla ricapitalizza­zione. Appariva incongrua». Rifletto sul contesto. I piani finanziari segreti conservati nella valigia fu­rono tracciati a partire dai primi mesi del 1980. Il gruppo versava in condizioni disastrose per gli in­teressi passivi, gravato da testate deficitarie come «L’Occhio» e il «Corriere d’Informazione». Il diret­tore generale Tassan Din però rifugge ogni deci­sione riguardo a chiusure e licenziamenti: il sinda­cato del gruppo Rizzoli è forte e fa molta paura, può paralizzare il «Corriere» per giorni, provocan­do perdite ingenti (...).

Mi tornano in mente i discorsi di mio padre, così vituperati: batteva sulle piccole grandi cose concrete, sui presupposti della libertà d’informa­zione, sulla necessità di affrontare sacrifici per avere testate dal bilancio sano, che non diventas­sero facile preda di «padrini» politici e finanziari. Per tenere a bada il sindacato poligrafici Tassan Din ricorre ad Adalberto Minucci, responsabile dell’informazione del Pci. Scelte vitali per il risanamento vengo­no colpevolmente rimandate, si batte la strada di manovre finan­ziarie illecite. Ai dirigenti allar­mati che lo invitano a tagliare i rami secchi, Angelo Rizzoli repli­ca: «Sto trattando la ricapitaliz­zazione del gruppo, non posso permettermi un Vietnam in azienda » .

La loggia esercitava la pro­pria influenza alternando le lu­singhe all’intimidazione. Forse, quel documento tra gli incarta­menti Rizzoli tradisce il proget­to di utilizzare i dubbi suscitati da quella morte provvidenziale per intimidire un po’ quel sindacato rosso così po­co governabile, un aiuto per tenere a bada i temu­ti «vietcong» con una manovra diversiva. Accanto alle seduzioni del direttore generale poteva essere funzionale far cadere sui sindacati l’ombra di un’accusa infamante: aver istigato, assistito, o quantomeno ispirato, l’omicidio di Tobagi.

*** Il mare d’inverno è il mio rifugio. Ci vado da sola. Quando sono stanca, confusa, l’acqua e la lu­ce mi calmano sempre. Guardando l’orizzonte, pri­ma o dopo, penso sempre a papà. Mi sembra che sia più vicino. Chissà come mai: dall’Umbria a Mi­lano, mare niente.

Poi ho capito. Una coincidenza curiosa come una conchiglia integra, perfetta, sbucata dalla sab­bia. Me l’ha regalata Marilisa, quasi una zia, men­tre mi portava in macchina alla stazione dopo una breve visita.

Le chiedo a bruciapelo: «Papà preferiva il mare o la montagna?» «Il mare. Andare in montagna gli piaceva per la compagnia, ma lui amava di più il mare. Mi ricor­do che una volta ha detto che gli piaceva soprattut­to il mare d’inverno, quando è tutto vuoto, e si possono sentire le voci delle persone sulla spiag­gia, in lontananza».

Ho pianto in silenzio mentre l’auto percorreva i tornanti al buio.

Un altro posto dove vado da sola è il cimitero. Anche lì mi sento in pace. Papà riposa nel paese d’origine della mia nonna materna, un cimitero piccolo, raccolto, lontano dai rumori, a misura d’uomo. Ci sono tanti alberi. Non è un posto tri­ste. Anche le lacrime, qui, sono un sollievo.

Quando mi succede qualcosa di importante, ri­taglio il tempo per andare a dirlo a mio padre, co­me farei se fosse vivo e abitassimo in due città di­verse.

Gli parlo. A volte parlo sul serio, seppure a bas­sa voce, per paura di esser presa per pazza. Biso­gna provare per capire che fa una grossa differen­za, lasciar uscire la voce. un rito dolce e liberato­rio.

Quando vado a trovare papà al cimitero mi pia­ce portargli una rosa, una sola, ma molto bella. In una delle infinite tonalità del rosa. La scelgo con cura prima di partire, ci metto del tempo, è impor­tante.

Non la lascio nel vaso, ma la incastro nella gra­ta di ferro battuto perché sia più vicina alla sua fotografia. La lascio lì accanto, come una carezza.

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Pubblichiamo alcuni brani tratti dal libro di Benedetta Tobagi «Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre», in libreria da domani per l’editore Einaudi (pagine 302, e 19).
Walter Tobagi, giornalista del «Corriere della Sera», è stato ucciso a Milano il 28 maggio 1980. Benedetta, che all’epoca aveva tre anni, ha lavorato sulle carte professionali e private del padre leggendo i suoi libri, i suoi articoli, gli appunti e ascoltando i ricordi di chi lo ha conosciuto. Il libro verrà presentato il 23 novembre a Milano (sala Buzzati, ore 18) in un incontro organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera. Con l’autrice intervengono Ferruccio de Bortoli, Miguel Gotor, Armando Spataro.

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LETTERA DI STEFANIA CRAXI AL CORRIERE DELLA SERA -

Caro direttore, il libro di Benedetta Tobagi mi ha profondamente offesa. Il Craxi cinico e codardo, speculatore dei sentimenti di amicizia e di fraternità che lei dipinge non esiste, è un’immagine falsa e diffamatoria. La Tobagi trae le sue convinzioni da fallaci sensazioni giovanili; a sei anni sbircia la madre impegnata in un severo colloquio con Bettino Craxi. Poi Bettino esce (Benedetta dice: messo alla porta) e lei vede la madre piangere. Più tardi, saprà che Craxi ha raccontato alla vedova Tobagi del ritrovamento, tra le carte del Servizio segreto militare, di una «soffiata», un appunto anonimo che indicava Tobagi nel mirino delle Br e quindi avrebbe potuto salvargli la vita. Logico che una simile rivelazione abbia sconvolto la signora Tobagi, ma Benedetta inventa un contrasto tra la mamma, che vorrebbe rivelare subito la cosa ai giudici che stanno processando gli assassini confessi di suo marito, e Bettino che vuole ritardare la rivelazione per servirsi dello scandalo a fini elettorali. La verità è semplicissima. Bettino non può sollevare uno scandalo per un appunto che è solo una fotocopia senza timbri di classificazione e riferimenti nominativi. Deve prima ritrovare l’originale, accertare l’autenticità del documento, cose che effettivamente fa; quando l’esistenza della «soffiata» è accertata, non esita a renderla pubblica. Nasce un duro conflitto con i giudici milanesi che hanno messo in libertà gli assassini di Tobagi e non vogliono sentir parlare di mandanti, che hanno preso per autentico il complesso volantino che ha accompagnato l’esecuzione, certamente non opera di Barbone, Marano o Morandini. L’Avanti, in prima linea nella battaglia, sarà duramente condannato. Sembra tutto chiaro, ma non per Benedetta. Non ha una parola di rimprovero per i giudici che hanno aperto la porta agli assassini di suo padre. Lei è rimasta a cullare «la bambina che mi porto dentro» e su quelle sensazioni costruisce i suoi arzigogoli. Sa che è Bettino a riempirla di regali ogni Natale ma quando la zia, nel negozio dove Bettino compra i giocattoli, la invita a dire al proprietario che cosa vorrebbe avere, lei le sferra un calcio perché non vorrebbe parlare. Poi però indica una grande tigre con gli occhi gialli e quando gli arriva a casa se la tiene anche se racconta che è un regalo dei nonni. Quando si trova accanto a Craxi per la ricorrenza del decennale della morte del povero Walter, narra che avrebbe voluto dargli una pestata (evidentemente ha il piede facile) e non lo ha fatto per buona educazione.

Un’altra farneticazione della nostra autrice: il ritrovamento, nell’archivio Gelli, di una copia del volantino di rivendicazione dell’assassinio (un fatto noto alla magistratura che non gli dà alcun seguito) la induce a formulare un sospetto infamante: che il dito puntato da Di Bella all’interno del Corriere, e le polemiche di Craxi e dei socialisti sui mandanti dell’omicidio, siano dirette a coprire i veri istigatori del delitto, Gelli e la P2, per screditare il «soviet» redazionale che comandava nel giornale. un sospetto che Benedetta Tobagi non ha il diritto di formulare. L’unica sua giustificazione è la sofferenza. La sua incapacità di uscire dal ruolo di figlia, il suo smarrimento di fronte a Mario Marano, l’uomo che con Barbone ha sparato, la confessione di stare «male, fisicamente» per i pensieri che la sconvolgono senza approdare a nulla indicano un quadro psichico particolare. Quando incontra per caso all’università un giovane che somiglia in modo impressionante a Marco Barbone e immagina che sia suo figlio, si strugge perché il figlio di un assassino non sia devastato come lei e confessa: «Una tentazione, forse la più orribile che mi abbia attraversato il cervello: li cercherò, parlerò con loro, gli scaricherò addosso il mio dolore per trascinarli con me nell’abisso del nonsenso. Ho immaginato di tutto». Rispetto la sua sofferenza, ma questo non le dà il diritto di spacciare per verità le sue allucinazioni.

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LE MIE RICERCHE SU CRAXI E IL CASO TOBAGI - LETTERA DI BENEDETTA TOBAGI DEL 6/11/09

Caro Direttore, inter­vengo in risposta alla lettera dell’onorevole Stefania Craxi pubbli­cata sul Corriere di ie­ri. Temo non abbia avuto modo di leggere il mio libro («Come mi batte forte il tuo cuore», Einaudi) e sia stata condizionata dalle im­precisioni di alcuni articoli appar­si su altri quotidiani.

Qualche chiarimento, per i let­tori. A partire da «fallaci sensazio­ni giovanili» («infantili» sarebbe più corretto) ho condotto una ri­cerca documentale su fonti giudi­ziarie, archivistiche e sulla stam­pa d’epoca riguardo tutti gli aspetti del caso Tobagi, dunque anche sul ruolo svolto da Bettino Craxi. Consapevole della necessi­tà dell’allora segretario del Psi di verificare l’autenticità del docu­mento ricevuto dall’allora mini­stro della Difesa Lagorio (una no­ta informativa. del 13 dicembre 1979 contenente minacce a Wal­ter Tobagi), ho cercato di rico­struire come si mosse: l’esito del­la ricerca fu la scelta di Craxi di servirsi di canali «informali», an­ziché percorrere l’iter istituziona­le, cioè affidare la verifica del do­cumento ai vertici dell’Arma, al ministero dell’Interno, alla magi­stratura. E aprì una campagna elettorale, agitando i sospetti de­stati dalla nota informativa.

Come scrittrice, ho lavorato col massimo impegno sulla scel­ta delle parole, e non v’è uso di termini quale «cinico». La figura di Bettino Craxi, alla cui ricostruzione si stanno dedicando diversi storici, è molto complessa. Come intuii già da bambina (p. 261; p.265: «Il segretario poteva ben essere sinceramente affezionato a mio padre. Ma era prima di tutto un uomo politico, celebre per le sue posizioni di rottura e capacità tattiche, e anche in questo frangente, mi pare, si comportò come tale»).

Nel libro formulo anche alcune ipotesi e riflessioni, con la massima cautela, ed esplicitando premesse e conseguenze: sono queste, le «allucinazioni» cui fa riferimento l’onorevole Stefania Craxi?

Molte pagine sono dedicate pu­re alle lacerazioni prodotte in me, nella mia famiglia e nella so­cietà dalla concessione della li­bertà provvisoria ai collaboratori di giustizia della Brigata XXVIII Marzo responsabile dell’omici­dio di Walter Tobagi (in particola­re a Marco Barbone e Paolo Mo­randini). L’ammirazione e il sen­so di responsabilità per la memo­ria di mio padre e il suo altissimo senso civico mi hanno portato a cercare di articolare con serietà le mie osservazioni critiche verso la magistratura, che pure non mancano, cercando confronto e dialogo con i magistrati, anziché scontro. Ho scritto un libro per mio padre, non contro qualcuno. Chi lo sta leggendo non avrà dub­bi, ne sono certa.