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 2009  novembre 04 Mercoledì calendario

IL VERO GALILEO DEL XX SECOLO


A un intervistatore, Claude Lévi-Strauss ha raccontato che prima ancora di essere capace di camminare, e molto prima di saper leggere, dal fondo della carrozzina condotta dalla madre aveva identificato nelle prime tre lettere dell’insegna di un macellaio (boucher) e quelle del panettiere (boulanger) la medesima forma: bou. Cercavo, diceva, già a quella età delle invarianti. Tutto il lavoro del grande antropologo francese sta in quel gesto: cercare le permanenze in ciò che muta, si tratti di un rituale, una maschera, un sistema culinario o di un tabù sessuale, l’incesto. lo strutturalismo; e come ebbe a chiosare Roland Barthes, nel 1962, «l’uomo strutturale prende il reale, lo scompone, poi lo ricompone».
L’antropologo come bricouler: arrangiarsi con quello che si ha disposizione, e costruire nuove strutture con i residui delle precedenti. L’idea che ha guidato Lévi-Strauss nella sua lunga vita di studioso e di scrittore è di cercare le costanti che si nascondono sotto le somiglianze, investigando il nesso che lega le cose tra loro, al di là delle apparenze. Detto così sembra astratto, in realtà è stato un uomo di grande sensibilità, dedito all’osservazione dei fatti minuti. Il suo sforzo intellettuale era di trovare ciò che è comune alle culture umane rovesciando le pretese dell’antropocentrismo. Un vero e proprio Galileo del XX secolo, ha assestato un colpo mortale all’umanesimo narcisista, alla convinzione che ci siano culture superiori, più progredite e avanzate di altre. Una sua celebre frase suona così: «Il fine ultimo delle scienze umane non consiste nel costruire l’uomo ma nel dissolverlo».
Pensiero profondamente laico, il suo, figlio dell’Illuminismo, che cerca di demolire la convinzione giudaico-cristiana, ma anche cartesiana, che «la creatura umana è la sola a essere creata a immagine e somiglianza di Dio». Il decentramento dell’uomo, la sua relativizzazione rispetto alle invarianti costituite dalle «strutture dello spirito umano», fa di Lévi-Strauss, ebreo non credente, uno dei punti più forti della cultura del ”900. Il suo anti-etnocentrismo lo portava a scrivere che non sono gli uomini a pensare i miti, ma viceversa: i miti stessi pensano gli uomini, e per lo più a loro insaputa.
Nessuno come lui negli ultimi 60 anni ha influenzato la filosofia e la storia, la psicologia e la critica letteraria, la semiologia e la sociologia, la storia delle religioni e la psicoanalisi, le arti visive e la musica. Nel suo pensiero, come ha scritto con acume Susan Sontag, c’è qualcosa di virile - l’antropologia come una delle poche professioni intellettuali che non richiedano il sacrificio della virilità, dal momento che esige coraggio, desiderio d’avventura e resistenza fisica - e insieme anche il contrario: il desiderio di raffreddare ciò che è caldo, ovvero l’angoscia che la crescente civilizzazione ha portato negli uomini. Le società calde, secondo una definizione che ha fatto scuola, sono quelle moderne, «spinte dai demoni del progresso storico», mentre fredde sono quelle primitive: statiche, cristalline, armoniose. L’antropologo è per lui l’uomo che oscilla come un pendolo tra i due sistemi, qualcuno che non può mai sentirsi a casa sua in nessun luogo, e che sarà, psicologicamente parlando, sempre un minorato.
Nel 1962, quando gran parte del suo lavoro era dispiegato, ma non concluso, la Sontag intitolava giustamente il suo saggio su di lui «l’antropologo come eroe», mettendo in luce come il nemico di Lévi-Strauss fosse la storia, quella stessa che nell’arco di trent’anni aveva distrutto e ingoiato i popoli amazzonici, i suoi amati Nambikwara, nudi, poveri, nomadi e belli. Nonostante l’apparente freddezza del pensiero, l’antropologo francese è stato un grande esteta. Grande scrittore prima di tutto, autore di uno dei capolavori assoluti del Novecento, Tristi Tropici: insieme racconto, autobiografia, meditazione e libro di viaggi. Pessimista radicale, Lévi-Strauss è stato un amante assoluto della libertà, e come ricordava Italo Calvino recensendo uno dei suoi libri dal titolo programmatico, Lo sguardo da lontano, il fondamento della libertà stava per lui «in quel pulviscolo di piccole ineguaglianze, abitudini, credenze, che i pianificatori della libertà hanno fatto di tutto per far scomparire». Una lezione importante in tempi di massificazione come i nostri.