varie, 5 novembre 2009
MURO DI BERLINO
cinque pezzi -
CONTO ALLA ROVESCIA - • Il 9 novembre 1989 era iniziato del tutto simile ai giorni precedenti, con una ridda di voci e dubbi su cosa avrebbero deciso le autorità della Germania Est: l’attesa di novità e
la tensione per la situazione di stallo crescevano di ora in ora • Nel primo pomeriggio il regime decide di rendere note nuove procedure per il passaggio del confine, senza però far sapere nulla di preciso • Per le 18 viene indetta una conferenza stampa, nella quale viene data la notizia che
tutti i berlinesi dell’Est avrebbero potuto attraversare il confine con un appropriato
permesso. Inizialmente il provvedimento sarebbe dovuto entrare in vigore nei giorni
successivi, dando così il tempo di dare la notizia alle guardie di confine. • Alle 18,53 il corrispondente Ansa da Berlino Est - Riccardo Ehrman, nato nel 1929, oggi residente a Madrid - chiede da quando le nuove misure sarebbero entrate in vigore. Schabowski, ministro della Propaganda, cercò inutilmente una risposta nella velina del Politburo e non avendo ricevuto alcuna informazione azzardò: "Per quanto ne so immediatamente". Decine di migliaia di berlinesi dell’Est si precipitarono, inondando i checkpoint e chiedendo di entrare a Berlino Ovest. Fin dalla sera, dopo le 20, le guardie di confine iniziarono a tempestare di telefonate i loro
superiori, senza però ricevere risposte certe e univoche. • Tra le 20 e 30 e le 21 nella Waltersdorfer Chaussee inizia il passaggio dei primi cittadini dall’Est all’Ovest • Verso le 22 e 30 si apre il passaggio della Bornholmer Strasse, considerato fino alle ultime rivelazioni di questi giorni il primo varco nel Muro
Il Fatto quotidiano - 1/11/09
La cortina di ferro cominciò a scricchiolare nell’estate del 1989, quando apprendemmo che i turisti della Ddr (Repubblica democratica tedesca) in Ungheria e Cecoslovacchia non volevano tornare a casa. Dormivano nelle loro piccole Trabant, manifestavano di fronte alle ambasciate e agli uffici consolari della Repubblica federale di Germania, chiedevano di essere autorizzati a entrare nella loro patria occidentale. Il governo di Berlino Est minacciò interventi e sanzioni, ma gli ungheresi, dopo qualche esitazione, arrotolarono il filo spinato della frontiera con l’Austria e lasciarono che parecchie migliaia di tedeschi dell’Est (forse 80 mila) diventassero tedeschi dell’Ovest.
Qualche settimana dopo la scena si spostò a Lipsia, dove le chiese protestanti cominciarono a ospitare assemblee di cittadini che chiedevano la riforma della Ddr. E si spostò finalmente a Berlino in ottobre non appena il regime comunista dette il via alle solenni cerimonie per il quarantennale dello stato comunista tedesco. Pochi giorni dopo il Muro che aveva diviso dal 1961 la vecchia capitale fu preso d’assalto, ricoperto di graffiti, deriso, scavalcato e ridotto infine a una massa di reperti-souvenir che finirono sulle bancarelle.
Si trattò quindi, da Budapest a Berlino, di una grande rivolta popolare. Ma il quadro non sarebbe completo e le analisi diverrebbero parziali se dimenticassimo il ruolo che ebbero in quelle vicende l’Urss e il suo leader, Mikhail Gorbaciov. In primo luogo il governo comunista di Berlino Est non avrebbe tollerato la fuga dei suoi cittadini verso l’Ovest, e l’Ungheria non avrebbe aperto la sua frontiera con l’Austria, se il governo sovietico non avesse lasciato intendere ai suoi satelliti che le prove di forza, in quel momento, non erano gradite. In secondo luogo, la presenza di Gorbaciov a Berlino per il 40° anniversario ebbe il paradossale effetto di conferire alle manifestazioni dei riformatori un’aura di legittimità comunista. Era lui, in fondo, l’uomo che aveva lanciato la perestrojka; e vi fu persino un momento in cui al leader sovietico non spiacque essere considerato l’apostolo delle riforme.
In terzo luogo, le manifestazioni non si sarebbero felicemente concluse con la caduta del Muro se l’Urss non avesse dato ordine alle truppe dell’Armata rossa stanziate in Germania (500 mila uomini) di non muovere un dito. L’Urss aveva creato la Germania orientale, l’Urss dette un contributo decisivo alla sua morte.
Sergio Romano (Panorama, 5/11/09)
LA VERA BRECCIA FU APERTA ALTROVE
BERLINO - Quando e dove cominciò davvero a cadere il Muro di Berlino? Alla Bornholmer Strasse, nel nord del confine tra le allora due città, si è detto e pensato finora. No, i primi tedeschi dell´est a passare legalmente quella che era la frontiera più blindata d´Europa passarono altrove da Berlino est a Berlino ovest, cioè alla Waltersdorfer Chaussée, all´estremo sudorientale della "Barriera della vergogna". Lo sostengono alcuni testimoni dell´epoca, intervistati ieri sera in un lungo documentario della seconda rete tv pubblica tedesca, la Zdf. E subito esplode il dibattito: molti storici non ci credono, e citano documenti dell´epoca e dossier segreti della Stasi per smentirli. I testimoni, soprattutto Heinz Schaefer, un allora tenente colonnello delle Grenztruppen der Ddr, comandante sul luogo, e Andreas Wolf, uno dei primi che riuscì a passare, insistono: raccontiamo la verità.
«Il più bell´errore della Storia - Come cadde davvero il Muro di Berlino», s´intitola il documentario. Il cui eroe è appunto l´ex tenente colonnello Heinz Schaefer, della guardia di frontiera tedesco-orientale. «Quella sera del 9 novembre 1989», racconta davanti alle telecamere, «seppi dell´annuncio di Guenter Schabowski, membro del Politburo della Sed (il partito al potere a Berlino est, ndr), secondo cui nuove norme sui viaggi sarebbero entrate in vigore. Avevo visto in diretta tv la conferenza stampa in cui parlò di "frontiera aperta, da subito". Indossai in fretta e furia l´uniforme e mi recai subito al mio posto di servizio, il passaggio del Muro sulla Waltersdorfer Chaussée».
«Fu laggiù, sotto i miei occhi e quelli dei miei soldati, che i primi cittadini della Ddr passarono a Ovest», prosegue l´ex tenente colonnello Schaefer. «I primi - insiste - varcarono il confine aperto tra le otto e mezza e le nove di sera». Furono momenti difficili, un minimo errore in ogni decisione avrebbe potuto avere conseguenze gravissime».
«Chiamai subito il mio superiore diretto, il comandante di reggimento. Discutemmo la situazione, ascoltai i suoi ordini. Poi decisi di chiedere ai miei soldati di consegnarmi le armi d´ordinanza, volevo evitare o ridurre al minimo ogni rischio di escalation. Poco dopo, alzai la sbarra che ci divideva da Berlino Ovest, aprii la frontiera». Uno dei primi a passare, Andreas Wolf, conferma: «Sì, ricordo, dalle 20,30 la sbarra confinaria era alzata».
La storia della caduta del Muro va dunque riscritta? Il documentario della Zdf ieri ha offerto una nuova versione degli eventi di quella sera, ma i dubbi sono pesanti. Secondo lo storico Hans-Hermann Hertle, dopo anni di ricerche, la prima barriera aperta fu quella della Bornholmer Strasse. La sera del 9 novembre 1989, appunto, ma attorno alle 23,30. Il protagonista del momento fu Harald Jaeger, anche lui ufficiale delle truppe di confine. Si trovò di fronte alla pressione e al nervosismo crescente d´una folla enorme, che aveva visto la conferenza stampa di Schabowski e voleva passare. Jaeger decise di non opporre resistenza.
Un documento della Stasi, secondo il quotidiano conservatore Die Welt, proverebbe che la polizia segreta avrebbe preso allora la decisione di aprire il passaggio a Waltersdorfer Chaussée, ma solo nel quadro di un piano chiamato "soluzione valvola". Cioè usare l´apertura della frontiera per lasciar espatriare senza ritorno chi voleva andarsene, non per cambiare il regime. La Storia si tinge di giallo. La tv ricorda una telefonata che Schabowski fece il 29 ottobre 1989 a Walter Momper, allora borgomastro di Berlino Ovest. Ma l´esponente del regime orientale disse loro che norme sulla libertà di viaggio sarebbero entrate in vigore verso dicembre. E Momper informò subito il cancelliere Helmut Kohl. Chiunque abbia ragione, l´Ovest era impreparato. Gli ex soldati e gli ex fuggiaschi della Waltersdorfer Chaussée giurano di non sbagliarsi, né di confondersi nei ricordi. Ma le commemorazioni ufficiali, tra due domeniche, saranno a Bornholmer Strasse: Angela Merkel passerà l´ex confine, con a braccetto l´allora presidente sovietico Mikhail Gorbaciov e l´allora leader della rivoluzione polacca Lech Walesa.
Andrea Tarquini, Repubblica, 28/10/09
BERLINO 20 ANNI DOPO
Il passaggio della Bornholmer Strasse era uno dei più importanti, dei più frequentati, nella Berlino spaccata in due dal Muro. La frontiera tra Est e Ovest tagliava, esattamente in mezzo, il ponte d´acciaio a cavallo della ferrovia. A Est, nella zona comunista, si stendeva Prenzlauer Berg, un vecchio quartiere operaio in cui abitavano da anni artisti e intellettuali. A Ovest, nella zona capitalista, addossate a Wedding e Reinickendorf, le facciate delle case avevano colori più accesi, più freschi, di quelle di Prenzlauer Berg, dove i muri erano grigi, slabbrati e ancora graffiati dai proiettili della Seconda guerra mondiale. Là, nella tarda sera del 9 novembre 1989, il tenente colonnello della Stasi, Harald Jaeger, vice comandante del valico di frontiera della Bornholmer Strasse, esasperato dalla folla scalpitante, urlante, trattenuta con fatica, decise di arrendersi.
Era esausto. Aveva invocato invano per telefono ordini precisi dai superiori trincerati dietro risposte sfuggenti.
Sparare sulla gente? Neanche per sogno. I tempi erano cambiati, l´ufficiale della polizia politica lo sapeva. Ma non conosceva le nuove regole. Quattro giorni prima c´era stata una imponente manifestazione, a Berlino Est, ritmata da slogan che chiedevano democrazia, e il regime non aveva reagito. Inoltre si sapeva che da mesi decine di migliaia di tedeschi orientali aggiravano il Muro, raggiungendo la Germania federale attraverso l´Ungheria. E nessuno aveva impedito quelle evasioni di massa. Né le truppe sovietiche acquartierate nell´Europa orientale né gli eserciti nazionali erano usciti dalle caserme.
Mikhail Gorbaciov, insediato al Cremlino dall´85, aveva escluso la violenza per mantenere l´ordine nell´impero. L´Europa non avrebbe conosciuto la strage cinese della Tienanmen, avvenuta tre mesi prima a Pechino. Anche se quella drastica reazione non sarebbe stata del tutto sgradita ai leader ortodossi: a Honecker, a Husak, a Ceausescu, a Zivkov, rispettivamente al potere, o da poco sostituiti, a Berlino, Praga, Bucarest e Sofia. Budapest e Varsavia avevano invece già imboccato la strada del postcomunismo.
Il tenente colonnello della Stasi era in preda al dilemma: aprire o non aprire il valico? Nessuno dei suoi superiori aveva osato rispondere con chiarezza all´interrogativo.
E alla fine Jaeger capi che doveva assumersi la responsabilità. Accompagnando le parole con un largo gesto del braccio disse rivolto alla folla: «Andate pure, tutti fuori!» E ordinò ai suoi uomini di alzare le barriere. Un´ondata umana sommerse il ponte d´acciaio.
Non potendo usare le armi, l´ufficiale della Stasi non sarebbe comunque riuscito a contenere a lungo la folla. Intasava la Bornholmer Strasse fino alla Schoenhauser Allee. Ma Jaeger, appena alzata la barriera, fu colto dal dubbio. Aveva infranto la consegna alla quale si era attenuto per più di vent´anni? Per l´ennesima volta chiamò il suo superiore, il colonnello Ziegenhorm. Temeva un rimprovero, e, invece, Ziegenhorm gli disse laconico: «Bene!» E interruppe la telefonata.
La confusa, incerta situazione che regnava al passaggio della Bornholmer Strasse, dove si aprì la prima falla nel Muro berlinese, rifletteva quella del regime comunista tedesco, e in generale dell´intero impero sovietico in decomposizione. Quel giorno, quella sera, Berlino, più in particolare la Bornholmer Strasse, era il punto nevralgico di un sistema che sembrava destinato a durare secoli e che invece stava crollando. Non in seguito a una guerra perduta. Ma per la sua stessa natura. Il comunismo reale moriva di comunismo. Crollava con il Muro che aveva costruito. E cosi finiva, in anticipo sul calendario gregoriano, anche il secolo delle ideologie (il secolo breve) cominciato con la Grande guerra, nel 1914, e poi proseguito con tragici, storici colpi di scena: il naufragio sanguinoso della Russia zarista, l´avvento dei Soviet, il crollo dell´impero tedesco, la marcia su Roma, l´incendio del Reichstag, Auschwitz, il bunker-tomba di Hitler, il gulag, la guerra fredda, l´Europa divisa. All´improvviso, nel 1989, si è afflosciato come un fondale di cartapesta il simbolo concreto di quella divisione, ossia della sfida tra le opposte concezioni del mondo emerse nel ”900.
Ridurre la storia a cronaca, oppure elevare la cronaca a storia, è un´operazione che richiede coraggio e sfrontatezza. Ma è a volte un dettaglio di cronaca, un gesto o una parola, a provocare un avvenimento che determina una svolta della storia. Ben inteso un avvenimento ritardato, trattenuto dai tempi necessari alla sua maturazione. Il dettaglio caro al cronista, il gesto o la parola, fa da detonatore. A provocare la mobilitazione dei berlinesi dell´Est, quella sera di novembre, e a spingerli ad assediare i passaggi verso Ovest, come quello della Bornholmer Strasse, fu l´incauta battuta del portavoce di Egon Krenz.
Krenz era appena succeduto a Erich Honecker alla testa della Repubblica Democratica tedesca (DDR), la Germania comunista dell´Est. Al contrario di Honecker, destituito per la sua ortodossia, Krenz era allineato sulla politica di Mikhail Gorbaciov, basata su una graduale, parziale democratizzazione del sistema, nell´Unione sovietica e nei paesi satelliti. A Mosca c´erano già state elezioni semilibere. Krenz si adeguava alla glasnost, la trasparenza politica lanciata da Gorbaciov, trasmettendo alla televisione le conferenze stampa cui partecipavano anche i giornalisti stranieri. Come portavoce era stato designato Guenter Schabowski, responsabile a Berlino della SED (il partito comunista).
Milioni di berlinesi seguivano sui teleschermi, il 9 novembre, la trasmissione. Schabowski non era un esperto in comunicazione. Era impacciato. Anche perché le direttive che doveva illustrare erano incerte. Quella sera doveva annunciare il nuovo «decreto sui viaggi», destinato a favorire i passaggi attraverso i varchi del Muro. Disse che i permessi sarebbero stati rifiutati solo in casi eccezionali. Era chiaro che il governo allentava le redini sotto la pressione popolare. Un giornalista italiano (Riccardo Hermann dell´agenzia Ansa) chiese a partire da quando questi passaggi sarebbero stati possibili. Nella sua confusa risposta Schabowski farfugliò anche una battuta di enorme, storico peso. Forse gli sfuggì. Disse «von jetzt ab» («da adesso). C´era un´evidente contraddizione: se ci volevano dei permessi, sia pur agevolati, come si poteva superare il Muro «da adesso»? Vale a dire in quella stessa sera, quando tutti gli uffici erano chiusi?
Appena ascoltata la battuta di Schabowski, i tedeschi orientali hanno cominciato a discuterne il significato, prima davanti ai televisori, in famiglia, poi al telefono con gli amici, e più tardi sulle piazze. Cosa vuol dire quel «da adesso»? Che possiamo attraversare il Muro subito? Alle nove, quando era già notte, gruppi di giovani si sono presentati ai vari passaggi: al Checkpoint Charlie, a Heinrich-Heine Strasse, a Invalidenstrasse. Alcuni li hanno attraversati senza essere disturbati, sotto gli sguardi smarriti dei poliziotti. Neppure due ore dopo Ard, una tv occidentale, ha annunciato che dei tedeschi orientali avevano potuto superare il Muro «senza complicazioni». A quella notizia Berlino Est si è illuminata, la gente è uscita dalle case e si è incamminata verso la parte occidentale della città.
E´ raro capire l´importanza degli avvenimenti mentre si svolgono sotto i tuoi occhi. Vent´anni fa non si potevano avere dubbi: il comunismo reale stava ammainando la bandiera, settantadue anni dopo averla issata su Pietrogrado, durante la Rivoluzione d´Ottobre. Nel frattempo, da emblema di un´utopia quella bandiera si era trasformata in un muro di cemento, stile carcerario, lungo centosessanta chilometri. Quel giorno segnava il culmine di una lunga serie di avvenimenti concatenati uno all´altro, ma benché fosse chiaro il significato essenziale, non era ancora misurabile l´ampiezza storica di quel che accadeva. L´Unione Sovietica sopravviveva e la Germania restava spaccata in due. Il polverone che si alzava dalle macerie del comunismo era ancora troppo fitto per distinguere il nuovo panorama geopolitico.
L´emozione fu forte quando la mattina del 10 novembre l´Europa apprese che nella notte il Muro aveva cessato di essere una barriera invalicabile. Ma, non solo nelle cancelliere, alcuni pensarono e dissero (come François Mitterrand) che «ci sono dei momenti di felicità pericolosi». E si augurarono che quell´avvenimento storico, tanto carico di significati, venisse contenuto e che le sue conseguenze fossero dosate.
Frenate. La celebre battuta di François Mauriac, «Amo tanto la Germania da preferire che ce ne siano due», veniva pensata o ripetuta, non sempre sottovoce, a Londra, a Parigi, a Roma. Lo stesso George Bush senior, allora alla Casa Bianca, benché favorevole alla riunificazione tedesca, disse che «non bisognava ballare sul Muro». Bisognava essere cauti. Non avere fretta. Non soltanto a Berlino Est, anche a Bonn, capitale provvisoria della Repubblica federale, si puntava su «un processo di riavvicinamento controllato».
Il Muro era stato uno dei pilastri portanti del Continente diviso, il suo crollo poteva provocare imprevedibili mutamenti. L´Europa occidentale l´aveva condannato e vituperato, l´aveva giustamente indicato per quasi trent´anni (dall´agosto 1961, quando fu costruito) come il sinistro simbolo dell´impero sovietico, ma aveva prosperato alla sua ombra. L´Europa orientale l´aveva eretto e ufficialmente venerato, ma al suo riparo era deperita fino al collasso. I dirigenti dell´Est lo definivano un baluardo contro il fascismo mentre era di fatto una barriera per impedire un´evasione di massa dal comunismo, o se si vuole per arginare una corsa sfrenata al consumismo. Per questo era stato realizzato. Senza il Muro la Germania orientale avrebbe perduto gli strati più qualificati della società. L´esodo di tecnici, di medici, di scienziati stava dissanguando il paese, quando Nikita Krusciov, al potere a Mosca, consenti a Walter Ulbricht, al potere a Berlino Est, di realizzare il progetto che gli stava a cuore. Doveva essere una trincea e risultò un monumento prima carcerario e poi funebre. Per l´Occidente il Muro impediva esodi in massa che all´epoca si sarebbero rivelati costosi e fonti di complicazioni nei rapporti internazionali.
Se i sentimenti erano esaltanti, i calcoli economici e politici lo erano molto meno. Nella Repubblica federale c´era chi calcolava l´onere che avrebbe rappresentato il recupero post comunista delle cinque province orientali. La Germania comunista era economicamente disastrata: il suo debito esterno era vistoso, per rimpinzare le magre finanze il regime aveva accettato le immondizie capitaliste dell´Ovest, e le aveva sepolte nella splendida campagna della Turingia cara a Goethe. Sul piano economico Berlino Est dipendeva sempre più da Bonn. Il capitalismo renano aiutava il comunismo prussiano.
Dopo la notte del 9 novembre, quando la folla aveva superato il ponte di Bornholmer Strasse, era chiaro che la fine delle «due Germanie» era una questione di tempo. Ma nei movimenti di opposizione al regime comunista, compresi quelli animati dalle chiese luterane dell´Est, non mancavano gli idealisti convinti di poter trasformare l´esperienza neo stalinista in un laboratorio per tracciare una "terza via" tra il capitalismo e il comunismo. E c´erano, a Ovest, intellettuali come Guenter Grass che temevano gli effetti di una Germania unita.
Pensavano che essa potesse rianimare i vecchi demoni nazionalisti. Oskar Lafontaine, allora dirigente socialdemocratico di rilievo, si oppose apertamente alla riunificazione. E con lui lo stesso futuro cancelliere Gerhard Schroeder, sia pure con minor vigore.
Il democristiano Helmut Kohl puntò invece su una Germania unita e vinse la partita. Avanzò a tappe forzate, accompagnando lo slancio nazionale, emotivo, e nel rispetto dei principi espressi nella Legge fondamentale. Willy Brandt lo assecondò, convincendo anche quei socialdemocratici che erano tentati da soluzioni intermedie (ad esempio quella confederale) nell´attesa di una completa unità. Era difficile immaginare un nuovo modello di società, al posto di quello comunista fallito. L´alternativa era già pronta dall´altra parte del Muro. Era pronta anche la nuova moneta: Kohl cambiò il debole marco dei tedeschi orientali con il robusto marco occidentale. La riunificazione ufficiale, nell´ottobre ”90, assomigliò molto a un´annessione.
Il disagio di fronte a una rapida riunificazione era evidente a Parigi e a Londra. Margaret Thatcher e François Mitterrand erano su posizioni simili. A Roma Giulio Andreotti condivideva la loro perplessità, che a tratti sembrava avversione.
Infastidiva la prospettiva di rivedere al centro dell´Europa il gigante tedesco. L´asse centrale del continente, non più diviso, si sarebbe spostato a Est. Da Parigi a Berlino. La Francia avrebbe perduto la sua centralità e non avrebbe più avuto come alleata una Germania forte economicamente ma con i piedi politici di argilla. Ossia zoppa, mutilata, quindi docile, perché nell´impossibilità di riverberare la sua potenza economica sul terreno politico. Ma gli avvenimenti hanno galoppato. Hanno travolto ostacoli ed esitazioni. Nessuno poteva frenare il corso della storia.
Con il sostegno di Bush senior, grazie all´intesa infine raggiunta con François Mitterrand e l´accettazione indispensabile di Mikhail Gorbaciov, la riunificazione è stata rapidamente realizzata. Kohl si è impegnato con Mitterrand a promuovere la progettata unione monetaria europea. Come aveva contribuito a recuperare la Germania postcomunista, il marco è servito a rassicurare, sull´altra sponda del Reno, la nazione diventata la principale alleata europea, dopo essere stata l´avversaria storica. L´euro, nato dal marco, è la garanzia dell´ancoraggio tedesco al processo di integrazione europeo. Si può considerare la moneta unica come il frutto della caduta del Muro: come un impegno tedesco in cambio della riunificazione.
Resta nella memoria la magica atmosfera di Berlino, il 10 novembre, la mattina dopo l´ondata di folla sul ponte di Bornholmer Strasse. Dove la Kurfuerstendamm, chiamata più brevemente Ku´damm, la più divertente ed elegante strada di Berlino Ovest, esplode nei grandi magazzini, migliaia di coppie, di famiglie, con bambini e zaini in spalla, e la pianta della città tenuta come una bussola nella giungla, guardavano estasiate, ipnotizzate le vetrine, e nelle vetrine le scarpe, le mutande, le calze, i magnetofoni, le fotografie di un Erotische Filmprogramme, i blue jeans, i libri, i reggiseni; e con lo stesso stupore studiavano le Porsche parcheggiate lungo i marciapiedi, il berretto del vigile urbano, le insegne luminose, e tutto quel che si muoveva o era immobile nella città della cuccagna: l´ambulanza che passava a sirene spiegate, come il semaforo spento in segno di rassegnazione nel caos del traffico ingovernabile. Questa era Berlino Ovest nelle ore che seguirono la caduta del Muro.
Gli Ossis, come sarebbero poi stati chiamati con sufficienza i tedeschi orientali, scoprivano nella realtà la vita dei Wessis, i tedeschi occidentali. L´avevano scrutata per anni sui teleschermi, seguendo tutte le sere, nel segreto delle famiglie, i programmi occidentali a lungo vietati e poi via via tollerati e infine permessi da Honecker, il guardiano del comunismo di guerra, ormai nell´impossibilità di impedire alle trasmissioni di scavalcare il Muro, invalicabile per gli umani. L´attrazione esercitata nelle prime ore, nei primi giorni, dal consumismo, si è poi lentamente rivelata meno irresistibile. E tra Ossis e Wessis non è mancata una certa ostilità. I Wessis, cresciuti nella democrazia e nel capitalismo, hanno via via disprezzato gli Ossis post comunisti. E gli Ossis hanno maturato il sentimento di essere stati «comperati» dall´Ovest, e di essere stati privati di tante cose che rendevano la vita mediocre ma facile: gli asili infantili, i grandi magazzini carichi di prodotti scadenti ma a basso prezzo, i ritmi di lavoro non troppo competitivi ma neppure troppo faticosi. Né è nata una vaga "ostalgia" per il passato. Non quello politico. Ma per un passato che è parte di un´esistenza lontana il cui ricordo, sempre più vago, serve a difendersi quando il presente diventa difficile.
Bernardo Valli, Repubblica, 4/11/09
LA DOMANDA CHE FECE CROLLARE IL MURO
(*Telese ha scritto sempre ”Ehrmann” ma è ”Ehrman”) - BERLINO EST, 9 NOVEMBRE 1989. La cosa divertente, con il senno del poi, è che Riccardo Ehrmann sta per arrivare tardi all’appuntamento con la storia.
Se non altro perché non può nemmeno
ipotizzare di averlo. Non immagina, il
pomeriggio 9 novembre del 1989, mentre cerca affannato
un parcheggio per la sua piccola Fiat (preoccupato per il
fatto che la conferenza stampa a cui sta andando sia già
iniziata) che pochi minuti dopo, proprio lui, avrebbe fatto
la domanda che ha determinato, quel giorno, la caduta del
muro di Berlino. Anche per questo, ancora oggi molti ”
soprattutto in Germania – faticano ad accettare il fatto che
’il Secolo breve” si si chiuso per un incrocio di fattori casuali
e ineluttabili: il vento della protesta che spirava nelle
piazze della capitale tedesca, gli strappi di Gorbaciov e la
sua perestrojka, una Trabant che lascia libero uno spazio
nel parcheggio del ministero degli Esteri, un foglietto scritto
male, un equivoco, la telefonata di ”un sottomarino” e
un banale problema di sovrapposizione ferie. E – soprat -
tutto – per la risposta improvvisata di un leader della Germania
dell’est alla domanda di un giornalista italiano: lui.
Quel giorno Riccardo Ehrmann aveva sessant’anni. Oggi
ne ha ottanta, ma la sua memoria pare inossidabile. Si è
trasferito in Spagna il paese di sua moglie Margarita, dopo
aver girato mezzo mondo. Il suo destino – come scopriremo
presto – si è incrociato tre volte con quello della storia
tedesca. Dopo aver rischiato di finire nei camini da bambino,
e dopo che, seduto sui gradini sotto il tavolo di una
sala convegni in quell’indimenticabile 1989 ha incalzato il
portavoce del governo Gubnther Schabowski fino a fargli
dire ciò che non era preventivato. Per anni – malgrado esista
una registrazione televisiva – ben cinque giornalisti
hanno rivendicato il merito di quel botta e risposta. Eppure
Riccardo ha mantenuto segreto, per due decenni, il
retroscena che lo mise sulla pista giusta, per non rivelare la
fonte che lo aveva imbeccato quella mattina. Ha raccontato
tutto solo un anno fa, quando Gunther Potsche (l’uomo
che lo mise sulle tracce della storia) è morto, pur di non
infrangere il patto di lealtà con Potsche.
Riccardo è leggenda quello che scrivono i libri di storia
sulla caduta del muro: lei stava arrivando tardi?
’No, tutto vero. Quel giorno ho girato a lungo nel parcheggio
del ministero: non trovavo posto. Ho guardato l’orologio.
Mi sono detto: ’Non faccio in tempo’”.
E invece?
’Invece all’ultimo momento una macchina uscì, liberandomi
una piazzola. Per questo, come si può vedere anche
nelle foto di quel giorno, non trovai una sedia libera, sedendomi
alla base del podio degli oratori, sui gradini”.
Avevi avuto una soffiata decisiva, quella mattina.
’Oh caspita! Ero nel mio ufficio di corrispondenza, quando
il telefono aveva squillato. Dall’altra parte dell’apparecchio
una voce: ’Sono l’uomo dell’U-boot!’. Eh, eh..”.
Il ”sottomarino”.
’Già. E io risposi: ’So perfettamente chi sei’”.
E chi era?
’Era un alto dirigente del partito con cui ero in confidenza.
Per venti anni non ho rivelato il nome. Ma ora Gunther
Potsche è morto, il mio patto di lealtà si è rescisso”.
Che ruolo aveva Potsche?
’Era il direttore dell’Adn l’agenzia di informazione della
Germania dell’Est. Ma anche uno dei ’rinnovatori’: ovvero
il gruppo che sperava di salvare la Rdt con le riforme”.
Perché quel nomignolo? Vi conoscevate?
’Il telefono era sorvegliato, e lo sapevamo entrambi. E poi
perché la sede dell’Adn era nei sotterranei del palazzo dell’informazione:
senza finestre, dunque lo U-boot! ”.
Cosa le disse Potsche di così importante?
’Mi rivelò che c’era un grande dibattito nel gruppo
dirigente del partito: che il giorno prima si erano decise
graduali aperture nella legge di viaggio che di
fatto impediva l’espatrio ai cittadini della Ddr”.
Chi erano i rinnovatori?
’Il gruppo che aveva appena spodestato Eric Honecker.
Si rifacevano agli ideali della p e re s t ro j k a : erano
sinceramente convinti di poter salvare il loro regime”.
Li conoscevi bene?
’Sì. Avevo un rapporto di amicizia con Klaus Gysi, ex
ambasciatore a Roma, padre di Gregor, attuale leader
della Linke . Poi c’era Egon Krenz: l’uomo che aveva
preso il posto di Honecker, era il più ambizioso. Schabowski,
l’uomo che mi ritrovai di fronte quel giorno,
il più intelligente. Faceva il giornalista, aveva preso
in mano Neus Deutchland, l’illeggibile giornale del
partito facendone un riferimento: con questi dirigenti
era possibile scambiare delle idee”.
Ti avevano regalato un scoop di portata mondiale,
pochi giorni prima...
’Un’altra soffiata di poche parole: Guarda che Honecker
non ha accompagnato Gorbaciov in aeroporto...’.
La notizia aveva fatto il giro del pianeta”.
Era ancora un paese della cortina di ferro, con un clima
alla Le Carrè?
’C’ero stato, la prima volta, nel 1976. Poi ero andato in
India nell’82, nell’85 di nuovo a Berlino, quasi per caso:
pare che nessuno dei colleghi trasferibili sapesse il tedesco!
Un aneddoto?”.
Cer to.
’Un giorno uno degli addetti diplomatici dell’ambasciata
americana mi dice: ’Vuoi che ti bonifico
l’appartamento?’. Risposi di sì, ma non immaginavo
di essere così controllato”.
Cosa scopriste?
’Mi mandò un tecnico con un rilevatore. Trovammo
un microfono in ogni stanza. E ben due,
chissà perché, in camera dal letto”.
La aiuto a rimuoverli?
’Scherzi? Non li toccammo. Avrebbe significato
diventare sospetti, li avrebbero rimessi subito.
Molto meglio sapere dov’erano, per regolarsi. Però...”.
Cosa?
’Un giorno non resistemmo: io e mia moglie eravamo
allora in uno stato di vigore adeguato e, prima
di concederci un momento di intimità gridai: ’Adesso
aprite il stereofonia che inizia uno spettacolo int
e re s s a n t e ! ’ ”.
Una zingarata.
’Pochi giorni dopo un dirigente del ministero dell’informazione
mi sussurrò con un sorriso: ’Siamo lieti di
sapere che lei ha una vita familiare così vivace, herr
Erhmann...’”.
Torniamo al 9 novembre La conferenza stampa
è in diretta sulla tv tedesca, e tu inizi a martellare
il povero Schabowski...
’Lo attaccai ripetutamente sulla legge che era in vigore
fino a quel giorno: permetteva solo teoricamente l’espatrio
’per chi possedeva un visto e un passaporto’. Peccato che
nessuno li avesse. E se li chiedevi, finivi automaticamente
sulla lista nera della Stasi”.
Lei rimproverò questo a Schabowski.
’E poi gli chiesi se ci sarebbero state delle novità nelle
regole. Non voglio dire che ci volesse fegato ma...”.
Ce ne voleva. Tant’ è che lui in affanno rispose...
’Disse la fatidica frase. Che i viaggi sarebbero stati possibili
Ad sofort. Ovvero: ”con effetto immediato”.
Sì è scritto che Schaboski aveva ricevuto un fogliettino
di Krentz, che lesse male...
’L’unica cosa certa è che nessuno era preparato. Luistesso
era tornato appena dalle vacanze. Harald Jäger
l’ufficiale che presiedeva uno dei varchi più importanti
di Bornholmer Strae ha raccontato che apprese tutto
dalla tv. E che dopo aver sentito il nostro botta e
risposta ordinò: ”Su la sbarra’”.
Avrebbe potuto verificarsi un carneficina.
’Invece dopo tre ore il muro non esisteva più”.
Quanto contò il caso?
’Molto. Ma anche poco. I tempi
erano maturi. E i rinnovatori avevano
in ogni caso deciso”.
Cosa si prova ad aver fatto lo scoop del secolo?
(Sorride)’Quel giorno corsi a telefonare.
Scrissi nel pezzo che quella frase
’equivaleva alla caduta del muro’. Seppi
dopo che, comprensibilmente, alla redazione esteri di
Roma avevano commentato: ”Ehrmann è impazzito’”.
La fortuna non esiste?
’Esiste. Ma quella domanda era anche frutto di una
lavoro meticoloso, e di una grande conoscenza della
Ddr. Nulla si improvvisa”.
Lei ha più rivisto Schabowski?
’Sì. E’ finito a fare il cronista locale. Mi disse: ”Lei mi ha
regalato una ispirazione’. In qualche modo è vero”.
Eppure, se Riccardo Ehrmann fosse arrivato in
Germania da bambino, non avrebbe mai fatto
quella domanda.
’Sono fiorentino. Ma il mio è un cognome ebrea-polacca.
Nel 1942 a 13 anni venni deportato in un campo
di concetramento a Ferramonti, in Calabria. Io e i miei
genitori fummo liberati dagli alleati. Il resto della mia
famiglia non esiste più”.
E possibile che alcuni tedeschi mettano in dubbio
il suo ruolo per questa sua origine?
’Spero di no. Ma se, è vero, mi fa un piacere immenso
aver fatto io quella domanda”.
Luca Telese, Il Fatto Quotidiano, 1/11/09